di Stefano Montes
Ho aperto, da qualche mese, un account facebook per esplorare personalmente le possibilità offerte da questo mezzo di comunicazione, ma soprattutto per studiarlo in chiave antropologica, per indagare le forme di interazione possibili che esso consente con altri individui, con la mia stessa scrittura e con le foto che scatto quasi quotidianamente per accostare reale e immaginario. Un elemento è assodato: per comprendere appieno il quotidiano (che studio ormai da tempo in tutte le sue sfaccettature), ritengo che sia importante prendere in conto le tessiture digitali che lo percorrono sottilmente, oggigiorno quasi scontatamente. Non nutro illusioni illimitate tuttavia: il quotidiano è sfuggente, temporalmente impalpabile. Ancora meno mi concedo lussi concettuali irrealistici: non considero il quotidiano una categoria originaria o fondativa. Il quotidiano è, dal mio punto di vista, una categoria costruita e contestuale.
Facebook mi è utile, per l’appunto, per capire meglio il quotidiano a partire da incursioni contestualizzate, radicate nelle pratiche ordinarie e meno ordinarie degli individui, di me stesso, in siti sociali, nello svolgimento concreto dell’intreccio del vivere sociale. Nella mia prospettiva, facebook non è altro, dunque, che un modo per lavorare congiuntamente sulle pratiche e sulle teorie: è un modo per circoscrivere ‘una pratica’ (la mia e quella d’altri) e allo stesso tempo per proiettarsi verso l’astrazione e i piani di maggiore desostanzializzazione del vivere comune.
Ci sono molti modi – tutti molto interessanti – di affrontare la ‘questione facebook’. Per esempio, ci si può concentrare sull’uso di facebook in un paese specifico: è il caso di Miller a Trinidad (Miller 2011). Si può, forse anche più proficuamente, adottare una prospettiva comparativa – a partire da ricerche sul campo in Paesi diversi – al fine di capire l’uso di facebook in varie società (Miller et alii 2016). Si possono inoltre prendere in considerazione le immagini inserite in facebook per capire meglio la funzione che svolgono: Miller e Sinanan mostrano di fatto che l’immagine, più che una comunicazione referenziale, adempie il ruolo di comunicazione di esperienze soggettive (Miller, Sinanan 2017).
Qual è il mio modo particolare di affrontare facebook? In facebook, adottando una postura riflessiva, io mi ‘diverto’ a proiettare me stesso in porzioni di quotidiano da esplicitare al fine di mostrarne la densa portata teorica, senza necessariamente dare priorità ad argomentazioni che guasterebbero la portata di ‘incursione pratica’, punto di partenza per la mia (e altrui) esperienza. Che faccio in sostanza? Scrivo e fotografo e inserisco i testi sul sito, interagisco con altri utenti, mi avvalgo di (ed esploro) vari strumenti d’analisi. Non preciso (a me stesso e ad altri), ogni volta, cosa è il quotidiano, ma lo dissodo a partire da incursioni precise in cui faccio spesso convergere foto e scrittura. Di certo, posso dire che non considero il quotidiano in opposizione allo straordinario, semmai lo prendo in conto secondo momenti specifici: frammenti di vita che collego di volta in volta a sequenze di concetti posti sotto la lente dell’osservazione al pari della vita stessa che scandaglio nella sua generalità.
Concetti? Lente dell’osservazione? Bene, giusto per dare un rapido esempio qui, ‘mi diverto’ a collegare il quotidiano all’opposizione denotato/connotato (Barthes), alla ritualizzazione del passaggio (Van Gennep), alla forza radicale della descrizione (Perec). Naturalmente, ognuno di questi autori, in un saggio puramente teorico, andrebbe discusso in sé, talmente importanti sono i temi vagliati nei loro studi: la lotta contro l’imposizione surrettizia di miti quotidiani (Barthes), il vivere visto come passaggio sistematico (Van Gennep), lo spazio come spettacolo da descrivere e rivelare nella sua minuzia simbolica (Perec). Ognuno di questi autori (e tanti altri da me citati in seguito) andrebbero, in definitiva, presi in conto nella loro individualità. Ma io – lo ammetto senza reticenze – sono affascinato dalla nozione di bricolage e, per questa ragione, non voglio mantenere autori e teorie in compartimentazioni ben separate o circoscriverli in scritti di ‘pura’ teoria saggistica. Mi sono quindi ispirato a Lévi-Strauss e alla nozione di bricolage adattandola ai miei fini. Più particolarmente, mi sono lasciato attirare dai cubisti e dalla loro maniera di scomporre la realtà attraverso la (quasi) simultanea proposizione di prospettive diverse da proporre ed eventualmente passare a setaccio in seguito. E così ho fatto!
Su facebook parlo del vivere comune e mi produco in esercizi di scrittura e fotografici più o meno velatamente sperimentali, volutamente auto-riflessivi. Ma non è tutto, non ancora. Un elemento importante da sottolineare qui con forza, se si parla di quotidiano e facebook, è che ambedue elementi sono flussi sfrangiati che vengono discretizzati da scrittura, foto o altro sistema semiotico. Soprattutto il quotidiano, lo si vive sempre per flussi. Scrittura, foto e ogni altro sistema semiotico servono invece a trasporlo e discretizzarlo, talvolta riconfigurandolo esteticamente: per trasporre i flussi del quotidiano è infatti necessario ricorrere a forme di discontinuità (la scrittura o la foto o altro) che, in qualche modo imperfettamente, colgono la realtà oggettiva (e soggettiva). La scrittura (o qualsiasi altro sistema codificatore) può cogliere soltanto pezzi di realtà ‘tradotti’ in inevitabili elementi di discontinuità. Non c’è niente da fare dunque, nonostante tutto, malgrado i buoni propositi: non esiste coincidenza esatta tra esperienza e sua trasposizione testuale. È però interessante, in ogni caso, ‘esercitarsi’ in forme diverse di trasposizione – per quanto imperfetta essa sia – e io lo faccio, anche ricorrendo a facebook, di volta in volta, nel mio piccolo, operando commistioni con la mia stessa vita.
