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L’idea del teatro festivo urbano e lo status anomalo dello spettacolo in Sicilia

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Fabbrica del Teatro, sua disposizione ed apparato (inc. F. Cichè, sec. XVIII)

di Giovanni Isgrò

Rispetto all’evoluzione del teatro italiano, la storia dello spettacolo in Sicilia ha fatto registrare, in particolare nell’età moderna, una sorta di “temporalità autonoma”, giudicata dagli storiografi, come una vera e propria “anomalia”. Ciò in buona parte fu dovuto alla situazione politica della nostra Isola, caratterizzata dal succedersi di dominazioni diverse e, conseguentemente, dal sovrapporsi di consuetudini importate che impedirono uno sviluppo organico dei processi culturali.

È vero che i Siciliani seppero assimilare di volta in volta fenomeni artistici nati e maturati altrove, al punto da restituirli in forma originale grazie a topiche reinvenzioni, ma rimasero testimonianze che non poterono essere riconosciute e codificate in ambito sovranazionale. Al tempo stesso, dominatori e colonizzatori di turno orientarono le pratiche dello spettacolo in relazione alle loro logiche di dominio, facendo sì che la Sicilia rimanesse estranea ai circuiti delle arti e dello spettacolo che si andarono delineando al di fuori della nostra Isola.

L’unica costante che poté caratterizzare nei secoli la scena teatrale siciliana, ossia quella del teatro festivo urbano, rimase fenomeno logisticamente non esportabile. Per quanto le sue origini si collochino nell’ambito degli eventi celebrativi legati all’immagine delle grandi monarchie normanna e sveva, bisogna attendere tuttavia il ‘500, ossia l’inizio del lungo percorso del dominio diretto della Spagna (dopo l’unificazione della corona di Castiglia e di quella di Aragona) perché l’anomalia siciliana del teatro conquisti una sua “identità” e una sua regolarità (cfr. Isgrò 2000 e 2011). Ciò avviene grazie ad una specifica combinazione fra gli orientamenti politico-culturali della monarchia dominante, pur veicolati dai diversi gusti di viceré spagnoli e del continente italiano e la strategia della Compagnia di Gesù proiettata nella pratica scenica in strada e nei collegi (cfr. Isgrò 2008). E ci fu anche un humus fatto di cultura materiale vissuto nelle botteghe artigiane, al servizio dei promotori dell’aparencia barocca, ma anche di cultura orale maturata sul solco della devozione e nelle feste (parti monologate e dialogate, orazioni, canti ecc.) e ancora di racconti epici e vicende rassicuranti ed esemplari di eroi generosi contrapposti a nemici e traditori: un percorso che alimenta il mestiere dei contastorie e approda all’opera dei pupi. (cfr. Isgrò 2011). E c’è l’interminabile repertorio mimico-gestuale legato agli esercizi di abilità, alla danza e alle azioni di massa e alle tante maschere dei riti di inizio d’anno e dei nuovi cicli stagionali, dal Carnevale alla Settimana Santa, alle feste di maggio e di mezz’agosto. Una mescolanza continua di sacro e profano in un contesto di assorbimenti e nuovi innesti provocati dal trascorrere della storia, ma sempre al margine della realtà sovranazionale.

E separatezza ci fu, in effetti, rispetto ai fenomeni che “contano” nella cultura del teatro “continentale” del tempo, dove esistono il professionismo e la regolarità della pratica scenica, come avvenne nel teatro rinascimentale e nella commedia dell’arte. Causa fondamentale, questa, della perduranza e del rafforzamento in ambito storiografico della nostra “anomalia”, di fronte alla quale non si pensò che il “caso siciliano” non potesse considerarsi “altro dal teatro”, bensì un “altro teatro”, fra i tanti teatri possibili. In questo senso si comprende come mai un altro settore “anomalo”, e per questa ragione rimasto troppo a lungo non sufficientemente studiato quale fu il teatro gesuitico, abbia trovato proprio in Sicilia, spazi di azione favorevoli e particolarmente congeniali. (cfr. Isgrò 2008).

