di Martina Mugnaini
In un momento storico nazionale caratterizzato dalla destrutturazione dei valori fondamentali dell’accoglienza e dell’asilo, invalidati da implausibili ipotesi di accordi bilaterali tra Stati europei e africani, mirati a arginare la partenza di milioni di persone, appare ancora più cogente voltare lo sguardo verso il sistema italiano dell’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati per quello che è stato fin qui. Per quanto la pleonastica retorica condivisa abbia sovrastimato, tra ingenuità e carrierismo politico, i caratteri positivi della macchina dell’accoglienza, alcuni interrogativi restano sul tavolo.
Cosa è stato quel sistema dell’ asilo che, con tutta probabilità, verrà ricordato come la punta di diamante dell’azione di soccorso e accoglienza per i migranti provenienti dalla rotta Libia-Lampedusa nel ventunesimo secolo? A ben guardare, dal sistema dell’umanitario emergono più ombre che luci. Ciò nonostante, appare professionalmente doverosa una premessa di fondo, che individua nelle scelte politiche odierne, un sistema che butta via il bambino con l’acqua sporca, smantellando un meccanismo che nelle sue fragilità e ipocrisie ha anche avviato processi virtuosi. Il vuoto lasciato dalla terra bruciata delle ruspe lascerà il posto a una macchina ben più ingovernabile da un punto di vista dei costi umani, sociali e economici che essa produrrà. Le gestioni oligarchiche dell’accoglienza al ribasso economico riporteranno in auge grandi sistemi di ghetto, alimentando nostalgiche retoriche dei tempi andati.
Ed è quindi in un’ottica di evoluzione socio-politica che risulta utile comprendere cosa non ha funzionato del nostro sistema di accoglienza. È risultato davvero sostenibile da un punto di vista economico, politico e sociale, in particolare considerazione della maggiore o minore equità o subalternità dei rapporti sociali che ha generato? I processi di integrazione socio lavorativa dei migranti coinvolti hanno funzionato? I professionisti coinvolti nel sistema sono stati in grado di comprendere e sostenere il carico del cambiamento? Cosa rimane del processo di integrazione attivato dalle strutture dell’accoglienza da un punto di vista sociale? In breve, cosa possiamo tenere e cosa buttare del sistema dell’umanitario in smantellamento?
Per uno sguardo di insieme, e sebbene appaia lettera morta, non è di recente elaborazione il dibattito sull’empowerment del sistema di asilo europeo sorto in seno al Parlamento Europeo all’interno del gruppo parlamentare socialdemocratico. L’S-D Position Paper on Migration sottolineava con forza la necessità di ripensare con urgenza le politiche di asilo europee, al fine di fronteggiare con pragmatismo la sfida della crisi dei rifugiati, considerandola sia nei suoi aspetti di gestione esterna, e quindi internazionale, ma auspicando al contempo un coordinamento in seno ai partner dell’Unione, da attivarsi attraverso azioni effettive e sinergiche tra comitati parlamentari, istituzioni, agenzie internazionali e ONG attive sul territorio. In relazione a questo, veniva così sollecitato il necessario supporto da parte del corpo istituzionale verso le organizzazioni che di questo cambiamento avrebbero dovuto fare agenda, in un’ottica di condivisione delle responsabilità sociali e di effettiva cooperazione.
I punti chiave del se non dimenticato a oggi sopito dibattito, ruotavano attorno ad imperativi operativi dell’accoglienza europea, ed erano gli stessi del discorso nazionale che auspicava sperimentazioni virtuose. Il gruppo parlamentare di riferimento, marcava con forza la necessità di sostenere in termini finanziari e operativi le realtà socio-politiche che si sarebbero avviate verso nuovi paradigmi teorici e operativi. In linea prioritaria, perorava il rispetto dei diritti umani in ogni circostanza attraverso un approccio gestionale dell’accoglienza basato su politiche che avrebbero dovuto limare situazioni sociali di marginalizzazione e svantaggio, in una prospettiva di protezione e rafforzamento dei diritti civili e sociali dei migranti forzati. Ma gli sforzi dispiegati in aula non hanno incontrato altrettanti risultati operativi. Ad esempio, la proposta dell’abolizione dell’attuale sistema di Dublino IV, auspicata come effettiva collaborazione tra Stati membri per ripartire gli oneri dell’accoglienza in parti eque, si è consustanziata in esili sistemi di replacement.
La proposta tuttavia intendeva anche fornire manforte alla promozione delle politiche locali e delle pratiche per l’integrazione, attraverso l’accesso da parte dei migranti a sistemi educativi e formativi concreti, auspicando un’apertura dei canali di inserimento lavorativo tramite il sostegno istituzionale e politiche territoriali antidiscriminatorie.