Per finire e farla finita con questa introduzione, devo sottolineare un altro elemento di rilievo: analizzo, qui e lì, nei vari brani che riporto dopo, la fotografia in quanto strumento atto a ‘descrivere’ il quotidiano e/o a trasfigurarlo esteticamente: talvolta, (io uso la foto) come vera e propria forma di ancoraggio dello scritto; talaltra, (io uso la foto) come elemento di scardinamento del suo apparente valore referenziale. Certo, lo faccio un po’ surrettiziamente, non ostentando un posizionamento esplicito e manifesto, passando da un regime di senso e di esperienza all’altro. Perché lo faccio? Sono indisciplinato per il solo gusto di esserlo? No, certo che no! Se però dovessi mettere in chiaro i vari elementi teorici presupposti dai miei ‘divertimenti’ intermediatici, li trasformerei in altro: in scrittura e foto più convenzionali. E io non voglio essere puro o convenzionale, ma ibrido e sregolato, al di fuori di una sola compartimentazione disciplinare.
Io voglio produrre piccoli esercizi – come li chiamerebbe Perec – di ‘infra-ordinario’ in cui foto e scritto instaurano, ogni volta, rapporti diversi, rapporti dati anche dalla forza del caso e dalle situazioni contingenti in cui mi imbatto. A questo fine, riporto di seguito soltanto sei esercizi di infra-ordinario appositamente scelti (tra i tanti da me scritti negli ultimi tempi), evitando inoltre di mettere eccessivamente l’accento sulla questione teorica in sé, scorporata dalla mia pratica specifica e soggettiva. Do insomma la precedenza alla mia esperienza, accompagnandola da incursioni teoriche più libere. Così, lascio il piacere della scoperta del metalinguaggio (e dell’apporto teorico) al lettore che, naturalmente, può trasformarsi in inter-agente e contattarmi – di fatto succede in facebook – per continuare l’esplorazione speculativa ed esistenziale: come vuole la buona tradizione dialogica ed esistenziale in antropologia.
Ciò che una foto può dire
Qualche giorno fa mia cugina Enza mi ha inviato una bella foto dagli Stati Uniti in cui sono tutto concentrato, compreso in me stesso e al contempo intento a riprendere qualcosa all’esterno, all’aria aperta, naso in su e piedi per terra, con estrema precisione, con la più totale calma del mondo, come se il mondo stesso fosse in uno stato di sospensione generato dal mio atto di scrupolosa e dedita attenzione, come se esso dipendesse – in sé contento, interamente attratto, affatto contratto – dal mio scatto in corso di presunta, concertata realizzazione. Non è così, naturalmente, inutile dirlo, meglio ribadirlo: come sempre, il mondo compie il suo moto costante, perpetuo e prestabilito infischiandosene di me e del mio scatto attento, del mio stato d’animo sospeso e delle mie particolari inclinazioni artistiche. Ebbene, il mondo andrà certamente per la sua strada, ma io guardo la foto di Enza e dico: mi piace. Mi piace, la guardo e mi sorprendo: che volevo riprendere? Cosa stavo inquadrando così assorto? Da cosa ero attirato in quel preciso momento? Non me lo ricordo, nonostante mi sforzi, ci pensi su e mi interroghi con intento apposito: guardo, deraglio, svio e finisco per incappare nella strana posa da me assunta in cui si dà ‘un corpo’ – il mio! proprio il mio? – a suo agio con il supporto metallico mentre il resto è tutto teso a cogliere un risultato di qualche tipo, con il naso schiacciato sull’apparecchio e le braccia sollevate e ansiose, rivolte verso l’alto, rigide, quasi a voler reagire all’evento non ancora materializzatosi. Quale evento? Che attesa?
Dalla posa che avevo assunto, sembrava che volessi riprendere qualcosa di puntuale e circoscritto. Ero però comodamente appoggiato come se volessi prendermi tutto il tempo possibile e aspettare l’evento in arrivo che, tuttavia, non pareva mai arrivare nella dimensione prevista e forse non è mai arrivato nonostante l’attesa e me lo chiedo ancora, mi chiedo perché, come è potuto essere che ci sia questo buco nella mia memoria, persino adesso che guardo e riguardo la foto e non mi raccapezzo. Te lo stai chiedendo anche tu? Non ti raccapezzi? No, certamente no, non lo faccio di solito: non rimango a lungo in attesa del soggetto che prenda forma o che si costituisca lentamente. Piuttosto, faccio diversi scatti e poi scelgo; oppure, scatto, guardo la foto, ci rifletto un momento e ritorno a scattare quella che ritengo possa infine essere l’inquadratura decisiva, adatta ai miei fini, al mio stato d’animo. Ma, dalla posizione assunta in quel momento, riguardandola ora, è come se avessi voluto scattare la foto e un pensiero fisso mi avesse attraversato la testa allo stesso tempo. Che poteva essere? Forse era il tramonto. Forse era soltanto un dettaglio. Forse esitavo e volevo cogliere questa esitazione inattesa. Forse cercavo di capire – come faccio a volte, con l’apparecchio in mano e i pensieri in subbuglio – l’atto stesso del fotografare cercando di comprendere l’unicità del momento in sé, la forza della sua apparente non ripetibilità. Forse dovrei tentare di recuperare il soggetto della foto andando a rovistare nel mio archivio di scatti su New York. Forse dovrei farlo adesso, senza tentennare, ponendo freno all’indugio. Forse no, forse lo farò in futuro. Forse, forse ancora, forse come sempre le azioni si succederanno nella mia vita e io continuerò a scavare nella mia memoria in cerca di qualcosa da portare alla luce che dia sollievo intramontabile al desiderio di spezzare l’alternarsi del giorno e della notte. Poi, stanco, «con la mia faccia scavando una fossa al mio sogno» (Mallarmé, “Risveglio”), mi sono detto e mi dico tuttora: che importa?