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Carro Trionfale costruito da Paolo Amato (inc. F. Cichè, sec. XVIII)

Per quanto Palermo e Messina per tutto il ‘500 e parte del ‘600 abbiano condiviso in due rispettivi semestri il tempo della permanenza della corte vicereale, alla città capitale va rivolta la maggiore attenzione per comprendere in tutta la sua articolazione la specificità e la temporalità autonoma della cultura e dello spettacolo in Sicilia. Il passaggio di Carlo V nel 1535, di ritorno vittorioso da Tunisi all’inizio del tour autocelebrativo che lo avrebbe portato nelle principali città del suo impero, costituisce il termine post quem della sterzata storica che avrebbe dato l’avvio al processo di rifondazione e allo sviluppo dello spettacolo siciliano nell’età moderna, dopo il lungo buio del periodo aragonese.

Fu proprio la desolante arretratezza artistico-culturale di una Palermo incapace di celebrare adeguatamente il trionfo dell’imperatore a spingere infatti quest’ultimo ad affidare il viceregno dell’Isola a Ferrante Gonzaga perché si adoperasse, fra le altre cose, a ridare dignità e qualità scenica alla città capitale. Fu così che comparvero per la prima volta forme di spettacolo importate, come la Caccia Artificiale, realizzata nel grande piano della “Marina” trasformato in un fitto bosco per la meraviglia di migliaia di spettatori, e la naumachia, rappresentata nello specchio d’acqua antistante la costa palermitana. In entrambi i casi si trattò di azioni sceniche aperte alle masse secondo lo spirito della politica del consenso perseguita dalla monarchia dominante, anche se in parte ispirate dalla pratica di condizione della cultura rinascimentale.

Lo spettacolo che riscosse maggiore successo e destinato a farsi carico per tutto il secolo fino all’inizio del ‘600 degli aggiornamenti della scena palermitana, fu tuttavia l’Atto della Pinta. L’opera, chiamata così perché messa in scena nella chiesa di Santa Maria la Pinta nel 1538, rappresentava la “Creazione del mondo”. Teofilo Folengo, monaco benedettino noto come autore delle Maccheronee, in quel tempo relegato nel monastero di San Martino delle Scale, si prese cura di scrivere il testo, mentre è probabile che lo stesso viceré abbia condiviso col Folengo il ruolo di corago (cfr. Meldolesi 1973 e Isgrò 1983).

Una delle ragioni principali dell’originalità di questo vero e proprio esperimento scenico consistette nel fatto che esso fu una sintesi di forme artistiche diverse del panorama sovranazionale. Da un lato sembrò infatti collegarsi alla pratica degli autos sacramentales della tradizione ispanica, con le due macchine sceniche polarmente collocate, praticabili su quote diverse, collegate da un corritore, ossia una sorta di passerella lungo la quale procedevano numerosi personaggi della Bibbia (dai padri santi, alle sibille, ai profeti, ai re ecc). Al tempo stesso la macchinistica richiamava gli ingegni rinascimentali ideati da Brunelleschi per gli spettacoli d’Oltrarno in occasione del Concilio di Firenze del 1439, ma con la inedita variante del trasferimento degli angeli in carne ed ossa che, dopo aver sconfitto i demoni nella battaglia danzata sulla prima macchina scenica, «volavano in cielo» mediante un sistema di argani e funi sulla testa degli spettatori. Le scene della “creazione” avevano luogo invece nella grande macchina collocata all’altezza del coro della chiesa. Lo splendore dei costumi, a sua volta, testimoniò la raffinatezza ispirata dalla cultura rinascimentale veicolata da Ferrante Gonzaga; non così, invece, il ricorrente andamento processionale effettuato lungo il corritore che sembrava richiamare forme rappresentative itineranti di ispirazione devota di impronta tardomedievale, e per questo più familiari al pubblico siciliano.

