di Orietta Sorgi [*]
Di ciò che accadde esattamente a Roncisvalle in quell’estate del 778 sappiamo poco. Gli stessi cronisti locali e le fonti storiche attendibili sono incerte nel definirla una vera e propria battaglia, concordi piuttosto ad interpretare quello scontro come un’imboscata dei baschi nei confronti dell’ingerenza di Carlo Magno nei propri territori:
«L’esercito s’addentrò nei Pirenei: sulle alture i baschi avevano teso l’agguato; attaccarono coloro che venivano per ultimi e gettarono tutti gli armenti nello scompiglio. Sebbene i Franchi per armi e coraggio, fossero di essi palesemente più forti, subirono una sconfitta a causa del terreno sfavorevole e dell’impari maniera di combattere. Molti del suo seguito, che Carlo aveva messo alla testa del suo esercito, caddero uccisi o furono depredati; il nemico però, conoscendo i luoghi,si disperse subito in tutte le direzioni. Tali perdite gravarono nel cuore del re obnubilando gran parte dei successi in Spagna» (Pertz, Georg Heinrich/Kurze, Friedrich: 1895).
Si trattava di popolazioni residenti nel passo di Roncisvalle, al confine dei Pirenei francesi, che pur convertite al cristianesimo, avevano da tempo instaurato una politica di tolleranza con gli arabi confinanti e temevano che la presenza dei Franchi potesse in qualche modo turbare gli equilibri. Certo è che, contrariamente a quanto si ritiene, anche il fatto religioso sembrò essere una componente secondaria di quell’episodio, che si configurò altrimenti come un fenomeno di pura strategia bellica. Comunque siano andate le cose, Roncisvalle rappresentò nella storia un evento minore rispetto alla Reconquista cristiana dell’imperatore, impegnato in ben più importanti ed eroiche imprese nel territorio iberico.
I fatti si svolsero in un luogo imprecisato nei pressi di Ibaneta e da allora, come spesso accade, si rivestirono di un alone mitico e leggendario, assumendo un ruolo centrale nei racconti epici medievali, per opera di trovieri e trovadori e anche dei giullari, che, in lingua d’oc e d’oil, rivelarono la loro migliore espressione nel genere della Chanson de geste e del ciclo carolingio, di cui la Chanson de Roland resta l’esempio più diffuso e la prima versione scritta. In quest’opera, ritenuta una delle più importanti della letteratura medievale francese e non solo, rispetto all’episodio reale, i baschi si configurarono come musulmani, nemici della cristianità e la disfatta dei Franchi assunse un significato primordiale all’interno del quadro epico del ciclo carolingio, interamente dominato dalla contrapposizione tra il mondo cristiano civilizzato e il mondo della barbarie rappresentato dai mori saraceni miscredenti.
Carlo Magno veniva inoltre raffigurato come autorità indiscussa, divinità assoluta e personificazione in terra della fede cristiana. Roncisvalle diveniva pertanto il teatro di una delle più imponenti e cruciali battaglie nello scontro fra diverse religioni: il che è comprensibile qualora si pensi al periodo di composizione della canzone, nell’XI secolo, quando la Reconquista cristiana e le crociate imperversavano nel segno della fede e della sottomissione dei popoli pagani.
Nella versione della Chanson de Roland, Carlo Magno, durante i suoi sette anni di permanenza in Spagna per espandere il suo dominio, mentre si dirigeva alla volta di Saragozza, fu richiamato improvvisamente a Parigi, per sopraggiunti pericoli di attacchi esterni al suo regno. Affidò l’ultima impresa al nipote Orlando, primo paladino di Francia, esortandolo a guidare l’esercito nella retroguardia, insieme ai dodici pari, alti funzionari della corte imperiale. I saraceni, con l’aiuto di Gano di Maganza, cognato dell’imperatore, assaltarono l’esercito franco, costretto a soccombere per il gran numero di schiere nemiche. Il conte Orlando, anche in quella fatale occasione, dimostrerà tutto il suo coraggio guidando il rientro delle sue truppe e rifiutandosi di suonare il corno, l’olifante, in richiesta d’aiuto a Carlo Magno, perché quel gesto avrebbe screditato il suo onore. Nel feroce combattimento persero la vita il fedele e fraterno amico Oliviero e il saggio Turpino, infine lo stesso Orlando, nonostante i prodigi della sua magica spada Durlindana.
