di Sonia Giusti
La libertà positiva dell’individuo è alla base dell’idea liberale della storia che ci aiuta a riconoscere e apprezzare la molteplicità delle concezioni della vita e del mondo e a considerare gli ideali etici come prodotti storici [1]. È infatti lo storicismo liberale che si è impegnato, contro ogni costrizione chiesastica e politica, a difendere lo sviluppo autonomo degli individui perché possano realizzare la libertà positiva di agire concretamente, spontaneamente e razionalmente [2]. In questo ambito di considerazioni è emersa la questione della concreta partecipazione degli individui alla storia, il modo in cui essi possono incidere e con quale consapevolezza.
Tra i filosofi contemporanei, nel solco dello storicismo crociano, Luciano Dondoli (1928-2006) ha insistito più di altri sul concetto di libertà positiva come capacità creativa dell’individuo, che considera importante quanto la capacità adattiva, indispensabile, quest’ultima, per «conservare i frutti delle altrui creazioni ponendoli come paradigmi delle proprie attività, capacità senza la quale gli uomini dissiperebbero la loro intelligenza in una serie infinita di invenzioni effimere». Il filosofo toscano ricostruisce i passaggi nodali attraverso i quali si è affermato il concetto di «ordine non programmato» nella storia del pensiero occidentale ricordandoci che già Platone, nel Cratilo, espone la teoria dei “nomoteti” come «gli iniziatori di consuetudini civili» tra i quali possiamo comprendere anche i personaggi umili, non solo i più grandi [3].
Secondo la concezione vichiana, la storia è un fare e un conoscere, e ciò non vuol dire solo che possiamo conoscere la storia perché la facciamo, ma anche che proprio «il conoscere è un fare»; e queste considerazioni vichiane sollecitano a pensare che con il conoscere si aggiunge sempre qualcosa di nuovo tanto che si può dire, sintetizzando al massimo, che «l’osservatore, ovvero lo storico, produce un suo mondo» [4]. Da questa prospettiva di ricerca si può aggiungere che, per analizzare la conoscenza storica è necessario includere l’osservatore nell’osservazione, cioè lo storico nella storiografia, e l’individuo nella storia, con la conseguenza che diventa centrale il problema del comprendere. Se consideriamo la conoscenza, «che non è scoperta di leggi giacenti dentro la natura, e neanche applicazione di principi innati nella mente, bensì un processo di comprensione, cioè di prendere insieme, di compartecipare», essa si presenta come produzione di mondi storici [5].
È chiarificatore, a questo proposito, il convincimento di Paul Klee secondo il quale il compito del pittore non è «riprodurre il visibile», ma «rendere visibile», allontanandosi così dal modo di intendere l’arte, per esempio, di un Leon Battista Alberti che la intendeva come finestra sul mondo che riproduce la realtà; Klee insiste piuttosto sul concetto di “comprendere” nel senso di costruire. In sostanza l’importanza del concetto di «rendere visibile» consiste nel mettere in campo, nella scienza storiografica, lo storico come «soggetto che partecipa». Ma per non rischiare di essere fraintesi sull’importanza dello storico che costruisce la sua storia, è utile ritornare, brevemente, sul concetto crociano di “contemporaneità della storia”, e sul concetto di “documento” che Benedetto Croce considera in modo acritico:
«Non vi è alcuna riflessione sul modo in cui, e sulle ragioni delle quali, una qualsiasi testimonianza o narrazione si costituisce come documento. In definitiva, il complesso dei documenti non è altro che l’insieme degli ‘interessi’ che il mondo contemporaneo proietta sul passato, che viene quindi eletto a proprio passato» [6].
Croce critica l’uso scorretto dell’immaginazione – o congettura – nella storia perché, così operando non si fa storia, ma romanzo storico: avvertendo che non si possono integrare le fonti quando esse non siano sufficienti alla ricostruzione di un fatto. Tuttavia, scrive Croce:
«la fantasia è indispensabile allo storico: la critica è vuota, la narrazione vuota, il concetto senza intuizione o fantasia, sono affatto sterili, e ciò si è detto e ridetto in queste pagine col richiedere la viva esperienza degli accadimenti di cui si prende a narrare la storia, il che importa insieme l’elaborazione di essi come intuizione o fantasia; senza questa ricostruzione o integrazione fantastica, non è dato né scrivere storia né leggerla e intenderla. Ma siffatta fantasia, veramente indispensabile allo storico, è la fantasia inscindibile dalla sintesi storica, la fantasia nel pensiero e pel pensiero, la concretezza del pensiero, che non è un astratto concetto, ma sempre una relazione e un giudizio, non una indeterminatezza …» [7].