Sul piano ideologico, la novità dell’evento consistette nella sua doppia connotazione di spettacolo curtense e al tempo stesso di massa. Come dire che Ferrante Gonzaga da un lato esibì all’aristocrazia dell’Isola la magnificenza esclusiva di quella sintesi ispano-rinascimentale, dall’altro attraverso il sistema delle repliche aprì la scena al consenso popolare, essendo anche gli altri ceti sociali ammessi ad assistere a tanto spettacolo.

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Macchina di fuochi artificiali nel Piano del Palazzo Reale (inc. F. Cichè, sec.-XVIII)

Prese forma, in questo modo, il ruolo archetipico dell’Atto della Pinta anche riguardo agli aspetti logistici attinenti le modalità di fruizione del teatro rispetto alla consuetudine legata alla ritualità parateatrale. La tappa successiva, quella relativa alla seconda messinscena dell’Atto della Pinta nel 1562, testimoniò l’aggiornamento in linea col percorso rifondativo di Palermo città-teatro; e fu un altro evento indicatore della sorte cinque-seicentesca del teatro siciliano. Essa ebbe luogo, infatti, non al chiuso ma nella piazza antistante il palazzo reale. Non a caso ciò avvenne soltanto meno di due anni dopo che per la prima volta si era formata a Palermo una compagnia di comici di diversa provenienza geografica (Friuli, Veneto, Lazio, Campania, Sicilia) determinata a svolgere per un anno il mestiere del teatro in Sicilia, esattamente come coevemente accadeva nelle aree continentali nelle quali cominciava a prendere consistenza il fenomeno della commedia dell’arte [1] (cfr. Isgrò 2011).

La differenza, davvero sostanziale per il destino futuro del teatro in Sicilia, consistette nel fatto che quella dei comici uniti a Palermo, fu soltanto una “falsa partenza” bloccata sul nascere dalla politica culturale della monarchia dominante volta a scoraggiare (se non ad impedire) qualsiasi forma di teatro legato a condizioni di fruizione separata, e comunque non collegata all’idea del teatro di massa inquadrato nella città-teatro e progettato per rispondere alla logica “ritualistica” di dominio.

La messinscena dell’Atto della Pinta del 1562, da questo punto di vista sintetizzò ancora una volta le nuove prospettive: l’uso dello spazio urbano visto nel suo significato simbolico (davanti al palazzo massimo del potere politico nell’Isola), il gigantismo delle macchine sceniche (di grandezza doppia rispetto a quelle dell’edizione precedente) rispondente alle misure della scala urbana, l’azione edificante in un contesto rituale assimilabile per contiguità a quello dell’obbedienza massiva al re cattolico di tutte le Spagne. La concezione dello spettacolo, con le sue lunghe azioni processionali assimilabili ai cortei paratattici e alle processioni devozionali dell’urbe, diventò al tempo stesso “pretesto” per annunciare alla città potenzialità espressive di lunga durata. Lo stesso dispositivo scenotecnico, dello spettacolo del 1562, con le due gigantesche torri polarmente contrapposte e collegate da una lunga passerella, si propose come un vero e proprio modello progettuale di quello che sarebbe stato l’asse di parata dell’urbe (via Toledo, oggi corso Vittorio Emanuele) delimitato dalle due monumentali porte (Porta Nuova e Porta Felice), che nel corso della seconda metà del ‘500 scandito dalle piazze e  dagli slarghi di rappresentanza, sarebbe divenuto spazio scenico urbano a tutto campo a partire dall’ultimo scorcio del sedicesimo secolo.

