Uno dei maggiori storici del nostro tempo, Eric Hobsbawm, ha più volte osservato che la maggior parte dei giovani vivono in una sorta di presente permanente, privi come sono di senso storico e di ogni rapporto col passato. Ma, per la verità, non sono soltanto i giovani ad avere perduto il senso storico; oggi anche tanti scrittori mostrano d’ignorare lo spessore storico che hanno i problemi. Basta aprire un giornale o qualsiasi rivista per imbattersi in articoli, più o meno documentati, che parlano della frattura tra élites e popolo come se si trattasse di un problema nuovo e inedito. L’avere smarrito il sentimento dello spessore storico dei problemi produce questa miopia. La separazione tra élites e popolo è più antica di quanto si creda. E non è un caso che Antonio Gramsci, dopo averla osservata e sperimentata direttamente nella realtà, se ne sia ampiamente occupato. «In Italia – ha scritto – gli intellettuali sono lontani dal popolo e sono legati a una tradizione di casta». Anche per questo oggi mi sembra utile tornare a leggere Gramsci senza paraocchi, liberandolo dalle interpretazioni faziose che, da più parti, ne sono state date. Lo stesso Hobsbawm ha giustamente scritto:
«Gramsci è divenuto ‘importante’ persino fuori dal suo Paese, dove la sua statura nella storia e nella cultura nazionale è stata riconosciuta praticamente fin da subito. Adesso è riconosciuta nella maggior parte del mondo. La fiorente scuola di ‘studi subalterni’, che ha il suo centro a Calcutta, sostiene anzi che l’influenza gramsciana sia tuttora in espansione. Gramsci è sopravvissuto alle congiunture politiche che furono alla base del suo primo successo internazionale. È sopravvissuto allo stesso movimento comunista europeo. Ha dimostrato la sua indipendenza dagli alti e bassi delle mode ideologiche […]. È sopravvissuto a quella chiusura nei ghetti delle accademie che pare essere il destino di tanti altri pensatori del ‘marxismo occidentale’. È persino riuscito ad evitare di divenire un ‘ismo’»[1].
Affermazioni simili, con ulteriori approfondimenti, si trovano in un bel libro di Giorgio Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente (Carocci, 2007), ripreso dall’attento Pietro Clemente in un articolo, Il ritorno inquieto di Gramsci nell’antropologia italiana, compreso nel volume collettaneo Tornare a Gramsci [2].
Leggere Gramsci non è facile. I suoi scritti, a prima vista, sono un labirinto. Molti equivoci e fraintendimenti sono sorti, oltre che per ovvie ragioni politiche, per il loro carattere frammentario. Il pensatore e uomo politico sardo non ci ha lasciato testi pronti per la pubblicazione. La sua opera, interamente postuma, resa pubblica in diverse edizioni solo a partire dal 1947, è costituita per una parte da articoli apparsi su giornali e riviste, frutto di una decennale attività di giornalismo in uno dei momenti più drammatici della storia italiana ed europea (1916-1926), che l’autore si rifiutò sempre di raccogliere in volume; per l’altra, da lettere e appunti di lavoro scritti in carcere (1926 -1937). Insomma siamo di fronte ad un’opera aperta, problematica ed incompiuta. Per la sua corretta lettura, si sarebbe dovuta seguire la stessa metodologia usata da Gramsci per lo studio di Marx:
«Occorre fare preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso (…) la ricerca del leit motiv, del ritmo del pensiero in sviluppo, deve essere più importante delle singole citazioni staccate » [3].
Raramente, però, questa metodologia è stata osservata. E, da più parti, è stata ignorata una elementare regola filologica argutamente ricordata dal sardo in una nota dei suoi Quaderni:
«Sollecitare i testi. Ossia far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche al di fuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità da quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?» [4].
Forse in Italia era inevitabile che la fortuna di Gramsci accompagnasse quella del partito che aveva contribuito a creare, seguendone la parabola. Togliatti, attraverso la prima edizione tematica dei suoi Quaderni, ne ha dato un’interpretazione che ha segnato un’epoca. Come ha lucidamente osservato Franco Fortini [5], in Italia, anche chi ha rifiutato il togliattismo, ha finito per leggere Gramsci con le sue stesse lenti. L’edizione critica dell’epistolario e dei Quaderni, avviata nel 1975 da Valentino Gerratana, ha contribuito a creare le condizioni per la formazione di una nuova generazione di studiosi che hanno cominciato a leggere Gramsci diversamente, liberandolo dagli schemi paralizzanti del passato. Le riserve espresse da Fortini a questa edizione appaiono oggi superate, anche se mi sembrano sempre valide molte sue osservazioni critiche.