Quando Croce parla di «viva esperienza degli accadimenti», non parla di un’esperienza empirica diretta, ma si riferisce al modo di comprendere il passato: «Esso consiste nel ridurre a sé spiritualmente il passato, nel farlo diventare una parte del proprio presente (spirituale), nell’investirlo insomma di una luce che lo renda parte del problema attuale» [8]. Su questo aspetto della concezione crociana della storia, quando parla di «viva esperienza degli accadimenti», converrà ritornare; intanto mi piace ricordare il libro di S. F. Bernardini e le sue considerazioni sul bisogno di comprendere il presente della storia attingendo al passato, cioè il principio crociano della “contemporaneità della storia”. Bernardini analizza la metodologia storiografica di Ernesto De Martino quando, nella tensione a comprendere la barbarie del suo tempo e il primitivo che pesava nel suo presente, parla di Hitler che “sciamanizza” in Europa, o come, per capire l’attardarsi di certi istituti magici nel Meridione d’Italia, l’etnologo indaga sul “mondo magico primitivo”, e non lo fa, certamente, perché spinto da curiosità folklorica [9].
Detto questo e ritornando a quella parte di storia che è stata definita “non programmata” come qualcosa di più rispetto all’ordine voluto e costruito dagli uomini – concetto già presente, come abbiamo visto, in Platone e poi ripreso da Adam Smith, Adam Ferguson, Hume, Wundt –, pensiamo a quanta parte della storia consiste in opere e fatti non dovuti all’azione programmata degli uomini che questi studiosi hanno considerato importanti nell’analisi della teoria della storia e nella comprensione antropologica delle culture altre. Wilhelm Wundt ha coniato l’espressione “eterogenesi dei fini” per indicare come prodotto storico le opere e i fatti non dovuti all’azione umana programmata, e nel suo Psicologia dei popoli ha ripercorso le tappe storiche dell’Evoluzione verso l’umanità alla luce della «esigenza di uno stato ideale in cui l’apprezzamento del valore umano diventa norma universale»; questa esigenza ideale è presente fin dalle età più antiche per le quali, nella contrapposizione fra natura e civiltà, fu inventato l’uomo primitivo come selvaggio. Wundt considerava che «il ritardo dell’evoluzione intellettuale» di quegli uomini “di natura” fosse dovuto all’isolamento e all’assenza di bisogni, nel senso che i profondi mutamenti di una svolta intellettuale non sono nati dal risveglio improvviso della loro intelligenza – già presente e attiva – ma dai grandiosi rivolgimenti storici, come «mescolanze, migrazioni, guerre». Proseguendo nella storia dell’umanità, a grandi balzi, il filosofo tedesco si ferma sull’impulso a viaggiare che ha caratterizzato il periodo ellenistico, quando gli uomini allargarono la loro visione del mondo e accrebbero il loro sapere, per riconoscere il sorgere della valorizzazione dei diritti individuali e l’incremento della costruzione della coscienza dei popoli che spiega così:
«La coscienza storica sta nel fatto che la concezione universale della storia dell’umanità, liberatasi dall’originario involucro mitologico e teologico, ha fatto valere l’idea di umanità nella forma più universale, che riassume in sé tutti i momenti anteriori dei popoli e dello Stato, dalla religione e dalla cultura e l’ha subordinata al principio di una legalità immanente ad ogni storia» [10].
Su questa base Wundt può asserire che non esistono popoli senza storia, purché ci si convinca che la storia dei popoli cosiddetti “primitivi” è, come quella degli animali e delle piante, priva di coscienza storica: per lui ciò che distingue gli stadi storici da quelli preistorici è, appunto, la coscienza storica, la consapevolezza del valore del singolo individuo. Oggi, alla luce delle conoscenze etnologiche e del pensiero filosofico, sappiamo che nessuno è escluso da questa consapevolezza, ma sappiamo anche che ci sono dei momenti storici di così forte tensione intellettuale e morale da caratterizzarsi, rispetto ad altre più buie, quali epoche di grande civiltà, come lo è stato per il Rinascimento che rappresenta il compimento della «grandiosa dissoluzione della metafisica medievale» e che avvia un senso nuovo della vita con «l’esplosione di personalità diversissime» [11].
Proseguendo nell’analisi del pensiero occidentale che ci ha portato a valorizzare l’impronta individuale, come responsabilità personale nella storia, una tappa importante è rappresentata da Friedrich von Hayek che ha elaborato la “teoria della strada” utilizzandola nel campo del linguaggio e del diritto; egli ha sottolineato, sia la capacità creativa del “nomoteta”, sia la passività dei più che è all’origine, come momento “economico”, della imitazione e che è alla base anche delle modalità di formazione dei gruppi. Il filosofo austriaco insiste sul concetto di «ordine non programmato» che è all’origine delle più importanti istituzioni umane, come le consuetudini giuridiche e linguistiche, distinguendo tra «ordine costruito e ordine spontaneo» [12]. I modelli di comportamento abitudinari sono analizzati dall’economista austriaco nella formazione degli equilibri di mercato e sono spiegati col modello analogico della strada che, inventata da un individuo, viene utilizzata da altri che trovano conveniente ripercorrerla, come nel caso di un cacciatore che trova una buona pista, per stanare la preda, che è ripercorsa da altri cacciatori.