Questo è uno di quei casi in cui, più che l’oggetto ripreso o i miei stessi pensieri e gli intenti del fotografo, sono importanti i rimandi contestuali al vivere e alla memoria. Ricordo bene che, con Enza e la mia famiglia, avevamo fatto una lunga passeggiata ed eravamo rimasti fino al tramonto a chiacchierare e rivangare pezzi della nostra vita passata, dei nostri parenti in Italia e a New York, delle ragioni per cui si vorrebbe potere vivere in un Paese o nell’altro. Parlavamo del tempo che scorre e degli effetti su di noi, singoli individui stretti nel corso del divenire, per lo più invisibile, reso però manifesto e godibile dagli incontri con altri e dalla memoria riesumata al momento opportuno. Dunque, a ben vedere, più che una foto a me stesso in procinto di scattare una foto – ripensandoci, adesso, con la giusta misura del tempo trascorso – considero questo scatto di Enza un bel richiamo alla messa in forma, sempre instabile, della memoria e del vivere come forma di divenire: un vivere che – è bene ricordare qui, a proposito di memoria – non passa unicamente attraverso la scrittura ma, anche, attraverso le immagini del passato, il loro ritorno in contesti particolari e le possibilità offerte dagli strumenti utilizzati. Le foto, in effetti, sono uno dei modi più importanti, a me particolarmente cari, di fissare la memoria e di interrogarla: al di là della pur fondamentale contingenza della rappresentazione e persino del valore artistico che si intende dare alle singole immagini di volta in volta.
La foto di Enza mi ha fatto dunque riflettere su tutto questo e altro ancora. In primo luogo, mi ha riportato alla memoria il principio che siamo esseri in costante comunicazione: gli uni con gli altri, gli uni in mezzo agli altri. Ciò è avvenuto, per esempio, tra me e Enza direttamente, grazie al dono di questa foto da lei scattata e poi a me inviata tramite facebook: il dono si è trasformato, in me, in meditata riflessione sul valore del momento vissuto e sul suo incidere nello scorrere del tempo lungo, protratto; il dono, tra l’altro, ha sollecitato una qualche risposta e un tono affettivo ricambiato. Com’è noto agli antropologi, il dare, se ben ricevuto, attende una sua controparte, anche nel tempo, persino nell’oblio, che è dovuta conferma della relazione che si vuole intrattenere negli anni. Si tratta quindi, pur nel tempo lungo dell’attesa, di una comunicazione diretta, d’ordine affettivo, importante in sé, che ha però conseguenze di rilievo anche sull’implicita comunicazione, quella che passa più indirettamente e dovrebbe interessare tanti antropologi volti a cogliere al meglio l’interazione sociale.
Di fatto, noi comunichiamo direttamente, ma anche indirettamente, e la comunicazione indiretta ha un peso straordinario per tutti noi, nonostante non ce ne rendiamo bene conto in genere: i «modes of indirect communication, whether easily discernible or not, are characteristic of social intercourse, and as anthropologists we should give them our serious consideration» (Hendry, Watson 2001: 13). Nel caso concreto che mi riguarda da vicino, la foto di Enza ha aperto una voragine di comunicazione indiretta – persino quella, meno ovvia, avviata con me stesso, sulla mia persona oggettivata dalla foto, sui miei ricordi e sui miei gusti in ambito fotografico – di cui non avevo ancora dato atto a me stesso di aver preso coscienza se non dopo aver ricevuto la foto. Mi sono infatti chiesto perché mi piace questa foto, come funzionano i miei ricordi, cosa mi impongono quasi a mia insaputa i miei flussi di pensiero, a che punto riconosco me stesso nella foto di un’altra persona che oggettiva alcune mie azioni e pensieri al di là della mia coscienza diretta. In secondo luogo, la foto di Enza mi ha riportato a un elemento di spicco – evidenziandolo – tipico della vita di tutti noi, un elemento che diventa talvolta vero e proprio oggetto di ricerca per molti antropologi: gli orizzonti di aspettative e i piani d’azione che intendiamo realizzare nel corso di una vita o di un suo frammento. Che sia a breve o a lungo termine, noi non facciamo altro che «costruire, intenzionalmente o meno, orizzonti che determinano ciò che esperiamo» (Crapanzano 2007: 11). In qualche modo, è quello che è successo con Enza, durante la nostra chiacchierata a Williamsburg, seduti su quella panchina in riva all’Hudson, parlando della nostra vita e dei nostri orizzonti di attese future e orizzonti di ricezione della memoria passata.
Infine, in terzo luogo, la foto ha richiamato la mia attenzione sul valore fondativo, ineludibile della memoria, in ambito culturale. La memoria è un operatore – essenziale e costitutivo – di accumulazione di informazione: «l’uomo nella lotta per la vita è inserito in due processi: nell’uno interviene come consumatore di valori materiali, di cose, nell’altro invece come accumulatore di informazione. Ambedue sono necessari all’esistenza» (Lotman, Uspenskij 1975: 28). Senza la memoria, questo processo di accumulazione e scambio di valori non sarebbe realizzabile. La memoria è, oltretutto, corta e labile e abbisogna di continuo nutrimento culturale per protrarsi e divenire elemento costitutivo, da ereditare culturalmente. In effetti, cosa ne sarebbe di noi, poveri umani, privi di quelle coordinate spazio-temporali che ci radicano nel vissuto collettivo e ci inseriscono saldamente nel reticolo stesso della cultura? Saremmo privi di identità personale, ma, anche, di quei percorsi di riconoscimento collettivo che abbiamo costruito, nel tempo, con parenti e amici rimasti, grazie alla memoria, nel deposito delle nostre vicissitudini vissute, nel deposito dei termini di relazioni divenuti legami affettivi effettivi. La cultura stessa è infatti «memoria non ereditaria della collettività, espressa in un determinato sistema di divieti e prescrizioni» (Lotman, Uspenskij 1975: 43).