Il successo del ciclo carolingio si diffuse rapidamente in tutta Europa, penetrando anche in Italia, dove divenne motivo ispiratore dapprima dei cantari e dei romanzi in prosa toscani dei Reali di Francia e del Guerin Meschino di Andrea da Barberino e poi dei grandi poemi rinascimentali del Pulci, Boiardo, Ariosto e successivamente del Tasso. Già nel Medioevo l’eco di quella storica battaglia aveva attirato l’attenzione di Dante Alighieri che la riporta nel canto XXXII dell’Inferno. Rispetto ai contenuti propugnati dalle chanson de geste, in questi poemi avviene un ridimensionamento della figura dell’imperatore Carlo Magno, ritenuto in parte responsabile della disfatta di Roncisvalle per il suo asservimento nei confronti del cognato traditore, al quale si contrappongono le virtù eroiche dei paladini. Nel Morgante, ad esempio, Orlando è visto come un martire, colui che sacrifica la stessa vita per la patria e per la fede. Sarà Rinaldo, alla fine, rientrato in scena sul campo di battaglia dopo essere stato creduto morto durante il suo lungo eremitaggio, a vendicare il cugino uccidendo il traditore Gano e ristabilendo l’ordine.
I nuovi valori diffusi attraverso le opere del Rinascimento creano le premesse nell’Ottocento, seguendo quel filo di continuità che occorrerà approfondire in altra sede, per la nascita di una letteratura cavalleresca a carattere divulgativo, che asseconda i gusti dei ceti popolari. Per opera dei contastorie e delle dispense di Giusto Lodico, la storia dei paladini di Francia diviene ben presto il repertorio privilegiato dell’Opera dei pupi, culminante proprio con la morte di Orlando nella rotta di Roncisvalle. L’atmosfera di commozione generale che accompagnava il pubblico durante la rappresentazione è efficacemente descritta da Giuseppe Pitrè in un famoso passo delle Tradizioni cavalleresche popolari in Sicilia, quando paragona la morte dei paladini alla Passione di Gesù Cristo:
«All’apparir dell’angelo a Rinaldo, al benedir che fa Turpino il conte Orlando, tutti si scoprono il capo come la sera del Venerdì santo rappresentandosi il Mortorio di Cristo. Anzi tra il Mortorio di Cristo e la Morte dei paladini c’è tale riscontro, tale identità d’impressioni negli spettatori che mai la maggiore. Le due rappresentazioni sono egualmente grandi, luttuose, lagrimevoli…Il suono del conte Orlando scuote le fibbra di chicchessia, lo squillo della tromba che chiama all’ultima battaglia è orribile quale non fu mai durante l’anno» (1889: 147).
Così il demologo palermitano descriveva la partecipazione collettiva di quell’epica rappresentazione al tempo in cui l’opera dei pupi era ancora viva e imperante, riportando anche i commenti del pubblico tradizionale:
«Iu chi cci pozzu fari – quanti voti haju ‘ntisu sunari lu cornu d’Orlannu pi la morti di li paladini, m’haju ‘ntisu arrizzari li carni!».
Mentre un altro aggiunge:
«E io – ‘un sugnu lu stissu! A vidiri lu ciuri di li paladini ddà, ‘nta ddu ‘nciarru, macari mi veni di chianciri».
Nella vulgata del Lodico e in quella comunemente condivisa, con varianti e rielaborazioni, dagli opranti siciliani, la disfatta di Roncisvalle avviene per opera del tradimento di Gano di Maganza nei confronti di Carlo Magno, con la complicità dei tre fratelli, i dignitari saraceni Marsilio, Bulugante e Falserone, che fingono di accettare il battesimo cristiano proprio nel passo di Roncisvalle. In realtà il rancore e l’odio di Marsilio, re di Saragozza, nei confronti di Carlo Magno derivavano da un fatto personale, in quanto l’imperatore gli aveva rapito la sorella Galerana, e, sposandola, l’aveva proclamata regina di Francia e fatta convertire al cristianesimo. L’elemento centrale restava comunque la netta contrapposizione fra la slealtà dei mori, sempre tesi a tendere tranelli ai cristiani e a proporre loro false paci, e il valore dei paladini.
Il diabolico inganno di Gano è così descritto in un passo del Lodico: «In mezzo alle tende, innalzerete uno steccato dove farete mostra di attendere per essere battezzati. Io dirò a Carlo che voi alla fine avete compreso la vera religione, ma perché trovansi con essi signori stranieri, hanno addivenuto a battezzarsi a Roncisvalle dal solo Turpino, accompagnato dai soli paladini»(Lodico 1860, v. 4: 850). Il sovrano spagnolo Marsilio fa sapere a Carlo, tramite il perfido Gano, che il battesimo avverrà a queste condizioni, che l’esercito franco «s’abbia a fermare quattro miglia lungi da Roncisvalle, perché non abbia ad accadere vergogna ai nuovi cristiani, dell’abdicazione che essi giurarono di fare» (ibidem). Il trucco giocò tutto a favore dei saraceni che massacrarono circa ventimila paladini, mentre velocemente si disperdevano in quel fitto reticolo di sentieri che caratterizzava il bosco dei Pirenei.
