La storia dell’emigrazione siciliana in America, fra Otto e Novecento, prima “dolorosa” e poi per molti “gaudiosa”, oltre ad offrirsi, grazie ad un ormai imponente catalogo storiografico, come narrazione avvincente di vita nuova, credo sia oggi più che mai utilizzabile come una delle possibili chiavi di lettura non solo delle drammatiche migrazioni dei nostri giorni dal Nord Africa alla Sicilia, e dunque all’Europa, ma anche per capire la società complessa e i suoi flussi culturali e interetnici globali, in cui tutti noi siamo immersi.
Un’interazione, quella fra passato e presente, quanto mai necessaria, a me pare, per leggere se possibile pezzi della “contemporaneità”, e dunque, prendere consapevolezza delle mutazioni identitarie e del necessario confronto con “l’altro da sé” e con “l’altrove”, il “vicino” e “lontano”, il “globale” e il “locale”, geograficamente e virtualmente parlando, per una nuova rappresentazione della società umana.
E su questo versante davvero emblematica si configura dunque la rivisitazione della storia dell’emigrazione siciliana in America, innanzitutto per il virtuoso esempio di integrazione ed emancipazione culturale che mostra, e per le tante variabili che mette in gioco, offrendosi come straordinario specchio, dove far riflettere anche le dinamiche della multiculturalità, contaminazioni e meticciati del nostro tempo.
La riscoperta dell’America, attraverso l’osservazione del vissuto esistenziale degli emigrati, consente infatti di comprendere ab origine le ragioni storico, sociali, economiche e familiari che hanno spinto tra Otto e Novecento milioni di siciliani dall’Isola verso il sogno americano, ridisegnando a contatto con la nuova cultura, non solo una nuova identità, che non ha mai rinnegato le origini, ma anche un nuovo modello di vita e un futuro dignitoso, e spesso di successo per i propri figli.
Facendo riferimento alle più accreditate fonti storiche e iconografiche è possibile così rileggere il “film” dell’emigrazione siciliana in America, dalla dolorosa spartenza dai porti siciliani a bordo dei piroscafi all’arrivo, salutato dalla statua della libertà di New York, ad Ellis Island cancello del sogno americano e isola del pianto. E ciò consente di osservare i nostri emigranti dal primo approdo alla dura realtà lavorativa americana, ai momenti di aggregazione sociale e di strategia collettiva per affermare con orgoglio la propria origine siciliana. Affidandosi a cronache d’epoca e a testimonianze di primo mano emergono così i legami con la cultura d’origine, seguendo l’ininterrotto “filo di comunicazione” con la Sicilia, da dove tutto ha inizio.
Volgendo poi lo sguardo agli spazi di socializzazione delle famiglie e delle società di mutuo soccorso, ecco che siamo attratti nei contesti di festa dai suoni e dalle voci di quel rivoluzionario prodotto culturale di largo consumo che è stato il disco a 78 giri. Straordinario vettore di immaginario collettivo, il disco, come bene culturale democratico alla portata di tutte le tasche, ci restituisce fedelmente la singolare koinè culturale, esito dell’incontro fra i diversi linguaggi musicali d’oltreoceano, dai quali sgorga prepotente e rivoluzionario il jazz, attestando ai massimi livelli creativi un formidabile sincretismo fra Africa, America ed Europa.
Materia intangibile, quella musicale, eppure elemento costitutivo nei processi di ridefinizione dello status individuale e collettivo e dei nuovi profili antropologici. Soffermarsi ad ascoltare dischi significa, infatti, giungere alla sorgente originaria della popolar music che ha rivoluzionato l’immaginario musicale planetario del Novecento. Un primo caso esemplare di globalizzazione dell’industria culturale, quello del disco, con evidenti tracce di incontro virtuoso fra le diverse tradizioni musicali, portate nel bagaglio a mano di ogni emigrante europeo nel varcare il mare. Un contenitore culturale capiente, quel disco di vinile, dove trovano posto altre ragioni, anche di natura simbolica, e tracce significative di nuove mode e comportamenti sociali, e perfino di rivendicazioni politiche e sociali. E di musica in musica è possibile giungere fino alle dolorose vie dell’emigrazione del nostro presente. Perché anche oggi, la musica, nonostante la colonizzazione platenaria dello star system, mostra nei localismi ritrovati spazi significativi di resistenza all’insegna della ricerca della patria perduta. Tema complesso e controverso quelle delle origini e dell’identità culturale del contemporaneo, sempre più sfuggente, cangiante e liquida, ininterrottamente ridefinita in un puzzle dai contorni sfrangiati, fra permanenza e variabilità, tradizione e innovazione, sul quale necessariamente glissiamo.