Quali sistemi di divieti e quali sistemi di prescrizioni rivela esattamente – avendomi consentito di andare a ritroso nella mia memoria e di valutare la loro portata futura – la foto di Enza non è pertinente parlare qui nel dettaglio; sicuramente, le foto (e, tra queste, quella inviatami da Enza) hanno un peso speciale nella mia memoria e nel suo procedere altalenante tra recupero del passato e possibilità offerte dalla proiezione nel futuro. Più in generale, al di là del luogo che rappresenta e a cui rimanda, la foto di Enza contiene dunque diversi elementi di rilievo, semanticamente e pragmaticamente: mi aiuta a fissare la memoria e a bloccare il divenire temporale; rappresenta un bel luogo ma è anche una forma di comunicazione diretta e indiretta; costituisce un possibile ancoraggio per una riflessione sul valore dell’esperienza vissuta e dell’intrecciarsi del tempo passato e futuro. Ma non è ancora tutto. C’è dell’altro. Una foto, tra le altre cose, consente di fare ipotesi su ciò che è stato o sarà. Io non sapevo cosa mi avesse attirato in quel momento, ma posso adesso mettermi davanti alla foto scattata da Enza e fare congetture che sono, in realtà, dei mondi possibili attivati dal soggetto che osserva qualcosa, osserva se stesso: il soggetto osserva la foto e oggettiva se stesso attraverso un’immagine che non lo riporta – più – esattamente alla persona che era, ma a un’icona che riassume alcuni tratti della sua personalità e non altri.
Che importa dunque cosa fosse esattamente l’oggetto della mia attenzione allora? Poco importa che fosse un tramonto o un dettaglio, un’esitazione o uno scrupolo estetico, il momento in sé o la riflessione sull’atto; ciò che conta, in fondo, è l’universo semantico che si attiva costringendo, nel mio caso, a pensare al modo in cui vivo e al modo in cui fotografo, a me stesso in carne e ossa e a quel ‘me stesso’ ormai non più tale, divenuto altro nel tempo che passa. Questo indubbio snodo esistenziale ha a che vedere con il modo di scattare: se non altro per me, nella mia prospettiva esistenziale e antropologica. Io fotografo, solitamente, senza aspettare che l’oggetto d’interesse – ciò per cui esso mi interessa – sia del tutto chiaro nella mia mente: io scatto attirato da qualcosa, senza sapere esattamente cosa, mentre l’interesse stesso comincia a prendere forma; a conti fatti, è soltanto la foto vera e propria che dà forma al mio interesse nella sua consistenza finale e lo rende tale ai miei occhi e alla mia mente. Se dunque non mi ricordo cosa volevo riprendere in foto a New York, è proprio perché, per me, foto e interesse vanno di pari passo: si spiegano vicendevolmente, nel loro reciproco darsi e costituirsi nel tempo. Questa è anche un’altra ragione per cui io scatto sovente in sequenza. Scattare in sequenza contribuisce a produrre, nel mio caso, serie iconiche all’interno delle quali il mio interesse si forma per selezione e diventa manifesto, esplicito a me stesso.
Io scatto, guardo la foto, ritorno a scattare, l’interesse si forma, dunque scelgo o scarto definitivamente. Questa è pure la ragione, suppongo, per cui essere in procinto di scattare – essere stato fotografato da Enza mentre ‘stavo per’ scattare – ha una funzione altamente simbolica per me: significa che non è soltanto l’oggetto ripreso a essere importante quanto l’‘atteggiamento aspettuale’ del soggetto che fotografa – me stesso – sito sempre su una sorta di frontiera temporale all’interno della quale oscilla, senza tuttavia decidersi ad abbandonarla, fissandosi degli orizzonti che tendono comunque a rimanere delle soglie perenni, invalicabili. Mi sento, così, su una sofferta frontiera temporale e spaziale che mi spinge ad andare avanti. In qualche modo, questa foto, oggettivando il mio Ego, rappresentando me stesso in torsione con me stesso, mi aiuta a capire meglio un famoso enunciato di Lévi-Strauss in cui l’antropologo si raffigura come «uno che si sposta su una frontiera sempre in movimento» (Lévi-Strauss 1988: 8): la frontiera è per me questa stessa torsione di cui ero inconsapevole, di cui lo sarò nuovamente in futuro.