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Prospetto dell’ottagono nella Piazza Vigliena centro del-Cassaro (inc.-F. Cichè, sec.-XVIII)

Ed ecco l’ingresso trionfale di Giovanni d’Austria, di ritorno vittorioso dalla battaglia di Lepanto nel 1572 e poi i cortei dei “possessi” dei viceré, dei cardinali, dei presidenti del regno, con la presenza dei rappresentanti di tutte le categorie cittadine unite nella sottomissione al sovrano e all’autorità religiosa e ancora le grandi processioni devote, comprese quelle di straordinaria rilevanza come fu per l’ingresso delle reliquie di Santa Ninfa nel 1593, preludio dell’esplosione della festa barocca (cfr. Isgrò 1983).

In questo clima, uno dei vincitori di Lepanto, il principe Marcantonio Colonna, da poco nominato viceré di Sicilia, pensò persino di realizzare nel 1582, una sorta di “Teatro di Stato” ricavato da una chiesa sconsacrata, lo “Spasimo”. Ed anche in questo caso si trattò di una struttura inglobata nel contesto festivo. Ad integrazione delle cerimonie rituali, lo Spasimo offriva alla cittadinanza intera diverse forme di rappresentazione, sia sacre (compreso l’Atto della Pinta), che profane regolarmente replicate in più giorni. L’altezza dell’abside della chiesa sconsacrata consentiva, del resto, l’impiego di una macchineria scenica adeguata alla messinscena degli intermezzi apparenti, caratterizzati spesso da spettacolari effetti en ciel, in uso anche per i drammi sacri scritti da appassionati sacerdoti-dramaturg quali furono Gaspare Licco autore, fra gli altri, de Il martirio di S. Cristina e Bartolo Sirillo, autore del Martirio di S. Caterina. Sul versante laico, allo Spasimo si rappresentava di tutto: dalle egogle pastorali alle commedie spagnole, alle commedie letterarie; e perfino la commedia dell’arte. Le rappresentazioni allo Spasimo erano commissionate o/e prodotte dalle istituzioni locali, in particolare dal Senato di Palermo, e non era consentito l’accesso a compagnie di comici che intendessero esibirsi con ingresso a pagamento; né era concessa l’apertura del teatro al di fuori del tempo festivo.

Ma a questo punto è arrivato il momento di conoscere il ruolo avuto dai gesuiti nello sviluppo della scena in Sicilia. Insediatisi a Messina pochi anni dopo la fondazione dell’ordine, già negli anni ‘50 del ‘500, prima che in ogni altra parte del mondo iniziarono nell’Isola la loro attività teatrale istruendo i giovani collegiali nella pratica scenica che giunse a livelli artistici grazie soprattutto ai drammi scritti da padre Stefano Tuccio. Alcune di queste tragedie messe in scena dallo stesso Tuccio, in particolare il Christus Judex, seppero conquistare gli apprezzamenti di Papa Gregorio XIII (cfr. Isgrò 2008). Ciò che colpiva maggiormente gli spettatori era, insieme alla chiarezza del messaggio edificante, il gioco scenico fatto di salite e discese di personaggi diversi, sprofondamenti nel baratro, invenzioni scenotecniche in un contesto di forte cattura emotiva. Nasceva in questo modo lo stile gesuitico del rappresentare nel quale entravano tutte le componenti della messinscena, dalla musica alla danza, alla pantomima, oltre alla componente letteraria ben esaltata dallo spettacolo della visione che è alla base degli stessi “esercizi spirituali” promossi da Sant’Ignazio di Loyola. Fu così che i collegi gesuitici siciliani diventarono una grande palestra di teatro che da lì a poco si sviluppò negli altri collegi del mondo sia pure con modalità diverse in quanto legate allo specifico del territorio in cui i gesuiti si trovarono ad operare [2].

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Apparato e pompa della Basilica Metropolitana (inc. F. Cichè, sec.-XVIII)

Si trattò però di un’idea di teatro destinata a rimanere lontana dal professionismo e per questa ragione ampiamente ignorata dagli storiografi. I padri della Compagnia, del resto, combatterono tenacemente contro la pratica dei comici, in particolare dei comici dell’arte, essendo quella attività portatrice di messaggi spesso fuorvianti dai princìpi morali che l’azione controriformista, gestita sul piano teatrale dalla Compagnia stessa, intendeva invece affermare. Ma c’è un altro aspetto che ancor di più esprime l’importanza del ruolo avuto dai gesuiti nella storia dello spettacolo in Sicilia; ed è quello della pratica della teatralizzazione urbana, di cui furono per certi aspetti ideatori e maestri. Il loro esordio “in strada” era stato all’insegna dello shock urbano.

