“Viaggio attraverso la dimensione narrativa delle scuole di piccole dimensioni”. È questo il titolo del Convegno organizzato il 18 ottobre scorso dall’Indire, l’Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa a Firenze. Un appuntamento importante e atteso per noi che quotidianamente ci impegniamo per garantire l’apertura di tutte le scuole, anche quelle sperdute, anche quelle frequentate da dieci alunni in tutto, in un’unica pluriclasse. Dove se si ammala l’unico collaboratore scolastico siamo nei guai, dove c’è un ricambio abbastanza frequente di insegnanti, dove la diversità è l’elemento prevalente per l’età, per la nazionalità (o lingua madre), per lo status sociale degli alunni. Dove il Sindaco ci tiene così tanto che è disposto a fornire gratuitamente il trasporto per le gite, l’esperto di musica e quello di antichi mestieri, l’insegnante madrelingua, qualche computer e Babbo Natale che porta i regali a scuola. Dove tutti conoscono tutti e i ragazzi più grandi trovano poche cose interessanti da fare. Dove ci si sente isolati e lontani dal cinema, dalla discoteca, dall’ospedale, dal supermercato.
Prima di diventare dirigente di un Istituto Comprensivo che si estende su cinque piccoli Comuni montani nell’entroterra marchigiano non avevo mai avuto a che fare con le pluriclassi. La formazione “standard” degli insegnanti e dei dirigenti non prevede lo studio di strategie e metodologie per casi particolari come possono essere considerate le pluriclassi. Il primo impatto è problematico, tanto più se si considerano gli aspetti organizzativi di cui un preside deve occuparsi. Ci si chiede se davvero valga la pena dedicare tante energie per un numero così esiguo di studenti, se non sia più ragionevole ottimizzare l’organico e accorpare le classi nel paese più grande non troppo lontano, nonostante il sacrificio di un viaggio giornaliero tutto curve anche per i bimbi di tre anni.
E poi le considerazioni di natura didattica: ma come può funzionare l’apprendimento con alunni di età diverse? Come si fa a spiegare? Come gestire una complessità del genere? Una volta andata in pensione la maestra locale come convincere quella che viene da fuori a rimanere per garantire un po’ di continuità? Problemi legittimi che sembrerebbero condurre a una soluzione scontata. Arriva, però, il momento dell’ascolto e della conoscenza di un contesto ricco di storia, di arte, il meraviglioso polittico nella chiesa di San Francesco, la tradizione degli “appassimenti” e la produzione della vernaccia, il frantoio che diventa un sopraffino laboratorio artigiano e che si apre agli alunni come un’autentica aula scientifica, il genitore geologo che viene a spiegarci la natura sismica del territorio dove abitiamo, il nonno maestro di orto, la piccola biblioteca aperta alla scuola e alla comunità. Un capitale sociale, umano e culturale di inestimabile valore, un ambiente di apprendimento all’avanguardia, in continuità col territorio, dove si impara facendo (learning by doing), dove gli alunni più grandi aiutano i più piccoli (peer tutoring, modeling), con possibilità di recupero e di potenziamento, dove è naturale apprendere per compiti autentici e dove ci si sente protagonisti. Una volta raggiunta questa consapevolezza, si deduce che un tale “capitale” non può andare perduto, sarebbe grave per tutti.
Nel 2014 ho scoperto che questo insieme di osservazioni, riflessioni e tanti dubbi non era soltanto frutto di percorso che muoveva da una mia incompetenza, ma un tema degno di attenzione, addirittura oggetto di ricerca per le Scienze dell’Educazione, oltre che per le Scienze Sociali. L’Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa iniziava a dare una connotazione e una dignità scientificamente comprovata alle “Piccole Scuole” invitando gli Istituti come quello da me diretto ad aderire a una Rete nazionale. A distanza di quattro anni, è possibile rintracciare un filo rosso che segna un’evoluzione e un approfondimento, che andremo di seguito a delineare brevemente, con possibili prospettive future di grande interesse per chi vive nei piccoli centri, per chi frequenta le loro scuole, per chi dovrà prendere decisioni importanti.