Per concludere, da fotografo e da antropologo, da persona comune e da personaggio su foto, la vita – nel mio modo di intenderla e interpretarla – scorre come ricerca dinamicamente irrisolta, come un ‘andante’ sempre in divenire. In qualche modo, quindi, il mio atto fotografico cerca di essere, nel dinamismo del ricercare infinito, un atto di sospensione che non arriva mai. E così è per il pensiero che mi attraversava, suppongo, mentre ero in procinto di scattare a New York mentre Enza mi fotografava. Riflettendoci adesso, dopo aver scritto questo breve commento narrativo dalla funzione catartica e rimemorativa, penso allora che il pensiero che mi attraversava la testa era proprio un quesito: riuscirò mai a cogliere, prima o dopo, questa sospensione totale dell’essere che metterà fine al mio interminabile concepirmi come individuo visto nell’atto di attraversare e mai veramente arrivare? Ebbene, spero di no, dato che vivere è per me divenire: il mio orizzonte d’attesa è infatti vivere in divenire. Al pari, lo è la mia antropologia: il mio modo di intenderla e viverla, attraverso foto e scritto, interazioni con gli altri e con i miei stessi flussi di pensiero oggettivati su foto e testo. Per finire, se dovessi allora sintetizzare in un semplice enunciato cosa è antropologia per me, direi, facendo il verso a Wittgenstein: «Non mi raccapezz»” (Wittgenstein 1967: 65). Chi ha letto le Ricerche filosofiche sa perché. Chi non lo ha fatto, si consoli con una bella poesia di Ungaretti. Non è forse il valore della poesia pari a quello della filosofia? Eccola, la poesia di Ungaretti, se non altro per riflettere sul valore semantico delle nuvole e della sera, oltre che del vivere e dell’iniziare:
Inizio di sera
La vita si vuota
in diafana ascesa
di nuvole colme
trapunte di sole
Non è essenziale, dopotutto
Cosa è essenziale in una foto? Cosa è essenziale per me? Più che la costituzione di una qualche entità priva di elementi marginali o accessori, per me l’essenziale è ostacolo: quell’ostacolo che fa scattare una ricerca incompiuta, una ricerca che rimane virtualmente tale. Insomma, per me l’essenziale è il tragitto da compiere: lo stare nel processo. All’inizio, c’è sempre qualcosa che si mette di mezzo fra me e un qualche concetto di essenziale che mi ero immaginato per principio: si frappone e fa ostacolo. Che siano, come nella foto, parti di un finestrino, alcuni fili elettrici o altro, poco importa! L’essenziale dell’inizio – l’idea che me ne ero fatto – tende a sfuggirmi nel tempo: evapora. L’essenziale svia: va per la sua strada, diventa altro. Così, il ‘mio essenziale’ si manifesta per contrasto, attraverso la presenza di qualche dettaglio inutile, qualche particolare di cui devo sbarazzarmi nel corso di una ricerca che non giunge – che non deve giungere – però a un risultato definitivo. A cose fatte, non mi sbarazzo di niente in realtà, indugio soltanto nel reiterato tentare, nel grato ricercare.
Per attenersi ai fatti, all’accaduto, questa volta l’intento era quello di riprendere in foto il susseguirsi dinamico delle nuvole e lo sfilare innocente del blu sottostante. Ho scattato: a ripetizione, dal treno. Ho scattato sperando che prima o dopo i due elementi apparissero privi di contorno ridondante, superfluo, inessenziale: di fili, di ponte, di porzioni di finestrino di treno. E invece niente. Ho continuato a scattare: una foto dopo l’altra, un momento inseguito dall’altro. Ma ciò che speravo non è avvenuto. E non doveva di fatto avvenire. Altrimenti, non sarebbe stato il ‘mio solito essenziale’: quell’essenziale che si rivela non tanto nell’opposizione con il marginale quanto nel situarsi in un processo in divenire. Alla resa dei conti, si può dire che questo di cui parlo è un vero e proprio stile di vita. Perché ci sono due modi di agire rispetto al vivere: vivere per ottenere un obiettivo e poi passare a un altro e ancora a un altro, in un circolo vizioso, instaurato senza fine; oppure, vivere situando la propria azione maggiormente nel processo e gioirne. In ultimo, si può dire che questo mantenersi nel processo vivo è un esercizio per uscire dal solco della routine regolata e andare oltre. E, com’è noto, il «pensiero muore quando non lo eserciti oltre» (Cioran 2016: 46).
Il fascino (del) quotidiano
Mi affascina il quotidiano, eccome se mi affascina! Mi affascina riflettere su ciò che in apparenza sfugge e rifugge da noi o si mostra rutinario, di scarsa importanza, omogeneo, già inconsapevolmente accettato e così non è o non dovrebbe essere. Mi affascina ritagliare il quotidiano, attraverso una foto e poi un’altra e un’altra ancora, per rivelare – a me stesso, a me fuori di me, ad altri ancora – la sua complessa composizione, la sua disancorata inavvertenza, la sua illusoria innocuità. Mi affascina mettere a fuoco sul dettaglio infimo e inosservato del comune vivere, sulla sua esteriore datità irriflessivamente assunta o scarsamente ricusata, per rivalutarne la sua intima costruzione così come il suo valore d’insieme più strutturato. Mi affascina l’ordinario più incurante, mi affascina giocarci più liberamente, rimetterlo in gioco fuori tempo: con uno scatto insensato, pur inadeguato, perché solo così – nella fuga del processo che ostinatamente si sottrae alla trasformazione in linguaggio certo, riconosciuto – posso talvolta capire meglio il peso di ciò che è straordinario, sensato, non assecondato, senza resa, all’infinito, in qualche modo immediatamente mediato.
Mi affascina scomporre la placida uniformità del quotidiano nei suoi minimi elementi per poterne cogliere i gradi diversi della sua insospettata interiore laboriosità. Mi affascina il quotidiano perché è una sottile, malcelata mise en abyme della soggettività non più ripiegata su se stessa, pur sempre metacompresa: anche quando non te ne accorgi, sai che ci sei dentro fino al collo e non riesci comunque a capacitarti e prendi fiato e distanza e niente è invece cambiato e niente sembra prendere altro verso a te più consono e poi, in un attimo, la rivelazione della soglia da superare si ripresenta e tutto ricomincia perché «vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo» (Van Gennep 1981: 166). Mi affascina tentare di esaurire il quotidiano come se fosse un luogo multi-prospettico sottoposto al logorio dell’osservazione che inevitabilmente cede rispetto alla sua complessità e volge verso altro e non resta che uno scatto che ne serba il ricordo solo per un momento rassegnato, finché non si ricomincia, finché un nuovo inizio non si annuncia e altre soglie da valicare si prevedono: «soglie dell’estate o dell’inverno, della stagione o dell’anno, del mese o della notte; soglia della nascita, dell’adolescenza o della maturità; soglia della vecchiaia, soglia della morte e soglia dell’altra vita (per coloro che ci credono)» (Van Gennep 1981: 166). Mi affascina considerare il quotidiano – oltre le soglie stesse – un inventario di ‘luoghi comuni’ da rivoltare e attraversare per liberarmi del suo apparente fardello di grigiore, per restituirmi nuovamente a me stesso, alla forza dell’esistenza bucherellata dalla sorpresa aguzza ma non aguzzina. Mi affascina «interroger l’habituel. Mais justement, nous y sommes habitués. Nous ne l’interrogeons pas, il ne nous interroge pas, il semble ne pas faire problème, nous le vivons sans y penser, comme s’il ne véhiculait ni question ni réponse, comme s’il n’était porteur d’aucune information. Ce n’est même plus du conditionnement, c’est de l’anesthésie. Nous dormons notre vie d’un sommeil sans rêves. Mais où est notre vie ?» (Perec 1989: 11).