Con grande pathos e partecipazione Peppino Celano, noto cuntastorie del Novecento e maestro di Mimmo Cuticchio, trascriveva nel suo copione la morte di Orlando:
«….Orlando scende del suo vegliantino, questo cavallo cade e muori; Orlando nel vedere morire il suo cavallo disse (inginocchiandosi innanzi al suo cavallo e piangeva): Fido gli ultimi sforzi mi conducesti fino ad esser salvo dei nemici, ti prego di perdonarmi se durante il tuo servizio ti abbia fatto alcun torto, tu adunque tanta pena hai provato della perdita dei miei fidi paladini che volesti abbandonarmi come essi hanno fatto….Orlando prende Durlindana e la batte forte sulla pietra della roccia che apri il sasso senza guastarsi…e dal sasso uscì un ruscelletto d’acqua, Orlando, stupefatto lo pose a mirare dicendo: oh se ti avessi Durlindana mia sperimentato tanta forte nel pericolo di mia vita ti gredeva in parte guasta e mai ti adoperai senza tema di spezzarti, così Orlando la posò con la punta fra i sassi, e beve un po’ d’acqua poi si mise seduto e poggiata la testa su un sasso mentre le forze ne venivano meno; qui viene Rinaldo e Ricciardetto, che piangevano insieme Turpino e Terigi scudiero di Orlando, ma già si fece buio…Turpino gli impartì l’assoluzione e lo comunicò colla terra, Orlando spirò, ma, apparve un coro di angeli che si presero quell’anima benedetta, e tra suoni e canti lo portarono la ove per sempre riposa» (in Li Gotti 1959: 157-159).
La rotta di Roncisvalle costituiva comunque il cavallo di battaglia di tutti i pupari, ed era il pezzo forte soprattutto del cavaliere Giacomo Cuticchio, padre di Mimmo che, nel 2017, in omaggio ai suoi maestri, così trascrive la cruciale vicenda proprio nel punto in cui Orlando, prossimo alla morte, invoca la sua spada:
«Poi taliannu Durlindana disse:
E tu che ci stai a fare al mio fianco
Se non hai saputo difendere i miei compagni!?
Ti spezzerò su questa dura pietra.
Cafudda un terribile colpo di Durlindana
Supra la pietra pi spizzarla,
ma Durlindana un si vosi spezzare
perché era una spada di finissima tempra
Era stata forgiata da Vulcano nell’Olimpo
E apparteneva a Ettore di Troia
Mentri la roccia si grapiu e l’acqua nisciu,
Orlando si livau l’elmu e vippi
E poi taliannu la so spata disse:
Tu Durlindana, non vuoi spezzarti perché sei santa.
Allora è vero quello che si dice!
Che nel pomo vi sono le reliquie dei santi:
un dente di San Pietro, il sangue di San Basilio
e un lembo della veste della Vergine Maria!
Ma io non ti lascerò in mano al mio nemico.
Ti nasconderò sotto il mio corpo,
così Carlo, quando mi troverà, potrà riprendersela» (2017: 590).
Il conte – prosegue Cuticchio in “Alle armi, cavalieri” – continuava però a perdere sangue e allora due angeli, Gabriele e Michele, scesero dal cielo e lo avvolsero in un’aura celeste per alleviargli il dolore. Nel frattempo ecco giungere Rinaldo assieme a Turpino. Il paladino corse ad abbracciare Orlando che, vedendolo, credette già di essere nel regno dei morti. Ma Rinaldo gli spiegò che il corpo di quel pellegrino non era suo ma di un ladrone. «Sei arrivato troppo tardi, – disse Orlando – ormai i paladini sono tutti morti!». Poi, sentendo la fine vicina, chiese a Turpino di confessarlo perché voleva chiedere perdono dei suoi peccati (ibidem: 590-591).