Piccole sono le scuole che si trovano in Comuni piccoli, in aree interne, montane, in piccole isole. Sono spesso scuole con pochi mezzi, collocate in zone caratterizzate dallo spopolamento, a rischio di isolamento. L’idea della “scuoletta di montagna”, con pluriclassi, che nell’immaginario comune viene associata a un’istruzione di scarso livello, sembrerebbe fuori luogo in un contesto come quello della Fiera Didacta di Firenze, evento internazionale che mette in evidenza le più importanti innovazioni nel campo dell’educazione, che ospita espositori internazionali all’avanguardia, contenuti tecnologici avanzati, le proposte metodologiche e didattiche più innovative.
Eppure non è una questione di poco conto, se ci si sofferma a considerare quanti siano i Comuni piccoli in Italia, quante le loro scuole, quanti gli alunni e le alunne che lì crescono e si formano, da lì partiranno o lì vivranno. Non è difficile contarli. Più di 10mila sono i plessi scolastici situati in Comuni al di sotto dei 5mila abitanti, in montagna e nelle piccole isole, il 20% degli Istituti scolastici. Quasi un milione gli alunni che li frequentano e quasi 15mila quelli che studiano in pluriclassi, più di 110mila i docenti coinvolti.
Numeri da contestualizzare e connettere con altri dati, come quelli riportati da Luca Martinelli ne L’ExtraTerrestre del 29 novembre scorso, in un articolo dedicato al programma di Sviluppo Nazionale delle Aree Interne:
«(…) se la popolazione media dei Comuni italiani, che sono in tutto 7.954, è pari a poco più di 7.600 abitanti, significa che ci sono una miriade di piccoli centri, molti dei quali si trovano su Alpi ed Appennini, e che presentano una densità abitativa ridotta. In questi Comuni – molti dei quali a rischio spopolamento – vivono ben 13,37 milioni di persone, cioè il 22 per cento della popolazione italiana. Le caratteristiche condivise da questi Comuni, che sono oltre 4mila, e occupano una superficie pari a quasi il 60 per cento di quella totale del Paese, riguardano il calo della popolazione, talora sotto la soglia critica, la riduzione dell’occupazione e dell’utilizzo del territorio, un’offerta locale calante di servizi pubblici e privati»
Sono numeri che dicono molto e che possono indurre a ragionamenti divergenti sulla opportunità di salvaguardare l’esistenza di queste realtà, il cui valore non è soltanto culturale e sociale, ma anche economico. Basti pensare al patrimonio artistico dei piccoli borghi, ai saperi e alle produzioni artigianali, agricole, enogastronomiche, alla qualità della vita nelle campagne e nelle colline del Centro Italia, dove si sono trasferite numerose benestanti famiglie provenienti dal Nord Europa. Una ricchezza da preservare, un’eredità da valorizzare.
Uno sguardo diverso, tutto in negativo, sugli stessi dati conduce a considerazioni di segno opposto. Uno sguardo che rileva solo ciò che manca nei piccoli centri: dalle strutture ospedaliere a quelle della grande distribuzione, dalle scuole alle Università ai centri di aggregazione e fruizione culturale, ma ciò che più manca è sicuramente un’offerta di lavoro strutturata e di ampie proporzioni. Il fenomeno dello spopolamento delle aree interne è al tempo stesso effetto e causa di questa prospettiva, che sembra prevalere da qualche decennio: un circolo vizioso per cui l’abbandono da parte di giovani e famiglie genera altro abbandono dei piccoli centri, che pure sono ricchi di storia, bellezza e non sarebbero privi di potenzialità lavorative.
Una maggiore attenzione al valore che queste realtà potrebbero generare, in termini di benessere sociale ed economico, saprebbe orientare scelte politiche più lungimiranti, in grado di restituire nuove opportunità a tanta parte del nostro territorio nazionale. Scrive l’economista Fabrizio Barca:
«l’indebolimento delle aree interne non è l’inevitabile frutto di cambiamenti sistemici irresistibili, ma deriva in gran misura da politiche errate: riforme istituzionali cieche-ai-luoghi; investimenti pubblici che hanno assecondato il mantra (infondato) di un’inevitabile concentrazione nelle metropoli benefica per tutti; e infine sussidi pubblici elargiti a pioggia nei territori impoveriti dalle prime due politiche, per sopirne le tensioni sociali».