E allora, ribadisco io, ripartiamo dalla nostra vita comune, dalla sua anestesia da neutralizzare e scomporre e ricomporre ogni volta di nuovo e daccapo; ripartiamo dal quotidiano ritradotto in scatto, ritaglio su ritaglio, prospettiva su prospettiva, di denotazione in connotazione, di foto in foto. Perché in fondo, al pari del vivere comune, la fotografia si fonda su un enorme potere di credibilità, sull’ostentazione della denotazione, sulla forza che possiede nel «far passare come semplicemente denotato un messaggio che, in effetti, è fortemente connotato» (Barthes 1985: 11). Spetta a tutti noi, allora, sforacchiare – come direbbe Deleuze – il valore denotativo del vivere (e della foto) per recuperare connotati; spetta a tutti noi scomporne il suo montaggio in apparenza precostituito per risalire ad altro. E la fotografia – per questa sua tendenza a riproporre in modo sapiente gerarchie di valori denotati e connotati – è un utile ‘strumento cubista’ di scomposizione e ricomposizione multi-prospettica del vivere.
L’ombra della poesia nella mia vita
Che bella giornata, oggi, a Palermo! Sì, proprio oggi, il sole splende dalle mie parti e io sono libero da impegni. Oggi, solo oggi e ancora oggi: dopo due settimane di lavoro frenetico, sono libero, niente impegni, lezioni, seminari, schede da compilare, mail a cui rispondere o corsi di inglese per arrotondare. Sì, certo, c’è il solito articolo in sospeso, ma chissenefrega. Non importa, oggi, non importa proprio! Una suonatina alla chitarra, per incominciare, riproponendo all’infinito quel fantastico pezzo di Neil Young in re maggiore tratto da Harvest. Poi, pago, faccio altro. Do un’occhiata a fb, tanto per sapere cosa dicono gli amici virtuali (e non). Do un’occhiata a immagini e racconti di fb, ma lo richiudo rapidamente con uno scatto felino che non mi appartiene, che non mi riconosco. Perché? L’impressione impertinente che ne ho ricavato mal si accorda, infatti, con i sentimenti di calma e serenità che provo in questo momento: con i raggi del sole in soffice picchiata sulla mia finestra, con i riflessi di una natura che ‘sarebbe’ dalla nostra parte se solo lo volessimo un po’, se solo mettessimo da parte inutili ideologie del profitto. E, invece, ne succedono di tutti i colori, succede di tutto, succede tanto. E fb diventa giustamente un promemoria di disastri, sventure e intrallazzi che, per quanto giustamente combattuti da alcuni, mettono comunque tanta tristezza.
Io non ho voglia di combattere oggi, né di indignarmi o altro. Voglio soltanto lasciare correre i miei pensieri piacevolmente: sull’onda della delizia leggera fornita dai raggi del sole sulla mia persona, sulla mie sensazioni. E allora, proprio per ripartire da fb (che colpa non ha di quanto succede nel mondo!), comincio con una bella, inaspettata coincidenza che mi ha sorpreso non poco oggi. Franco ha postato una scena di un film di Jarmusch che amo: Paterson. Un film affascinante in cui Jarmusch, il regista, riesce a coniugare due diverse estetiche dell’agire e pensare: quella più occidentale (in cui la pianificazione dell’agire si rivela efficace se portata a compimento) e una più tipica di alcune culture orientali (secondo cui l’azione va vissuta nel suo svolgersi, relegando nello sfondo la pianificazione). In qualche modo, i due personaggi – una coppia – rappresentano le due diverse concezioni dell’agire e pensare. Lui, Paterson, è un conduttore di autobus e poeta a ‘tempo perso’; lei, Laura, si dedica invece a tanti piccoli lavori che richiedono, comunque, una certa pianificazione e una gratificazione che arriva, puntualmente, nel momento in cui l’agire si rivela efficacemente realizzato. La bravura di Jarmusch consiste, secondo me, nel non opporre in maniera conflittuale i due modi di pensare e di agire, ma di offrirli allo spettatore – senza frizioni fini a se stesse – come due modi compatibili di vivere la vita: al pari di una poesia in cui i diversi parallelismi contribuiscono a una mirabile costruiscono del senso e dei sensi. Mi sembra, senza esagerare, che l’intera narrazione filmica possa essere vista come un dispiegamento di immagini (e parole) che costruiscono l’azione e al contempo ne ripropongono magistralmente, di volta in volta, figure del mondo sotto forma di allitterazioni e assonanze poetiche. Ai miei occhi, il film è una sorta di immensa poesia che, con il pretesto di raccontare una bella storia d’amore quotidiano tra due individui, rivela gli aspetti più poetici dell’esistenza in generale. Ci sarebbe tanto da dire sul film in sé e sui modi di concepire il quotidiano e la poesia. Mi riservo di farlo altrove, in un futuro, più esteso saggio.