La spartenza dalla terra d’origine per cercare fortuna nelle remote Americhe, a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, costituisce dunque per centinaia di migliaia di siciliani un’esperienza esistenziale ineludibile. Dal 1881 al 1921 le ondate migratorie transoceaniche registrano infatti un milione e cinquecentomila partenze isolane, delineando così uno scenario di improvvisa e drammatica desertificazione demografica, tra i più rilevanti in tutto il Mezzogiorno d’Italia.
La fuga da una condizione di vita ormai insostenibile si estende, in misura diversa, a quasi tutti i centri siciliani, interessando in particolare quelli rurali. Al lacerante e, spesso, definitivo addio alla terra dei padri, si unisce talvolta il disgregarsi degli affetti familiari e la rinuncia inevitabile a quei valori fondanti che, per generazioni, avevano plasmato la storia delle comunità isolane.
Le ragioni storiche, economiche e sociali dell’esilio forzato nelle Americhe sono da ricercare essenzialmente nell’arretratezza del contesto agricolo produttivo siciliano, determinata dalla persistenza del latifondo, soprattutto nella Sicilia centro-occidentale, declinato alla rendita parassitaria, e ancora, alla vessatoria condizione di vita contadina, agli arcaici strumenti di lavoro, quale l’aratro di legno a trazione animale, cui vanno aggiunte le colpevoli inadempienze del giovane ed iniquo Stato unitario, con il suo speculativo regime di balzelli, come l’odiosa tassa sul macinato, e la leva obbligatoria.
L’Altrove che si schiude agli emigranti siciliani che, dopo quasi un mese di mare a bordo di navi maleodoranti, sbarcano a New York, più esattamente nell’isolotto di Ellis Island, dove vengono sottoposti ad accurati controlli, anche sanitari, è una realtà spesso ostile e piena d’insidie. Quelli che superano la rigida griglia di selezione per l’ingresso in America – per molti c’è l’amaro ritorno in patria –-, facendo appello alle loro migliori energie e guidati, talvolta, dalla forza della disperazione, superano la diffidenza e il sospetto che li assedia in una terra a loro sconosciuta, per lingua e cultura, e perciò temibile. Accettati inizialmente anche i lavori più faticosi ed umili, pur di vincere la scommessa, gli emigrati siciliani, dopo aver dato risposta ai loro bisogni primari, ricostituiscono faticosamente i luoghi degli affetti, riallacciando i legami con le proprie radici culturali.
La lingua siciliana, nelle sue infinite declinazioni dialettali locali; la ricchezza delle specialità enogastronomiche, orgoglio isolano; la devozione per i santi Patroni, sempre implorati e mai dimenticati; le scadenze festive, e non solo parentali, vissute nel rispetto della tradizione siciliana; l’adesione piena a taluni mestieri e forme artigianali della cultura d’origine, costituiscono i poli primari di una rete comunicativa e anche di solidarietà tra familiari e compaesani emigrati. E così presto si configurano i tratti distintivi culturali e comportamentali delle comunità siciliane americane, dette “derivate”, unite da un forte sentimento comune di appartenenza ad una storia condivisa. Nascono diffusamente, a segnalare i luoghi di origine e la diversità di essere siciliani, le Società di mutuo soccorso, una sorta di welfare, ma anche di grande potere contrattuale sindacale-lavorativo, molto attive, con crescente autorevolezza anche politico-rappresentativa.
L’ “essere siciliano”, prima occultato o forzatamente negato, si mostra presto a tutti con orgoglio, interagendo magari con le nuove abitudini di vita americane, operando così una singolare contaminazione culturale. Pensiamo all’originale sincretismo linguistico, uno slang siculo-americano tipico della prima generazione di immigrati; all’ostentazione delle offerte in dollari in segno di devozione ai santi Patroni; alla rete di corrispondenza epistolare con le famiglie d’origine in Sicilia; l’adesione alle società di mutuo soccorso nel nome di Santi o di professioni; ai party, in stile americano per rinsaldare vincoli familiari e favorire nuovi matrimoni, con balli e musiche; ad alcuni mestieri tipici siciliani (calzolai, sarti, barbieri, pizzaioli, attori, musicisti e jazzisti in particolare) che trovano piena dignità lavorativa all’interno del sistema produttivo americano, spargendo così i primi semi del made in Italy, tanto apprezzato oggi nel mondo.
Nel processo di formazione del nuovo status culturale e sociale dei siciliani d’America, una funzione essenziale è svolta dal codice linguistico-musicale, grazie alle speciali qualità comunicative del suo messaggio. Straordinario medium di socializzazione, l’espressione musicale, bene immateriale per eccellenza, sedimenta infatti emozioni forti, individuali e collettive; dà spessore ai sentimenti d’amore; evoca con struggente malinconia esperienze di vita fondanti; alimenta, con i suoni e i canti della tradizione siciliana, la nostalgia dell’abbandono doloroso della terra d’origine.