Nel 1567 i gesuiti a Palermo avevano sfidato gli eccessi delle licenze carnevalesche con un originale spettacolo itinerante, Il trionfo della morte, nel corso del quale, procedendo dietro una schiera di inquietanti cavalieri e di “battuti a sangue”, un carro alto 15 metri recava in cima il personaggio della “Morte” (cfr. Aguilera, 1737). Armato di falce bussava alle finestre dei piani alti dei palazzi incutendo terrore, intanto che al suono sinistro di trombe si univa il rumore di catene alle quali erano legati personaggi raffiguranti i potenti della storia terrena trascinati fra grida e lamenti strazianti. L’effetto determinato da questo spettacolo, che si trasformò presto in una processione penitenziale alla quale partecipò buona parte della cittadinanza, fu un segnale forte dell’attitudine dei padri della Compagnia a gestire l’attenzione delle masse e a regolare le dinamiche della teatralità urbana. Non è un caso che nel 1589 a loro fu affidata la “regia” dei festeggiamenti a Messina per l’ingresso delle reliquie dei santi Placido e Compagni (cfr. Goto, 1591). In quell’occasione si produssero a tutto campo in allestimenti scenografici con la creazione di addobbi e apparati effimeri sulle facciate delle chiese e dei palazzi, di performance musicali, canore, attorali, azioni processionali espresse in forma narrativa nelle piazze.

Testimonianze più alte della competenza ormai raggiunta dai gesuiti nella messinscena urbana, furono quelle legate ai festeggiamenti per la beatificazione (1610) e per la canonizzazione (1622) di Ignazio di Loyola e Francesco Saverio (cfr. Isgrò, 2008 e 2011). In quelle occasioni l’asse centrale di parata palermitano, insieme ai cortili e al salone del collegio, si trasformarono in luoghi deputati di azioni che, senza soluzione di continuità, portarono dagli spazi prospicienti il mare fin dentro la città. Fu, quella, la prova generale che portò alla definitiva regolarizzazione del teatro festivo contestualmente alla progettazione e alla messa in opera della festa barocca per eccellenza della tradizione palermitana, ossia il Festino di Santa Rosalia che, ancora oggi dopo quattro secoli, gode di buona salute. Né si può negare che questa festa regolata non sia stata exemplum per le grandi manifestazioni dei centri maggiori della Sicilia, da Messina a Catania, da Siracusa a Trapani senza trascurare i fenomeni di emulazione, soprattutto legati alla devozione, espressi in centri medi e piccoli.

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Prospetto Palazzo del Marchese di Geraci (inc. F. Cichè, sec. XVIII)

Nell’ambito della festa urbana sei-settecentesca, aspetto fondamentale curato dalla Compagnia di Gesù fu quello della cultura materiale legata alla pratica dell’effimero. Carri e archi trionfali, addobbi e apparati, altari e macchine sceniche (in particolare quelle gigantesche dei fuochi d’artificio), fondali dipinti e catafalchi alzati lungo i percorsi devozionali, avrebbero dovuto essere meraviglia per gli occhi e valore aggiunto per stimolare nelle masse emozioni e commozioni collettive [3]. Gli artigiani di Palermo seppero rispondere in modo esemplare all’insegnamento gesuitico, mentre i padri della Compagnia, da parte loro, misero in campo l’attitudine e l’orientamento dell’ordine a valorizzare le forze locali, pensando anche all’importanza della diffusione del lavoro. Fu così che, come nelle riducciones del Paraguay i gesuiti regolarizzarono l’operosità degli indios ottenendo ottimi risultati sul piano sociale e lavorativo, edificando villaggi dotati di strutture adeguate sia per il lavoro che per la vita familiare, allo stesso modo gli artigiani di Palermo furono nobilitati nel ruolo di “professionisti” del teatro festivo. Sorsero infatti, nei vicoli contigui agli assi di parata, botteghe distribuite per tipologia e architettonicamente concepite in forme standard, razionalmente articolate in spazi espositivi, laboratoriali, e persino di accoglienza di garzoni-lavoranti sottratti alla miseria di famiglie numerose.