Qui, voglio invece spostare l’accento sulla mia sorpresa di oggi in fb. Che bella coincidenza! Oggi, aprendo fb, sono stato colpito dal fatto che Franco aveva postato alcune scene del film di Jarmusch. E sono stato colpito perché, ieri, io ho presentato – guarda caso – questo film a studenti e studentesse del ciclo di seminari sul cinema, mettendone in risalto quella che è la forza di combinazione di due concezioni antropologiche in gran parte diverse del vivere, tuttavia coniugate sapientemente, nel film, dai due personaggi che si amano e si aiutano nella reciproca realizzazione di scopi preposti o vissuti. Insomma, il film in questione è un inno all’amore e alla comprensione reciproca: questa è, tra le altre, una delle ragioni per cui l’ho scelto e presentato, ieri, a studenti e studentesse. Devo dire con piacere che la discussione che ne è scaturita, a fine visione, è stata interessante, nonostante a volte la ricezione sia stata molto diversa – per me inaspettata – in alcuni spettatori presenti in aula. Per quanto mi riguarda, al di là delle singole interpretazioni, mi piacerebbe personalmente che la vita fosse un po’ come lo è nel film di Jarmusch: un inno all’amore e alla felice coniugazione di diverse, molteplici estetiche che si trasformano, di fatto, in poesia del quotidiano. E non è comunque stupefacente, per tornare al film, che io ne riceva questo bell’effetto estetico. Com’è noto, Jarmusch è un regista, ma, anche, poeta e musicista, oltre che appassionato d’Oriente.
Per concludere e tirare l’acqua al mio mulino (antropologico), vorrei ribadire che c’è un modo sottile di vedere la cultura che è anche poetico: trovare corrispondenze e accordi anche laddove sembrerebbero di primo acchito non essercene. E, in questo, pur non essendo un antropologo, Jarmusch riesce benissimo nel suo scopo. Buon per lui e per noi! Rimarrebbe un punto, qui, da chiarire: l’ombra di cui parlo nel titolo. Che c’entra l’ombra della poesia nella mia vita, visto che oggi è una giornata di pieno sole? Ah, sì, ecco, avevo incominciato a scrivere pensando di parlare di Jarmusch – la sua poesia per immagini, le sue immagini poetiche – attraverso il Libro d’ombra di Tanizaki in cui l’autore, uno scrittore giapponese, loda un’estetica della vita quotidiana fondata sul valore dell’ombra e della penombra. Che libro delizioso! Delizioso quanto il film di Jarmusch. Ammetto di aver tradito le mie intenzioni iniziali e ho parlato d’altro, ma c’è tempo per questo: la prossima giornata di sole, potrei infatti parlare del valore della penombra per la cultura giapponese e per Tanizaki. Si sa, comunque: le intenzioni non sempre si traducono in fatti, così come i programmi d’azione non sempre si traducono – non sempre si dovrebbero tradurre – in atti. La sospensione provvista dalla proiezione piena del soggetto nell’azione in corso, vissuta in sé, ha un suo valore poetico ed esistenziale che io apprezzo molto. Il film di Jarmusch ce lo dice in tanti modi: poeticamente, per parallelismi di immagini, ricorrendo all’amplificazione del dettaglio, focalizzando l’attenzione sulle rivelazioni del momento, manipolando la dimensione del tempo attraverso ripetizioni trasformate in piccole estasi, grazie all’osservazione minuziosa del paesaggio e alla valorizzazione di ciò che – soltanto – in apparenza è insignificante. Conta a volte – direbbe semplicemente Paterson – il momento vissuto e la pienezza del sentire nel suo svolgersi. Tanizaki sarà per un’altra volta, per la prossima giornata di sole. E, in Sicilia, non mancano, fortunatamente, nonostante tutto.
Dramma dello sguardo, potenza dello slargo
Quella sorta di pedana sul mare – un pontile, un imbuto, uno slargo o che so io che voglio io e che dico io – attira il mio sguardo appuntito e poi pure il mio passo sicuro, non certo i miei pensieri a tratti scuri e densi tuttora distratti dalla folla di persone chiassose alle mie spalle o le mie mani rilassate sull’apparecchio fotografico divenuto ormai fin troppo pesante per la lunga giornata trascorsa all’aperto, in visita a Liberty Island, a Ellis Island; la prospettiva a imbuto, da parte sua, non è da meno: contribuisce a risucchiare le mie intenzioni, rimodellandole non senza attrito per il mio corpo ancora incerto sul da farsi. Sono pronto a sparire nel vortice di effetti contrastanti? Sono pronto? No, non ancora! So bene però che lo skyline vorrebbe invece, senza esitazione, che io arrestassi su due piedi lo sguardo sui dettagli e riconoscessi i singoli edifici uno per volta, attimo dopo attimo; lo sguardo avrebbe in effetti interesse a cogliere i diversi dettagli nella loro singolarità, sfumando per gradi questo primo effetto totalizzante che ricevo da uno scompigliato insieme.
Che potere hanno le parole sullo sguardo? Come procedere alla sua resa? Se lo slargo nella sua offerta d’interezza produce un solido benché apparente affondo sulla liquida mobilità delle acque, lo skyline al contrario non si concede totalmente, richiede tempo al tempo che si sottrae anch’esso per non rendersi complice di questa sorta di recita che è in atto al mio cospetto. I gabbiani se ne infischiano del mio piccolo dramma dello sguardo: sono immobili e non accennano a dare segno di una qualche vitalità. Potrei dire di essere al loro pari vittima dell’immobilità, potrei affermare che sono in attesa di un lieve moto che scuota la mia indecisione e produca un effetto sui miei sensi in sospensione. Vorrei essere quel personaggio di Sartre che si lascia cadere su una panchina e dice: «Un albero gratta la terra sotto i miei piedi con un’unghia nera. Vorrei tanto lasciarmi andare, dimenticarmi, dormire. Ma non posso, soffoco: l’esistenza mi penetra da tutte le parti, dagli occhi, dal naso, dalla bocca… E d’un tratto, d’un sol tratto, il velo si squarcia, ho compreso, ho visto» (Sartre 1948: 171). Io mi volto ma non c’è traccia di panchine alle mie spalle e penso di non avere scampo se non affrontare lo slargo. Non mi resta che scattare una foto sperando che almeno la foto resti traccia d’un vissuto traballante. Non mi resta che riflettere sul fatto che tutto questo – e, direi, ancor di più se non soffrissi d’un senso generalizzato d’impotenza di fronte allo spettacolo del mondo da rendere in parole – non è durato che un solo, misero secondo.