Mutate radicalmente le modalità del “fare” e “fruire” la musica rispetto ai contesti performativi d’origine, i suonatori e i cantori siciliani di tradizione in America, nella nascente era della riproducibilità sonora seriale, che si affaccia sul mercato proprio in quegli anni, diventano così, loro malgrado, protagonisti di una vera e propria rivoluzione culturale, incidendo sui dischi i repertori musicali tradizionali, strumentali e vocali.
Sostituendosi alla canonica performance musicale diretta, che mette in relazione musicisti e pubblico, in un evento di ascolto unico e irripetibile, l’incisione discografica, che fissa per sempre l’esecuzione musicale, rendendola teoricamente ripetibile all’infinito, invade rapidamente tutti i nuovi spazi di festa degli emigrati siciliani in America, in risposta a quel bisogno fondamentale di socializzazione e di ridefinizione dell’identità individuale e collettiva.
D’altra parte, il disco, per la sua natura catalizzatrice, attrae a sé diverse istanze dialettiche relazionali, anche distanti fra di loro, favorendo l’incontro tra linguaggi e strumenti musicali di varia provenienza etnica, filtrandolo e formalizzandolo entro un suo specifico codice linguistico, fino ad offrire come esito finale una singolare rappresentazione sonoro-verbale della realtà vissuta dai siciliani d’America, afferente alla sfera immateriale delle emozioni e dei sentimenti.
Di più, facendo aderire alla nostra griglia di analisi i più recenti orientamenti di psicologia culturale, che considera la cultura come uno «strumento di mediazione, una cornice condivisa, una rete di senso che avviluppa uomini e cose»; ci pare del tutto pertinente rilevare che la fruizione dei contenuti del disco si configura come un’esperienza tipica, e non affatto minore o trascurabile, che s’innesta nei processi di produzione di senso. Meglio come segmento significativo di una rete di analogie che collega domini differenti della realtà condivisi da tutta la comunità, «da quelli noti e familiari, di cui si è fatta esperienza, a quelli nuovi che bisogna esplorare, catalogare e dotare di significato».
Il disco costituisce, d’altra parte, uno dei primi e più singolari prodotti culturali di largo consumo, «nell’epoca della riproducibilità dell’opera d’arte», destinato anche alle comunità siculo-americane nella nuova logica dominante del mercato, che pervade allora la nascente multirazziale società americana, imponendo la diffusione capillare della popular music, accessibile a tutti.
Espressione fortemente emblematica delle profonde e rapide mutazioni culturali che investono le comunità siculo-americane, il disco a 78 giri riscrive e, in taluni casi, reinventa la musica di tradizione orale siciliana, definendo anche dei veri e propri stereotipi etnico-musicali. E lo fa per rispondere all’urgente bisogno di una rifondazione d’identità di gruppo e di appartenenza ad una storia comune, oscillante fra il registro della patria perduta, dalla forte coloritura nostalgica, e quello della fatale omologazione agli stili di vita americani.
Uno sguardo ravvicinato ai titoli della cospicua discografia siculo-americana ci consente di coglierne i caratteri distintivi, anche in relazione alla necessaria riscrittura di temi strumentali e melodie della tradizione isolana. Con i dischi si afferma intanto la figura dell’autore, da sempre sconosciuta al repertorio musicale popolare, per sua natura dalla paternità collettiva. Poi incominciano a mettersi in vista i suonatori più virtuosi, molti dei quali diventano professionisti, che ritroviamo in ensemble di successo, messi sotto contratto dalle Major discografiche. E succede anche che gli strumentisti e cantanti, affermando così il primato artistico-individuale sulla trasmissione orale del patrimonio musicale collettivo, si attribuiscono, in vista delle allettanti royalties, la paternità di melodie e temi da ballo di tradizione, apportando magari solo delle piccole varianti o arrangiamenti sull’originale.
A rinsaldare poi il legame valoriale con i destinatari delle nuova musica siciliana, sulle etichette discografiche appaiono spesso indicati i luoghi d’origine dei gruppi strumentali. E così ecco il Sestetto Marsalese, il Quartetto Messinese, il Famoso Quartetto di Catania, I Quattro Siciliani, oltre che vocalist popolari quali Paolo Citarella, Paolo Dones o Leonardo Dia, Fernando Guarneri. Inoltre, a ribadire ulteriormente la sicilianità esclusiva del prodotto musicale alcuni intraprendenti suonatori e cantori si autoproducono i dischi con proprie etichette, spesso dalla vita effimera, tra le quali ricordiamo l’Etna Record. Anche sul versante della composizione degli organici strumentali, numerose e rilevanti sono le novità introdotte dal nascente mercato discografico, che si rivolge alle comunità siciliane “derivate”. A fianco dei suonatori di violino, mandolino e chitarra – canonico trio della musica da barbiere isolana – si ritrovano infatti strumenti da banda, il clarinetto innanzitutto, ma anche il bassotuba, riportandoci anch’essi ad una pratica musicale da ballo tradizionale d’origine, collegata ai contesti di festa siciliani. Sulla scena performativa non manca poi il flauto diritto di canna, che vive una stagione di grande popolarità, emancipandosi dal suo ruolo marginale di strumento musicale di esclusiva pertinenza pastorale.