All’interno di una letargica cornice internazionale e di una avventurista ottica nazionale quale è quella attuale, votata alla restrizione delle casistiche meritorie di protezione internazionale, sembra possibile volgere lo sguardo verso ciò che è stato implementato in termini di accoglienza fino ad oggi, a scanso di frangibili nostalgie sui tempi andati da un lato, nella speranza di un nuovo paradigma dell’accoglienza dall’altro, ispirato al rispetto della totalità dei diritti sociali e civili delle persone accolte sul nostro territorio, siano esse detentrici delle due tipologie di protezione rimaste in piedi, di una delle casistiche speciali, oppure no.
Lo stato di emergenza gestionale nel quale verteva l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, rilevato non molto tempo fa dall’analisi di alcuni studi di caso afferenti sia al sistema straordinario (CAS) che secondario (SPRAR), è collegato a due ordini di motivi di ambito differenziato. Da un lato, in molte circostanze la progettualità riscontrava limiti burocratico-istituzionali, nonché legali, di notevole portata e di difficile superamento. Il secondo fattore di influenza sulla perdurante azione in stato di eccezionalità è invece di natura culturale. Dall’esperienza maturata sul campo e dalle dinamiche locali esperite, si rileva che le logiche dell’accoglienza in Italia hanno operato in buona parte fino a oggi in funzione dell’approccio emergenziale e assistenziale, atto a fornire risposte lampo e non durature, soprattutto disgregate dai bisogni sociali manifestati e sommersi, sia da parte dei migranti che della società civile.
I flussi migratori, invece, costanti nelle rotte e nei numeri sino a oggi, hanno da tempo segnalato la non straordinarietà delle rotte mediterranee e avrebbero potuto contribuire a situare la risposta dell’accoglienza su programmi sostenibili e durevoli, valutati su costi-benefici distribuiti su una lunga distanza temporale. Consustanziato dalle logiche proprie della mastodontica tecnostruttura politico-istituzionale, l’approccio dell’emergenza e dell’assistenzialismo si è riversato sugli operatori di settore, sugli enti gestori e sulle rappresentazioni, stereotipate e pervasive, della società umana.
Poter parlare di pianificazione di percorsi di integrazione all’interno di un centro di accoglienza per rifugiati e richiedenti, deve necessariamente passare attraverso sforzi di onestà intellettuale, per approdare a un contesto di analisi ordito su valutazioni bio-politiche realiste e oneste, relative ai disequilibri di potere intrinseci in questi meccanismi socio-politici. Così, l’attuale e predominante forma politica di dominazione dei corpi, racchiude sistemi di servo-struttura in applicazione al dominio delle vite particolari (Salinari: 2006). Il centro di accoglienza diviene luogo di confinamento e assistenza per persone in attesa di esiti sulla loro identità. Le forme dell’assistenza, anche quando della migliore qualità, devono ricordarci che l’ospitalità implica necessariamente una forma di sovranità (Kobelinsky: 2010), agìta nel caso particolare dai padroni di casa su popolazioni subalterne.
Le forme dell’umanitario, finché in tempo, avrebbero potuto così misurarsi con franchezza in termini di sforzi fatti, di luci e ombre, al fine di ripensare migliori modelli di gestione dell’accoglienza. I meccanismi sociali dell’oppressione, rappresentati in primis dalla legittimazione legale di centri di aggregazione e alloggio collettivo nel caso dell’accoglienza straordinaria, hanno evidenziato una scelta politica ben definita, che delinea un tipo di violenza strutturale (Farmer: 2006) condivisa a livello culturale, rafforzata anche e non solo da una rappresentazione distorta dell’umanità in eccesso.
All’interno della retorica comune il richiedente asilo, lungi dal rappresentare un individuo con diritti politici e sociali, viene infatti percepito, nel migliore dei casi, come detentore dei soli diritti umani fondamentali e parte di un’umanità in esubero da salvare (Malkki: 1996). Le categorie essenzializzanti entro le quali si inscrivono molti dei progetti di accoglienza, restituiscono l’immagine di un sistema che rimarca i valori della supremazia bianca, oscillando così tra eccessi di zelante umanitarismo e disegni di subalternità più o meno consapevoli.
Mai come oggi, la costruzione dei centri di accoglienza, assegna all’aiuto umanitario molteplici forme, meno liquide per i più attenti, che spaziano dalla detenzione e violazione dei diritti umani al confinamento di persone bisognose di vari tipi di aiuto, soggiogandolo alla logica dell’unilateralismo della decisione. Un sofisticato sistema atto al controllo burocratico delle identità, sia personali che collettive, attraverso la sperimentazione di gestioni pianificate di rifugismo di massa organizzato in forma planetaria (Salinari: 2006). La riproduzione delle diseguaglianze sociali, implicite in questo tipo di rappresentazione e propria di molti degli organismi di aiuto, sono così legittimate da un sistema politico, ad oggi rafforzato da scelte legislative basate su una scarsa analisi costi-benefici.