Bisogna decidere se vale o no la pena di investire su questi luoghi, di cui la scuola è un elemento non trascurabile. Bisogna capire quale direzione prendere: una prima opzione è quella di eliminare le piccole scuole perché considerate come scuole di serie B, a causa delle pluriclassi, della instabilità dei posti, di una presunta scarsa qualità della didattica, oppure perché considerate addirittura un lusso, per via dei numeri derivanti dallo sfavorevole rapporto alunni/personale scolastico impiegato. Ad oggi è questa la scelta che prevale, dal momento che il modello organizzativo e didattico con cui funzionano queste scuole è quello in base al quale sono gestiti i grandi plessi dei centri urbani. Basti pensare a quanto sia penalizzante per le scuole di piccole dimensioni la rigida divisione che separa i docenti dei vari ordini di scuola in base alle classi di concorso. Un esempio per i non addetti ai lavori: un docente di inglese della scuola media, ad esempio, non può insegnare inglese alla primaria e, se in servizio in un plesso con poche classi, è costretto a completare il suo orario in plessi lontani, con tutti i disagi conseguenti. Se ci fosse una maggiore permeabilità tra ordini di scuola e flessibilità nelle classi di concorso, si potrebbero valorizzare le competenze dei docenti, ottimizzare l’utilizzo dell’organico ed evitare il moltiplicarsi delle sedi di servizio per il completamento orario, che provoca ogni anno la fuga del personale docente verso sedi meno disagiate.
Ma cambiamenti di questo genere presupporrebbero la seconda opzione: quella di investire sulle aree interne e sui piccoli centri, non solo con impiego di denaro, ma soprattutto con riforme istituzionali non più cieche-ai-luoghi. Inevitabile sarebbe la ricaduta positiva, a livello sociale ed economico, di soluzioni anche strutturali capaci di potenziare la vitalità e dei piccoli Comuni e di facilitare la vita di chi li abita.
La presenza della scuola in queste aree rientra a pieno titolo tra le scelte politiche, ma costituisce anche una questione di estremo interesse per la ricerca didattica, tanto che l’INDIRE da alcuni anni investe parecchie energie sul tema. Un percorso virtuoso che trova la sua origine nella ricerca educativa fatta sul campo, che impegna Università italiane e internazionali, ricercatori e docenti universitari, insegnanti, dirigenti scolastici, amministratori locali, esponenti politici. Una storia che merita di essere conosciuta per le azioni che ha già generato e per la chiarezza dell’idea di scuola come comunità educante:
«Togliere la scuola in un territorio isolato spesso equivale a destinarlo all’abbandono e alla marginalità, a compromettere irreparabilmente le sue capacità di sviluppo, a costringere le famiglie giovani a trovare altre soluzioni residenziali, che modificano i loro progetti di vita. Questi territori invece garantiscono un livello qualitativo di vita ed un “benessere ambientale” molto più alto che nelle grandi metropoli. Sono comunità di memoria, custodi di un patrimonio di storia, arte, tradizioni e culture spesso unico e profondo, di tesori ambientali di grande valore.
Le aree periferiche, e con esse le scuole che vi sono collocate, devono essere considerate un’assoluta priorità per il Paese, da tutelare, valorizzare e far crescere, con uno sforzo congiunto di tutte le istituzioni che se ne occupano. Non più territori marginali, ma territori di importanza strategica, da tutelare anche con specifici e mirati interventi del Legislatore».
Il lavoro di ricerca e il supporto forniti dall’INDIRE a partire dal 2005 hanno permesso ad alcune scuole delle piccole isole e delle zone montane italiane di sperimentare modalità di lavoro comune grazie a modelli di didattica a distanza e all’uso di tecnologie come la Lavagna Interattiva Multimediale e la videoconferenza.
Questa collaborazione ha dato vita in questi anni alla rete nazionale delle Piccole Scuole, rappresentata inizialmente da un nucleo sperimentale di quattro reti territoriali di scuole poi confluito nel Movimento delle Piccole Scuole, ufficialmente fondato il 10 giugno 2017 a Favignana con la sottoscrizione del proprio Manifesto, quale strumento di condivisione di azioni e valori.
Questi i punti chiave del Manifesto delle Scuole Piccole:
- Comunità di memoria e qualità di apprendimento
I caratteri originali delle scuole piccole sono particolarmente utili per una accelerazione dei processi di innovazione che sono in corso in tutte le scuole delle avanguardie. Le piccole scuole tradizionalmente rinsaldano e conservano i propri tratti distintivi culturali e storici rendendole grandi comunità di memoria. Il loro rapporto con l’ambiente naturale, sociale e culturale può rappresentare una risorsa dalle forti potenzialità innovative nel momento in cui lega l’apprendimento alla realtà valorizzandola nel rispetto delle vocazioni territoriali. Anche il numero ridotto degli studenti rappresenta certamente un elemento di “vantaggio” per l’avvio di innovazioni curricolari, che permettano una organizzazione più flessibile dei percorsi di apprendimento.