A segnalare infine l’influenza del vivacissimo e multietnico ambiente musicale americano all’inizio del Novecento sui suonatori e cantori siciliani e sulla loro produzione discografica, va ancora rilevata l’adozione del mandolino-banjo o banjolin e della chitarra-banjo – veri e propri ibridi organologici – e ancora quella dello xilofono, e l’assunzione nei profili compositivi e performativi di inflessioni stilistiche del nascente jazz, sia strumentali che vocali. E a tal proposito non possiamo omettere di segnalare il contributo fondamentale dato al jazz da musicisti di origini siciliane, a partire dal trombettista Nick La Rocca, che può fregiarsi della prima incisione discografica di genere, per giungere poi, fra gli altri, a Joe Venuti, per arrivare di stagione in stagione a Charlie Ventura e a Tony Scott.
A conferma dell’alto livello performativo offerto dal movimento musicale siciliano in terra americana, c’è da evidenziare che, spesso, nelle sale d’incisione nel ruolo di strumentista “turnista”, figura inventata dalla Major per elevare il tasso artistico delle produzioni discografiche, troviamo per l’appunto performer isolani. Tra i titoli discografici più richiesti dal mercato ci sono i ballabili, necessari ad animare le feste e far ballare le persone. E a farla da padrona in quegli anni, e non solo nel mercato discografico siciliano naturalmente, è la triade del liscio, ovvero, valzer, mazurca e polca, cui si aggiungono altri titoli, europei, tra i quali le contraddanze comandate, lo scottish, e i nuovi balli americani. Tra i gruppi di casa nostra di maggiore successo, anzi da hit parade, da segnalare I Quattro Siciliani, fondato dal mandolinista-manager marsalese Rosario Catalano, e tra i solisti uno per tutti l’insuperabile virtuoso mandolinista Giovanni Vicari. Sul versante vocale. strumentale, si rigenerano, dunque, con solisti di alto livello, temi e titoli della tradizione, stornelli e serenate, che oscillano dal canto tradizionale fino al genere semiculto-lirico, inaugurando così la canzone d’autore siciliana, che, senza rinnegare le origini anche di ambientazione verbale-poetica, si nobilita, incontrando i favori della comunità siciliana, fino ad influenzare mode e stili musicali anche nei contesti di musica isolana.
Attingendo dunque a piene mani al patrimonio tradizionale, o comunque ispirandosi ad esso, nelle canzoni siciliane restituite dalla discografia a 78 giri, riemergono temi dominanti, cari agli emigrati, quali la Sicilia, sublimata in una natura ricca e generosa (terra d’amuri e di suli), la figura femminile isolana, dalle virtù insuperabili, osservata anche ironicamente e parodisticamente nei suoi timidi tentativi di emancipazione di genere, e anche di scenette coniugali infarciti di doppi sensi e non troppo velate allusioni ai controversi rapporti di coppia, di inconfondibile marca siciliana, fino alla struggente canzone Sta terra non fa pi mia, di Rosina Gioiosa Trubia, che narra la cocente delusione che per molti fu il sogno americano infranto. Sul versante delle canzoni comiche, da segnalare la serie di grande successo discografico di Nofrio, figura buffa popolare, vastaso tratto dall’Opera dei Pupi di area palermitana, incarnato esemplarmente in scenette esilaranti dalla compagnia guidata dal carismatico Giovanni De Rosalia.
Un catalogo discografico, dunque, ricchissimo di offerte in grado di soddisfare ogni gusto musicale delle nascenti comunità siciliane in America, che innesca una mutazione profonda della musica di tradizione orale siciliana. Approdando in Sicilia, la nuova musica prodotta in America, grazie ai grammofoni finirà infatti con l’influenzare i gusti e i repertori della terra d’origine, offrendo nel contempo ai gruppi folkloristici indispensabile materia prima anche per le nascenti scene di nuovo spettacolo popolare. Una celebrazione in musica di una Sicilia dalle tinte oleografiche, quella discografica, segno eloquente di profonde mutazioni socio-culturali, e di nuovi immaginari verso cui rivolgersi, che spingerà sempre più indietro l’Isola arcaica dei padri, dunque i suoni e i canti di origine agropastorale, fatalmente sempre più flebili.