Queste riflessioni sull’«ordine non programmato» mi sembrano utili per mettere a fuoco l’importanza delle azioni di ogni individuo anche di fronte alle grandi problematiche che caratterizzano la nostra epoca e che si sono aggiunte alla lotta di classe, tipico movimento di rivendicazioni proletarie del secolo scorso: ambientalismo, femminismo, immigrazione e povertà sono le grande sfide che hanno investito la storia planetaria recente. Il catastrofico cambiamento climatico causato dalle attività industriali e dalle emissioni dei gas serra, oltre all’esaurimento delle risorse energetiche, mette a rischio la sopravvivenza umana; il femminismo – dalla lotta all’emancipazione della donna alla sua liberazione tesa a rivendicare la sua diversità a partire dalla seconda metà del Novecento – lotta per realizzare un mondo che non sia solo maschile e per un modo di vivere rispettoso delle diversità di genere.
Di fronte alla globalizzazione sono venute meno le vecchie ideologie che hanno lasciato spazio a nuovi criteri valutativi dei rapporti umani nei quali sono emerse le tragiche diseguaglianze che vanno oltre le lotte di classe [13]. Stiamo vivendo in un mondo in cui grandi masse di individui cercano un lavoro e dove tanti giovani e tante famiglie di immigrati cercano angoli di mondo dove rifugiarsi scappando da guerre, fame e persecuzioni politiche e religiose. In questo mondo si impone una organizzazione sociale e ambientale finalizzata a un controllo democratico capace di far fronte al montante divario tra ricchi e poveri ad evitare guerre devastanti attraverso una politica di solidarietà internazionale, forme di intervento pubblico a correzione di un esagerato profitto privato e per la costruzione di una sovranità europea secondo lo spirito di Ventotene che auspicava la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Ma soprattutto è indispensabile pensare a un nuovo rapporto tra l’uomo e la natura con il quale realizzare percorsi diversi finalizzati a una maggiore comunicazione fra i popoli in un processo di crescita unitario nella diversità.
Giustamente gli antropologi parlano di contaminazioni piuttosto che di differenziazioni e mi piace riportare uno splendido esempio di come ognuno rimane se stesso lasciandosi addomesticare: è l’esempio scherzoso del rapporto tra l’uomo e il gatto, assolutamente paritario, dove il gatto rimane se stesso e anche l’uomo, ovviamente, che ne ricava un nuovo senso della vita [14]. È di questi giorni, gennaio 2019, la disobbedienza civile di alcuni sindaci italiani di fronte al governativo “decreto di sicurezza” perché incostituzionale; si è riproposta, in questa presa di posizione, la questione del concetto positivo di diversità rifiutato da molti che considerano gli immigrati come un pericolo che si può evitare solo respingendoli o integrandoli, nel senso di «farli diventare come noi», perché il pericolo, si dice, è che siamo noi a diventare come loro: «il pericolo è l’islamizzazione» [15].
Contro i frutti avvelenati dei populismi e dei sovranismi non c’è altra via che educarci a una concezione nuova del mondo, per imparare a stare con gli altri, per rispettare i modi diversi di essere umani puntando ad una intelligente visione europea, anzi, internazionale, per non ripetere gli errori del passato. E in questo ci aiuta la memoria storica che ci fa capire come non si possano mai dare per certe le conquiste umane e come, anzi, esse si possano perdere, come «quando l’Islam insegnò al mondo la convivenza fruttuosa fra i tre monoteismi, e come la memoria si perse, s’impoverì, degenerò infine in sette fanatizzate» [16].
Nel faticoso processo di una umanità consapevole ogni individuo, a prescindere dalla sua estrazione sociale, fa la sua parte, nel bene e nel male, e non dobbiamo dimenticare che si può imparare ad evitare gli autoritarismi e a difenderci dalle manipolazioni mentali dei mass media. Nella consapevolezza che la storia non è fatta solo di realizzazioni programmate, ma è piena di eventi indeterminati e inaspettati, è indispensabile investire nella funzione prioritaria dell’educazione – scolastica, universitaria, lavorativa – per costruire personalità capaci di difendersi dai seducenti canti delle sirene populiste. Un altro mondo è possibile, nel senso che è possibile costruire una democrazia partecipata. Kant ci ha parlato di una facoltà umana che è «l’immaginazione produttiva», un prodotto dell’intelletto capace di costruire il proprio mondo, di rendere l’uomo libero e responsabile di una società civile [17]. Ma è pur vero che noi siamo dentro la nostra storicità: il nostro modo di pensare e di agire è condizionato storicamente. Non si può parlare di scelte individuali sradicate dalla propria storia e, alla luce di queste considerazioni, appare in tutta la sua necessità la formazione di personalità critiche e responsabili, capaci di rompere l’incantamento dei populistici governi forti.