- Tecnologie ed inclusione sociale
Implementare soluzioni tecnologiche adeguate alle diverse realtà rende possibile superare la ristrettezza dell’ambiente sociale che limita le possibilità di confronto e tende a ridurre gli stimoli e le opportunità. La sperimentazione di modalità della conduzione di attività didattiche in collaborazione con altre realtà scolastiche appartenenti a territori diversi può rappresentare una opportunità reale per superare i limiti derivanti dall’isolamento e dalla dimensione limitata dei territori e degli ambienti sociali.
- L’esperienza delle pluriclassi, una risorsa e non un limite
La valorizzazione delle differenze, l’apprendimento nel rispetto dei ritmi e delle caratteristiche di ciascuno, la promozione di modalità organizzative flessibili attraverso forme di apprendimento solidale, che promuovano la collaborazione e l’inclusione, fanno sì che la pluriclasse, realtà limite ma diffusa nei territori marginali, possa in realtà suggerire nuove impostazioni del curricolo che facciano tesoro di un ambiente didattico aperto, arricchito dalla valorizzazione di percorsi legati al territorio e potenziato con ambienti di apprendimento allargati a reti virtuali; uno spazio in cui sperimentare percorsi di apprendimento basati sull’unitarietà e la trasversalità del sapere. Le pluriclassi rappresentano realtà da valorizzare, perché sviluppano approcci didattici e modalità organizzative funzionali anche a contesti più ampi.
A poco più di anno di vita del Manifesto, il progetto ha compiuto passi significativi. In primo luogo ha coinvolto l’ANCI attraverso un Protocollo di Intesa sottoscritto con INDIRE per l’attuazione del Piano per l’istruzione destinato alle aree rurali e montane, come previsto dalla legge n.158/2017. L’accordo di collaborazione scientifica ha come obiettivo la sperimentazione di nuovi modelli didattici e la diffusione di buone pratiche tra le scuole situate nei comuni isolani e montani, al fine di garantire anche in queste zone un’istruzione di qualità. L’Indire si occuperà di monitorare i bisogni educativi delle scuole modulando delle proposte didattiche innovative che consentano loro di superare l’isolamento, avvalendosi dell’utilizzo delle nuove tecnologie; ANCI si impegna a dare sostegno concreto a queste azioni con attività di promozione e di disseminazione all’interno della propria rete territoriale.
Altro importante risultato riguarda la ricerca educativa, che si è sviluppata nelle seguenti fasi:
2016 – Identificazione: comprensione del fenomeno della piccola scuola, dimensioni didattiche caratterizzanti e condizioni tecnologiche adeguate ai metodi proposti;
2017 – Consolidamento: approfondimento delle attribuzioni al concetto di “piccola scuola”, studi di caso che hanno contribuito a validare modelli ed approcci utilizzabili nella gestione della piccola scuola con particolare attenzione alle pluriclassi;
2018 – Sperimentazione: Il percorso di ricerca avvia la formazione nazionale di un numero definito di docenti delle scuole aderenti al movimento delle Piccole Scuole sui modelli e sulle pratiche selezionate, dissemina buone pratiche di organizzazione didattica attraverso la realizzazione di tool-kit metodologici e realizza una prima sperimentazione di un Albo tutor delle Piccole Scuole.
La fase della sperimentazione è ora in atto tramite la pubblicazione del bando Piccole Scuole, che rientra nel Programma Operativo Nazionale (Asse 10.1.8.A1-FSEPON-INDIRE-2017-1) e prevede laboratori formativi, riservati a docenti in servizio negli Istituti che hanno sottoscritto il Manifesto, su metodologie in grado di migliorare l’offerta educativa di una piccola scuola. I laboratori puntano a conseguire un duplice obiettivo:
1) sostenere l’acquisizione di conoscenze e strumenti su specifiche metodologie calate nel contesto delle scuole isolate e con pluriclassi;
2) accompagnare i docenti formati all’ingresso in un primo Albo Nazionale di Tutor di piccole scuole che, sulla base di una chiamata diretta delle scuole del territorio, possano garantire un’azione di innovazione a cascata.