Seguirà, com’è noto, il pentimento di Carlo Magno, inconsolabile sul corpo senza vita del valoroso nipote e la spietata vendetta di Rinaldo che, nuovamente in battaglia, fa piazza pulita di tutti i saraceni e ammazza il traditore Gano, mostrando pubblicamente il cadavere come trofeo e, per ordine dell’imperatore, facendolo trascinare da quattro cavalli fino allo squartamento. La tragica fine di Orlando e la vendetta risolutrice di Rinaldo che elimina definitivamente il malvagio dalla scena teatrale, segna l’epilogo della storia, ma ne detta al contempo le condizioni per un nuovo inizio. In questo senso Roncisvalle costituisce un momento di ristabilimento dell’ordine, garantendo al suo pubblico la promessa di un mondo rinnovato (Buttitta 1981:34).
Allo stesso modo, il cammino di Mimmo Cuticchio sui Pirenei, in occasione della trentacinquesima edizione della Macchina dei sogni, per ripercorrere il gesto eroico dei paladini proprio in quell’hic et nunc dove – si dice – sia in illo tempore accaduto, conferma ancora una volta il valore rituale del mito (Eliade 1976; Miceli 1972). Il viaggio a Roncisvalle ha assunto a tutti gli effetti la configurazione di un pellegrinaggio spirituale che dai Pirenei francesi si è mosso alla volta di Ibaneta, fermandosi proprio su quella lapide che riporta ancora il nome di Roland e la data della sua morte. A San Jean Pied de Port, prima sosta in territorio francese sul confine spagnolo, diversi spettacoli di artisti e narratori hanno ricreato il clima e l’atmosfera delle giostre e dei tornei medievali.
Mimmo Cuticchio, al suono dell’olifante e accompagnandosi col ritmo della spada, ha poi guidato la truppa lungo i sentieri dei Pirenei, intervallando il lungo percorso con cunti e rappresentazioni, in un climax narrativo che ha raggiunto l’acme proprio sulla tomba di Orlando. In quel momento, con la complicità della nebbia fitta sul bosco, Mimmo ha rievocato il dramma della morte dell’eroe, agitando la spada, sullo sfondo di un cartellone figurato, e animando la marionetta del paladino fino farlo giacere privo di vita sulla roccia.
La rappresentazione dell’artista merita alcune riflessioni, per concludere. Si è detto diffusamente che uno dei tratti distintivi della personalità di Mimmo Cuticchio è quel rapporto di stretta immedesimazione con l’universo fantastico in cui è «nato e cresciuto» (Venturini 2017), che è stato chiamato, fin dall’infanzia, a rappresentare. Una missione dettata da un intreccio fra realtà e finzione che ha finito col conferirgli il ruolo di eroe, di un paladino che combatte in difesa della sua arte e del mestiere. Nel suo estro creativo vi è da un lato il recupero filologico della tradizione, ma anche il suo costante rinnovamento, correttamente interpretandola nel suo aspetto dinamico di processo, di rielaborazione soggettiva su un insieme di regole e saperi condivisi.
L’eredità immateriale appresa dai suoi maestri costituisce pertanto un ricco serbatoio da cui attingere in una nuova prospettiva di allargamento ad altri registri espressivi e diversi repertori. Nel nostro caso, pur interpretando e drammatizzando l’episodio di Roncisvalle in linea con la tradizione orale dei pupari e contastorie, Mimmo Cuticchio ha saputo produrre un’inversione dei significati, in linea con i problemi delle società contemporanee. In qualche modo l’opposizione determinante fra cristiani e musulmani, attorno alla quale ruotava tutto il racconto epico cavalleresco, si è capovolto e risolto in una mediazione degli opposti, facendo sì che il conflitto divenisse conciliazione.
Come spesso avviene nell’analisi della fiaba, secondo i formalisti russi, i contenuti posti si invertono e assumono significati correlati: in questo senso il protagonista del viaggio diviene l’eroe per eccellenza, che si allontana da casa superando ostacoli e antagonismi e riuscendo alla fine a ricomporre gli equilibri (Propp 1966). L’identificazione dell’attore con i suoi personaggi è strettissima, in un rapporto quasi simbiotico: Orlando e Rinaldo rivivono nell’ars affabulatoria di Cuticchio, come momento di rivincita e risoluzione delle contraddizioni sociali.
In questo sta la forza del racconto orale e della capacità espressiva di Mimmo Cuticchio, la sua carica gestuale e la vis drammatica: rivivere Roncisvalle significa riconfermarne il senso augurale di pace per il futuro e di eliminazione di tutti i problemi che angosciano la nostra quotidianità. Il suo viaggio diviene una ricerca dell’altrove, un incontro con diverse identità culturali, in una prospettiva di arricchimento e pacifica convivenza. Una testimonianza concreta del potere rigenerativo dell’arte.