In un breve saggio non si può dar conto in modo esauriente della complessa ed articolata opera di Gramsci. La difficoltà oggettiva di leggere i suoi testi – a parte il suo splendido epistolario da cui consiglio sempre di iniziare – è stata paradossalmente accresciuta dalla sterminata letteratura critica esistente, diventata spesso un ostacolo alla sua migliore comprensione. Ogni interpretazione dovrebbe essere consapevole della propria parzialità ed offrirsi alla discussione come ipotesi di lavoro. Secondo il mio punto di vista è sbagliato cercare in Gramsci un prontuario politico, la ricetta per la soluzione dei problemi odierni. Quello che si trova nei suoi scritti è un metodo di analisi della realtà che gli ha permesso di comprendere alcuni tratti della storia e della cultura del nostro Paese. Seguire questo metodo può aiutarci ancora a comprendere il nostro presente.
La nuova biografia di Angelo D’Orsi [6], ancora fresca di stampa, oltre a fornire inediti documenti sulla vita di Gramsci, riprende un tema caro a Togliatti [7] che, primo tra tutti, rimarcò il legame stretto esistente tra pensiero e azione nell’opera del grande sardo. Certamente le esperienze vissute influiscono nel pensiero di ogni persona, ma legare troppo strettamente vita e pensiero spesso risulta riduttivo. Il pensiero va sempre oltre la vita di un uomo e Gramsci è riuscito ad andare oltre il suo tempo, lasciandoci un’opera che, seppure incompiuta, è stata concepita perché durasse ‘für ewig’[8].
Le idee non devono ammuffire nelle soffitte della coscienza: pochi, come Gramsci, sono riusciti a dare corpo e consistenza reale a queste parole; il principio di mettere in pratica le proprie idee, anche a costo della vita, l’accompagnerà sempre, insieme alla consapevolezza della «mentalità dogmatica ed intollerante creata nel popolo italiano dalla educazione cattolica e gesuitica» che impedisce «lo spirito di solidarietà disinteressata, l’amore per la libera discussione, il desiderio di ricercare la verità con mezzi unicamente umani, quali dà la ragione e l’intelligenza»[9]. Questo è uno dei punti fermi del pensiero di Gramsci che l’esperienza, le letture e gli studi successivi rafforzeranno in lui. Non a caso in carcere scriverà che «l’Italia è stata dominata e continua ad essere dominata dalla Controriforma» [10].
La “grande guerra” del 1915-18 e la Rivoluzione Sovietica del 1917 hanno cambiato la vita a tanti, non solo a Gramsci. Interrotti gli amati e promettenti studi universitari [11], il giovane si impegnerà a tempo pieno in un lavoro politico e culturale contrassegnato da una forte impronta pedagogica e da una intensa attività giornalistica nella stampa socialista. Su l’Avanti! e sul periodico socialista torinese Grido del Popolo, scriverà di tutto, non solo di politica. Memorabili rimangono le note di costume e le sue Cronache teatrali. È noto come sia stato proprio il giovane Gramsci a dare una interpretazione dell’opera pirandelliana che ha lasciato il segno nella critica del grande autore agrigentino: «Luigi Pirandello è un ardito del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero»[12]. E non è casuale il fatto che il giovane critico teatrale abbia particolarmente apprezzato una delle pièces dialettali dell’autore siciliano: Liolà. La cosa si spiega sia con la sua costante attenzione per tutte le forme di cultura popolare che con la sua convinzione che «il teatro dialettale è stato in Italia un gran maestro di sincerità»[13].
Nel corso della prima guerra mondiale il giovane Gramsci scrive uno dei suoi pezzi più belli:
«Noi siamo persuasi che i fatti dovevano rimanere tali anche in tempo di guerra, e che la storia e la cultura sono cose troppo da rispettare perché possano essere deformate e piegate dalle contingenti necessità del momento. La verità deve essere rispettata sempre, qualsiasi conseguenza essa possa apportare, e le proprie convinzioni, se sono fede viva, devono trovare in se stesse, nella propria logica, la giustificazione degli atti che si ritiene necessario siano compiuti. Sulla bugia, sulla falsificazione facilona non si costruiscono che castelli di vento, che altre bugie e altre falsificazioni possono far svanire» [14].