La funzionalità di questi luoghi deputati dell’artigianato della festa, corrispose così al ritmo sempre crescente di occasioni celebrative civili rispondenti alla politica del potere dominante volto a garantirsi il consenso della massa urbana, ma anche di un’aristocrazia attratta in città dal lusso e dalla gara di un fasto sempre meno rispondente alle reali possibilità economiche indebolite dal progressivo abbandono delle campagne. Il risultato fu che si sviluppò una sorta di naturale osmosi fra le botteghe-laboratorio e i luoghi deputati della scena, e con essa una competenza collettiva del popolo palermitano, destinata a trasformare il “teatro di rappresentazione” in “teatro di relazione”. Come non pensare infatti alla “familiarità” con i meccanismi, gli strumenti e la materia del lavoro artigiano anche da parte di quella classe subalterna che, a contatto diretto e quotidiano con l’attività delle botteghe, viveva dei proventi dell’opera dei lavoratori e dei garzoni che in esse si sviluppava. Da qui scaturì l’ennesima anomalia siciliana, animata in questo caso dall’astuzia popolare che lasciò immaginare al potere civile di rimanere affascinata da quella “meraviglia che persuade”, pur di trarre vantaggio economico da questo gioco delle parti (cfr. Isgrò, 2006).

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Cavalcata reale al primo ingresso di S. Maestà in Palermo Sua Reggia (inc. F. Cichè, sec.-XVIII)

La grande novità che emerse da questo humus del Seicento palermitano, fu l’opera di Tommaso Aversa. Autore di drammi sacri apprezzati dalla corte pontificia presso la quale si trovò ad operare prima di un significativo soggiorno alla corte di Vienna, l’originalità del suo contributo drammaturgico è legata a La notti di Palermu. (cfr.Isgrò, 1986). Vero e proprio apax, quest’opera si identifica nella forma della “commedia urbana”. Al di là del solito meccanismo dell’intreccio amoroso, infatti, vera protagonista è la città di Palermo con le sue consuetudini sociali e soprattutto con la sua configurazione urbanistico-architettonica. Ambientata nel teatro dello Spasimo nel pieno dell’atmosfera carnevalesca e ivi rappresentata proprio durante il Carnevale del 1638, l’opera è una proiezione dell’idea di Palermo città-teatro, grazie alla totale rispondenza fra scenario festivo e drammaturgia: testimonianza di come la festa urbana finì per conquistare anche il teatro della recitazione.

Ne La notti di Palermu l’idea della cultura festiva della città, per così dire, attraversa e per certi aspetti anche inquadra la materia in una sorta di cornice che fa parte integrante del testo. L’azione prende avvio proprio da un preciso riferimento al teatro dello Spasimo e in questo medesimo luogo si intende sia avvenuto il primo incontro di una delle due coppie di innamo­rati dell’opera. Allo stesso modo, nella parte finale, ricompare «l’apparatu superbu di lu gran teatru in cui s’avia di fari sta gran cumedia», mentre i versi conclusivi dell’opera danno una defini­zione testuale inequivocabile: «la nostra farsa ditta la cumedia di la filici notti di Palermu» dove il termine filici non è né generico né occasionale, ma perfettamente rispondente ad una definizione ufficialmente acquisita nella pratica dei ragguagli e nella logica della celebrazione e della rappresentazione dell’urbe.