I campi profughi, e nondimeno i centri di accoglienza, si profilano quali spazi di eccezione (Agamben:2005) dentro i quali la nostra storia politica ha fatto nascere una categoria mondiale di senza posto e senza diritti (Agier: 2005).
Lo strutturale e perdurante stato di eccezione permanente, diviene così cornice metagiuridica entro la quale l’eccezione viene normata, fino ad assumere rigore stesso di norma (Salinari: 2006). Le progettazioni dell’umanitario avrebbero potuto sondare le maglie delle loro trame, intessute da questo tipo di rappresentazione politica, nell’ottica di un ripensamento della bio-legittimità agìta (Fassin: 2001). Come Harrell-Bond (2005) sottolinea, i forti «interessi politici nel mantenere tale situazione sociale nei campi» si fanno emissari del mantenimento di una struttura di cultura in sostituzione alla vecchia struttura di classe (Waldron:1992). I molti programmi proposti ai richiedenti asilo fino a oggi, quando presenti, rischiano quindi spesso di alimentare il disempowerment sociale dei soggetti coinvolti, piuttosto che integrarli in un tessuto disposto a nuove forme di convivenza.
Le istanze dell’accoglienza, in seguito alle modifiche avanzate dalle disposizioni di governo in materia, a cavallo tra imposizioni legali, dimensioni locali del sociale ed etiche, spesso soggettive, degli operatori coinvolti nel processo, si sono trovate e si troveranno ancora oggi a disagio con le logiche della supremazia politico-istituzionale o, in altri casi, con alcuni dei meccanismi di asservimento del potere umanitario a questa.
È possibile quindi sondare ed elaborare nuovi e più sani spazi di programmazione di inserimento sociale, al fine di rendere effettivamente risorsa e promuovere a concittadini (Ambrosini, Marchetti: 2008) coloro che vengono rappresentati come umanità da salvare o da accudire? In che misura è possibile svincolare l’operatività di noi tecnici dell’accoglienza dalla patina del meccanismo di quell’umanitario pret-à-porter che legittima e reitera l’odierna logica del divide et impera?
Dalla personale esperienza di campo in qualità di responsabile e mediatore di un centro di accoglienza prima, e dalla ricerca condotta sui sistemi di integrazione socio-economica poi, ho ricavato in molti casi l’idea di un umanitario come sistema di risposta assistenziale, spesso disarticolato dal tessuto sociale locale e dai bisogni delle persone coinvolte. In alcune circostanze la scarsa conoscenza da parte dei tecnici di settore circa i contesti politici e sociali di riferimento, le dinamiche di causa-effetto dei flussi migratori odierni, le procedure legali connesse al riconoscimento dello status di rifugiato, le strategie relative al problem solving e alla mediazione interculturale, appare quale principale causa dell’inefficienza operativa della macchina e della reiterazione delle caratteristiche distorte dell’umanitario.
Alla luce di tutto questo risulta non tanto necessario quanto doveroso, sondare gli spazi di eccezione rappresentati dai centri di accoglienza, in primo luogo ai fini di una restaurazione delle rappresentazioni sui rifugiati, in quanto persone dotate in primis di una propria soggettività (Rahola: 2005), di risorse personali specifiche e trasversali, per quanto difficilmente agibili all’interno di surrogati di patrie impossibili (Arendt: 1966), i centri di accoglienza.
Quello che appare certo è la difficoltà di agire il ruolo professionale di operatore dell’umanitario. Per farlo, risulta necessaria una consistente quantità di onestà intellettuale e professionale per la decostruzione degli stereotipi sui concetti di rifugio, di bisogno e di aiuto, che permeano in misura maggiore o minore tutti noi. Da un punto di vista del contributo degli studiosi, al fine di sondare il complesso spazio socio-politico e le dinamiche giuridiche in gioco, appare auspicabile fornirsi di strumenti che provengono da molteplici aree disciplinari. Le scienze umane rischiano un alto grado di specializzazione e settorializzazione, fattori che potrebbero comportare un indebolimento della capacità di lettura di una realtà socio-politica tanto complessa. Un onesto approccio multi-situato comporterebbe da un lato l’unica garanzia di sottoporre a plurime verifiche gli schemi prodotti dalla ricerca sociale e, dall’altro, la possibilità di fornire nuovi paradigmi culturali alla base di sperimentazioni più virtuose, nell’orizzonte di una società senza ghetti.