Gli step successivi fino al 2020 sono orientati dalla Linea di ricerca 12 3.12. Innovazione metodologica e organizzativa nelle scuole piccole, che consiste in azioni di ricerca attraverso l’analisi e l’osservazione della realtà scolastica per elaborare proposte, sia in termini di modelli che di metodologie, per promuovere l’innovazione della scuola italiana nelle sue diverse articolazioni e dimensioni.
Alla luce degli scenari osservati, saranno effettuate sperimentazioni che rendano questi contesti scolastici opportunità per gli studenti di avere una scuola di qualità e per i docenti occasione di sperimentazione di didattiche attive e laboratoriali. Si mira alla valorizzazione dei punti di forza di una scuola in cui la relazione educativa avviene in gruppi ristretti di alunni, in una interazione continua con la comunità e con il territorio, dove un uso consapevole della tecnologia può svolgere un ruolo fondamentale per superare l’isolamento.
Saranno individuati modelli alternativi efficaci di organizzazione del tempo e dello spazio, di elaborazione del curricolo, di gestione di classi spesso composte da alunni di età e di culture differenti.
Diverse sono le esperienze già realizzate in Emilia Romagna, in Abruzzo, in Liguria, in Sicilia. Un tool-kit di Apprendimento allargato, pensato appositamente per la didattica nelle scuole piccole è già disponibile: http://piccolescuole.indire.it/wp-content/uploads/2018/11/Toolkit_nov_2018.pdf
La ricerca sta arricchendo un repertorio di proposte metodologiche di cui la scuola tutta potrà beneficiare, non solo le piccole realtà. Tre esempi:
- Il metodo degli Episodi di Apprendimento Situato elaborato dal Prof. Piercesare Rivoltella all’Università Cattolica di Milano, che richiama la comunicazione generativa di Don Milani. Ogni EAS, supportato spesso dalle tecnologie, prevede tre momenti:
1) momento anticipatorio: una situazione stimolo (video, immagine, esperienza, documento, testimonianza) e una consegna che viene fornita alla classe;
2) momento operatorio: una microattività di produzione, è il “cuore” dell’EAS e consiste nella richiesta alla classe di lavorare sulla situazione-stimolo attraverso la produzione di un contenuto;
3) momento ristrutturativo: si ritorna sui processi attivati nei due momenti precedenti e sui concetti fatti emergere per sottoporli a riflessione, fissare gli aspetti importanti, quelli che merita ricordare.
- Il Service Learning: un approccio pedagogico ispirato al pensiero di John Dewey e alle esperienze di “Pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire che promuove la progettazione di percorsi di apprendimento (learning) finalizzati alla realizzazione di un servizio (service) rivolto a soddisfare un bisogno o a risolvere un problema presente nella comunità in cui è inserita la scuola.
- Il dialogo euristico utilizzato dal maestro Franco Lorenzoni a Giove, un paese di poco più di mille abitanti in provincia di Terni: un approccio didattico improntato al dialogo, che pone al centro dell’azione educativa i pensieri dei bambini e le loro teorie sul mondo. Un modo di apprendere insieme che stimola gli studenti a pensare, a discutere e a parlare tra loro per costruire insieme conoscenza e concetti. Il dialogo diventa un tentativo di “dare forma al mondo”.
Le piccole scuole sono quindi sedi privilegiate di sperimentazione didattica e di elaborazione di idee per migliorare gli ambienti di apprendimento, anche quelli delle scuole più grandi. L’esistenza delle piccole scuole non è una tematica di interesse solo per l’Italia. La Rete Europea per lo Sviluppo Rurale (ENRD) è nata come punto di riferimento per lo scambio di esperienze e per la costruzione di evidenze che conducano a dei miglioramenti nell’implementazione delle politiche di sviluppo per le piccole scuole. Diversi Atenei esteri studiano il fenomeno: al Convegno di Firenze hanno preso parte anche Cath Gristy e Linda Hargreaves, rispettivamente della Plymouth e della Cambridge University; il Governo Norvegese ha commissionato nel 2014 alla Norwegian University of Science and Technology uno studio condotto dalla Prof.ssa Agneta Knutas per comprendere se la scelta di chiudere le piccole scuole situate nei fiordi e negli isolotti sia davvero opportuna per una Nazione composta in gran parte di piccole comunità.
Un Legislatore lungimirante dovrebbe tenere presenti i risultati delle ricerche sul campo e avere il coraggio di accogliere anche proposte inesplorate, guardando oltre un risparmio di oggi che rischierebbe di impoverire il domani di molti.