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Piazza e Palazzo del Senato (inc. F, Cichè, sec.-XVIII)

L’osmosi che dalla platea portava verso il palcoscenico e, vice­versa, doveva costituire la garanzia del successo di un genere di teatro-festa in cui, senza soluzione di continuità, scena e spettato­ri si trovavano idealmente insieme per celebrare e vedere celebra­ti se stessi, le proprie abitudini, la propria città e soprattutto i pro­pri governanti. Per raggiungere questo risultato, Aversa, all’espe­diente del riferimento diretto e della descrizione per così dire rea­listica dei personaggi che agiscono, aggiunge quella, teatralmente più catturante, dell’imagerie e del racconto fantastico. È così che lo stato di vaneggiamento di don Federico (III: 7) consente all’autore, come per una sorta di dissolvenza, di trasfor­mare, nella fantasia dello spettatore, l’immagine del balcone illu­minato dalle torce e del frontespizio del palazzo che fa da fondale alla scena della piazza, in un carro trionfale ricco di luminarie di straordinaria grandezza, mentre subito dopo, l’uso di una sempli­ce canna, a cavallo della quale don Federico, divenuto ormai folle per gelosia, si è presentato poco prima in scena, e la collaborazio­ne del servo Tiberiu che si presta all’occasione, improvvisando con la bocca squilli di tromba, consente ai personaggi di creare il movimento di una giostra in piena regola, con steccato, lizza, as­salti e premio finale. In questo modo l’azione della commedia si trasforma in una vera e propria scena di festa barocca, grazie an­che alla complicità di un pubblico che, abituato alla pratica del tea­tro festivo urbano, è in grado di accogliere visivamente e di ap­prezzare concretamente, come per convenzione, i riferimenti scenografici e spettacolari forniti dai personaggi.

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Dimostrazione fatta dalla Maestranza delli Scopettieri (inc. F. Cichè, sec.-XVIII)

Il percorso della restituzione verbale della scena cittadina non è tuttavia l’unica forma di riferimento al teatro festivo. A volte l’e­sempio di sequenze e di singoli dispositivi costituisce il modello da adattare alle specifiche esigenze di una scena in stretto rappor­to con la cultura palermitana dello spettacolo. In questo caso i collegamenti con i modelli continentali della scenotecnica del teatro comico, risultano necessariamente alterati e le soluzioni sceniche, infine, originali. L’uso del già citato bal­cone praticabile, ad esempio, sembrerebbe richiamare le forme or­mai acquisite sia nell’ambito della commedia dell’arte che della «ridiculosa», senonché il prolungamento della verticalizzazione del dispositivo, che arriva a comprendere anche una finestra praticabile, su un piano superiore a quello del balcone, sembra ispirar­si all’impianto del «teatro del sole», nella palermitana piazza del­l’Ottangolo, peraltro assai vicina, nella concezione strutturale e ideologica, al «Globe» del teatro elisabettiano. Lo stesso impianto della porta Nuova, così come i provvisori archi trionfali praticabili a più piani, per l’esibizione di musici, attori e cantori, costituiscono un riferimento assai vicino al quale certamente l’Aversa dovette ispirarsi per la realizzazione dell’idea scenica.

Bisogna aspettare la metà del Settecento, nonostante il nascere nel frattempo di teatri alternativi al monopolio dello Spasimo, perché il filo della ritualità ispanica si spezzasse. Ciò avvenne a seguito del passaggio dal dominio diretto della Spagna sulla Sicilia a quello di Napoli, capitale del borbonico Regno delle due Sicilie. In questo contesto di progressiva frantumazione dei vecchi schemi cerimoniali, non si avviò tuttavia un processo di regolarizzazione della vita teatrale, come pure fu auspicato dagli illuminati viceré napoletani. La ragione è da cercare, ancora una volta, nella dominante della teatralità urbana che adesso fu vissuta con spirito diverso dalle differenti categorie sociali. Al di fuori di contesti celebrativi, la nobiltà diede infatti sfogo a libere dimostrazioni di sfarzo con l’esibizione di ricche carrozze lungo gli assi di parata e lussuose feste private, alimentando al tempo stesso una sorta di mondanità teatrale nei due teatri di Santa Lucia e Santa Cecilia. In questi luoghi aperti a schiere di teatromani privilegiati ma privi di effettiva cultura scenica, si esibirono canterine, danzatrici, compagnie di prosa anche di buon livello artistico provenienti dal continente italiano. Una categoria, questa, spesso umiliata da un pubblico aristocratico che, recuperando la propria condizione effimera di dominio sociale di memoria tardo-feudale, mantenne un atteggiamento paragonabile a quello della corte coi buffoni (cfr. Meldolesi, 1990: 146).