A volte, la sospensione
A volte, quando ne ho voglia, quando ho un po’ di tempo da spendere diversamente, pratico proficuamente un esercizio d’antropologia che ad alcuni potrà forse sembrare strano: cerco di cogliere il senso del vivere senza tirarmene fuori, senza sottrarmi all’esistere in corso. Non fingo, come talvolta succede a tanti e a me stesso solitamente, di mettere in pausa l’esistenza per rifletterci più che altro dall’esterno, osservando l’esistenza come se fosse quella di un altro: cerco, al contrario, di coglierla producendomi in un’incursione sul senso del vivere dall’interno-soglia del mio essere, osservandomi vivere proprio mentre vivo nel flusso, esaminandomi minutamente nelle interazioni ordinarie, proiettandomi nel tempo che scorre, tuffandomi nello spazio che percorro. Per molti aspetti questo esercizio ha, per me, a che vedere con un suggerimento dato da Malinowski, negli Argonauti, a proposito di domande da porre ai nativi: «Anche se non possiamo porre domande a un indigeno riguardo a regole astratte e generali, possiamo sempre chiedergli come viene trattato un dato caso» (Malinowski 2004: 21-22).
Per quanto mi riguarda più particolarmente, non si tratta di interrogare un nativo; semmai, si tratta di considerare me stesso un nativo da sottoporre alla lente scrutatrici dell’antropologo che sono io stesso; si tratta di porre in un angolino regole astratte e generali e di dedicarsi al caso concreto del (mio) vivere momento dopo momento, attimo dopo attimo incessantemente inarrestabile. Qualche giorno fa, durante uno di questi esercizi notturni, mi sono imbattuto – era già mattino, il sole era già sorto – in una gara podistica in pieno centro. Era così strano vedere le strade del centro senza il solito chiasso assordante delle auto che occupano spazi e tempi dell’esistenza urbana. Era così strano vedere le strade ricoperte, a tratti, dai bicchieri gettati dai corridori che avevano bevuto al volo, in corsa. Così, ho pensato bene di abbassarmi, quatto quatto sul terreno, e di scattare una foto che potesse immortalare la stranezza della città in quel momento e il fluire nel vivere lento di quegli attimi ugualmente strambi che stavo vivendo. Allora ho capito, una volta di più, che uso sovente la foto come se fosse traccia di un possibile processo di scoperta. Al pari del processo di scrittura che «invariably brings discoveries» (Narayan 2012: x), la foto si rivela strumento di rivelazione dei rapporti che noi intratteniamo col mondo. Io uso la foto non soltanto per affidargli un ricordo caro ma, anche e soprattutto, per consegnare me stesso a possibili scoperte dell’essere nel mondo: come valvola di fuoriuscita catartica che mi avvicina al mondo che esperisco.
Il fatto più interessante è che, in molti casi, attraverso la foto scopro un senso di sospensione, di non-finalità, che si oppone a una concezione del vivere fondata invece sulla pianificazione rigida dei compiti da portare a termine. Perché è vero: per lo più, la nostra concezione del fare è basata sulla pianificazione del fare che si manifesta nel voler concludere, nel voler portare a compimento i propri progetti di vita. Che senso avrebbe la vita se non tendessimo verso un fine pianificato? Potrebbe, la vita, avere un senso senza finalità? Non dico il contrario. È pur vero, tuttavia, che è necessario lasciarsi percorrere di tanto in tanto da una dolce sensazione di sospensione.
Questa sospensione di cui parlo può trasformarsi in vero e proprio vissuto epifanico oppure, in altri casi, divenire un modo del tutto diverso del conoscere, non più fondato sulla sola osservazione quanto sullo scavo e su un’associazione simbolica in cui i sensi giocano un ruolo di primo piano. Lo ricorda Lévi-Strauss in poche righe fulminanti: «Ho imparato che la verità d’una situazione non risulta tanto dalla osservazione giornaliera, quanto da quella distillazione paziente e frazionata che l’equivoco del profumo m’invitava forse già a mettere in pratica, sotto forma di uno spontaneo giuoco di parole, veicolo di una lezione simbolica che non ero in grado di formulare con chiarezza. Più che un percorrere, l’esplorazione è uno scavare: una rapida scena, un angolo di paesaggio, una riflessione colta a volo, permettono da soli di comprendere e interpretare orizzonti altrimenti sterili» (Lévi-Strauss 1960: 45-46). Più che una sorta di scavo, però, fotografare è per me un richiamare la mia vita al distacco dal senso di finalità attribuito da aspirazioni e ambizioni spesso fini a se stesse. Come si chiede Stoller infatti: «In the end, the most important question we face is: How can we live well in the world?» (Stoller, Stoller 2016: 162). E vivere bene nel mondo non va necessariamente associato a finalità fini a se stesse o a un rigido calcolo del da farsi in termini economici. Il benessere, oltre che fondato su alcuni principi economici, deve essere anche interiore. Personalmente, più che dei soldi, m’interessa avere la libertà di potere essere e fare senza costrizioni. E la foto mi aiuta, in questo, a ritrovare un senso nell’apparente non-senso.