di Stefano Schirò
Tra le selve e gli ulivi di Piana degli Albanesi, come un “Bimbo” in una duccesca Maestà – tra le braccia però del monte Pizzuta – sorge una chiesetta dedicata alla Vergine Odigitria; lì, le opere d’arte spandono profumi segreti di incenso e fiorellini montani: oltre alla tela di Pietro Antonio Novelli raffigurante proprio l’Odigitria con il suo bel manto color cielo, l’unica navata sfoggia quattro rari dipinti ad olio su ardesia con santi: Giovanni Crisostomo, Basilio, Giorgio, Demetrio; essi nitidamente raccontano la devozione delle nostre contrade. Passeggiando tra le stradine del paese invece non è difficile imbattersi in piccole cappelle votive che custodiscono alquanto sbiadite iconografie sul medesimo supporto scuro: una “Crocifissione” (in via Giorgio Kastriota), le “Anime del Purgatorio” (in via Francesco Crispi), una “Assunzione della Vergine” (?) (in via Padre Giorgio Guzzetta), qualche altra delicatissima “Vergine” (in dimore private del centro storico).
La lavagna rappresenta un buon supporto, assorbe poco o niente la pittura ad olio, ne derivano pertanto colori abbastanza vivaci. Artisti come Sebastiano del Piombo e Tiziano Vecellio hanno adoperato il medesimo materiale calcareo-argilloso; mi piace ricordare i teneri accordi cromatici raggiunti dal primo in opere come: l’austero Ritratto di Clemente VII con la barba, (1528 circa, olio su lavagna, 50×34 cm, Napoli, Museo di Capodimonte), la fidiaca Madonna del Velo, (1535 circa, olio su ardesia, 118×88 cm, Napoli, Museo di Capodimonte) o ancora il Cristo portacroce, (1540 circa, olio su ardesia, 157×118 cm, Budapest, Szépmuvészeti Museum), appena sbucato quasi da una tragedia di Euripide.
Giorgio Vasari ne Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori (1550), menziona l’ardesia nel capitolo I, ma pure nel X, dove descrive come si dipinge ad olio su pietra e quali pietre sono adatte allo scopo, tra queste indica appunto l’ardesia. Angela Cerasuolo ribadisce ancora: «Il dibattito sul paragone con la scultura, che individuava nella maggior fragilità della pittura un elemento a sfavore di quest’ultima, induceva a ricercare supporti più durevoli. Al tempo stesso il colore scuro della lavagna, utilizzato da Sebastiano direttamente come base cromatica senza ulteriori strati preparatori, era congeniale alla resa di preziosi effetti atmosferici, tramite quell’uso di velature e accordi cromatici armoniosi da sempre identificato come sua cifra distintiva» [1].
Ritornando ai dipinti di Piana: San Giovanni Crisostomo indossa abiti pontificali (bianco e rosso) entro uno sfondo paesaggistico, con una graziosa omelia spiegata in mano; San Basilio è esornato anch’esso da paludamenti pontificali (rosso e marrone) contro un fondale architettonico e indica una scritta in un libro. Il soprintendente A. Cuccia [2] così descrive lo stupendo San Giorgio: «Il santo è raffigurato in abito di guerriero, con lo stendardo della vittoria [3], la palma e i simboli del martirio. La cromia denota una certa vivacità data dal bianco, dal rosso del mantello e dal grigio dell’armatura»; mentre l’irenico San Demetrio: «Contro uno sfondo paesaggistico, il santo, in abito di guerriero e con lo stendardo, è raffigurato mentre battezza Nestore [4], le tinte predominanti sono il rosso, il bianco, il marroncino».
In questa tetrarchia di Santi si noti il vigore delle linee di contorno, che definiscono come cammei le figure, e i loro vestimenti, che sia un gonnellino o un phelonion o uno stivaletto – quasi fuoriuscito da una passerella di Gianni Versace – hanno lo stesso valore del paesaggio che li attornia, la fede trapela dal santo stesso di volta in volta in questione senza alcuna remora: essi sono come delle finestre aperte sulla vera natura che li avvolge, teneramente. Il San Giovanni Crisostomo e il San Basilio misurano 100×60 cm, mentre gli altri due 128x90cm; loro sono i cavalieri che difendono quelle sacre sponde, quel verziere mistico. Spicca la perspicuità analitica delle frange ellenistiche del gonnellino, o quella del bacolo pastorale, succitati nella poesia “lusus naturae”, “mostruosità” da intendere come prodigio! Queste “mie” ardesie – una sorta di De viris illustribus illustrato –distillano e distilleranno per sempre succhi di agiografie, e l’occhio vaga tra quei reami di colori morbidi e si posa in qualche logorato epitaffio che loda muliebri virtù, per approdare tra le spighe e sulle punte della stella in pietra locale – dello stemma – simboleggianti la patria. Lasciatemi strologare adesso, queste opere descritte dal soprintendente A. Cuccia negli anni Settanta come: «opere provinciali settecentesche dell’ambito culturale palermitano», le attribuisco in questa sede ad “artigiani” straordinari di Piana degli Albanesi, del resto l’arte “di provincia” rifulge al pari di quelle della “non provincia” (sterili etichette, l’arte è arte, sufficit).
Da queste lastre scure, si raggrumano pertanto queste sante iconografie, come dimenticare allora la tecnica dell’illuminazione bizantina, o magari le cantiche dantesche – trattasi comunque di un salto dalle oscure bolge a quell’indimenticabile e commovente «E quindi uscimmo a riveder le stelle», la luce, il colore. Queste lavagne sono pregne di rimandi: rimirate il “Quadrato nero” di Kazimir Severinovič Malevič, o le pitture nere di Goya, gli sfondi bituminosi di Caravaggio, o ancora la الحجر الأسود ovvero la pietra nera per rimanere nella sfera del sacro. Ed io, al cospetto di tali –troppo dimenticati, ahinoi – miracoli dell’arte, ai quali mi appropinquo come fece Franco Zeffirelli con gli affreschi di Giotto e Michelangelo Antonioni con le sculture di Michelangelo Buonarroti, recito un pezzo di Sciascia – che scriveva sul Gattopardo: «…sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile» [5].