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Facciata del Palazzo del Tribunale della Santissima Inquisizione (inc. F. Cichè, sec.-XVIII)

Su un altro piano, la grande industria della festa urbana, continuò a vivere di buona salute, ma a sua volta in forma autonoma, reggendosi per convenzione interna alle regole del profitto di artigiani collusi col potere civico. Lo scollamento rispetto all’ideologia del potere centrale, fu confermato durante il vice regno dell’illuminato Caracciolo. Nel 1783 il suo tentativo di ridurre i giorni e i fasti del Festino di Santa Rosalia e di eliminare le spese per il costosissimo carro trionfale, fu drasticamente interrotto da una sollevazione popolare. In questo grande giuoco scenico gestito dagli artigiani non fu più possibile distinguere il gusto del gigantesco (proporzionale peraltro alla scala urbana) legato alla festa, rispetto ai lanci, sia pure sperimentali, di mongolfiere, buona parte dei quali effettuati, non a caso, proprio sul cielo dei luoghi del divertimento urbano: dalla via Toledo alla Marina fuori porta Felice. La visione del colossale carro di santa Rosalia si in­trecciava con quella del grande pallone aerostatico: una sorta di gi­randola delle meraviglie, tipica degli intrattenimenti feerici, in una atmosfera da guiness in un con­testo scenografico e luminotecnico assimilabile a quello del grande circo. In questa bivalenza della festa, al limite della ambiguità fra tradizione e foire, si misurò la fortuna degli spettacoli foranei importati.

Spazio scenico di queste forma di spettacolo fu la grande piazza Marina, come si è visto, già luogo deputato di spettacoli di massa e adesso adattata al ruolo di contenitore di intrattenimenti vari a partecipazione popolare. Fra essi trovarono posto compagnie di guitti napoletani, specializzati nel repertorio delle “pulcinellate”; un esempio di teatro “venduto” che attrasse fortemente l’attenzione, fra gli altri, di piccoli borghesi della bassa burocrazia, ma soprattutto di artigiani vivaci e interessati a utilizzare la pratica scenica come altra forma di sostentamento. Nacque in questo modo, sotto il nome di “vastasata”, a partire dagli anni ’90 del ’700, la prima forma di teatro popolare dialettale della storia dello spettacolo in Sicilia (cfr. Isgrò, 2012). Ma questo sarà argomento di una più ampia e approfondita riflessione.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
Note
[1] Sulla formazione della prima compagnia di comici professionisti a Palermo e sul successivo sopravvento della forma del teatro festivo urbano rimando al mio Il teatro negato, Bari, di Pagina, 2011.
[2] Sul teatro gesuitico in Sicilia rimando ai miei saggi: Fra le invenzioni della scena gesuitica, Roma, Bulzoni, 2008 e Il sacro e la scena, Roma, Bulzoni, 2011.
[3] Sugli sviluppi della festa barocca e sulla cultura materiale ad essa legata, rimando per tutti ai miei: Feste barocche a Palermo, Palermo, Flaccovio, 1981-6, La forma siciliana del teatro, Palermo, Ila Palma, 2000, Il teatro negato, Bari, Di Pagina, 2012.
 Riferimenti bibliografici
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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.
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