Questo articolo, anche se risente ancora della sua iniziale formazione crociana, mostra un tratto caratteristico dell’uomo: l’onestà intellettuale che l’accompagnerà sempre. Merita di essere ricordato qui un altro testo chiave dello stesso periodo, intitolato significativamente Socialismo e cultura. Anche questo risente del clima neoidealista, imperante allora in Italia, ma ne va ben oltre. In esso Gramsci prende nettamente le distanze dalla cultura intesa come «sapere enciclopedico» che degrada l’uomo a «recipiente da riempire e stivare di dati empirici, di fatti bruti e sconnessi»:
«Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. […] Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce. La cultura è cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, [...]. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale […], per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, […], non si sia ancora realizzato il socialismo»[15].
Possiamo cogliere qui uno dei leit motiv centrali in tutta la sua opera: la consapevolezza del peso decisivo che ha la cultura nella storia. Nella parte centrale del suo ragionamento questo concetto viene chiaramente espresso quando afferma che «la Rivoluzione francese del 1789 è inconcepibile senza l’Illuminismo». E questo giudizio, già da solo, mostra come il giovane sardo, a soli 25 anni, fosse sulla via della rottura con il neoidealismo imperante in quegli anni: «L’illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto […] quello sfarfallìo di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti […], non fu insomma un fenomeno di intellettualismo pedantesco ed arido» [16].
L’originalità del giovane Gramsci trova uno dei suoi vertici nell’articolo pubblicato dall’edizione nazionale de l’Avanti! il 24 novembre 1917 con il titolo La Rivoluzione contro il Capitale. Eccone il passo chiave:
«La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e come si è pensato» [17].
Per Gramsci il pensiero di Marx va liberato dalle ‘incrostazioni positivistiche e naturalistiche’ del suo tempo. Ma si sbaglia a pensare che si tratti di un abbaglio giovanile. Concetti simili si ritrovano negli scritti successivi, anche se soltanto nei Quaderni troveranno una forma più rigorosa. Per comprendere bene il punto di vista gramsciano bisogna tenere presente che uno dei suoi leit motiv è la critica alla versione deterministica ed economicistica del pensiero di K. Marx. Un graffiante ritratto di questa interpretazione, largamente diffusa in Italia tra la fine dell’800 e i primi decenni del 900, si trova in un articolo che Gramsci scrisse poco prima dell’arresto:
«la storia secondo tale concezione elaborata da A. Loria e da E. Ferri – due esponenti socialisti del tempo – diventava la cosa più facile di questo mondo. Essa era una specie di libro mastro con una partita di ‘avere’ cui corrispondeva matematicamente una partita di ‘dare’. Cinque lire di capitalismo e di interessi economici alla partita ‘dare’ determinava esattamente cinque lire di politica e di socialismo alla partita ‘avere’. Il parroco del villaggio affermava: ‘Non si muove foglia che Dio non voglia’, Masticabrodo rispondeva: Tutto è determinato dagli interessi economici. Era in fondo la stessa concezione quella del parroco e quella di Masticabrodo: il positivismo e l’evoluzionismo si erano innestati sul vecchio tronco della mentalità cattolica imprestandole un nuovo frasario, ricoprendola di qualche straccetto multicolore, pseudoscientifico» [18].
Non si vuol dire con questo che lo sviluppo del pensiero di Gramsci sia stato sempre lineare e che non sia possibile trovare delle contraddizioni nella sua articolata e complessa opera. Va ricordato, ad esempio, che La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia (1921) di Nikolaj I. Bucharin – smontato punto per punto nei Quaderni – viene utilizzato dallo stesso Gramsci nel 1925 per la scuola dei quadri del PCdI; va pure detto che, dal 1921 al 1926, il sardo, via via che assume ruoli di sempre maggiore responsabilità nel nuovo partito, utilizza il lessico e le categorie della terza internazionale comunista. Un primo punto di rottura con questa tradizione, ossificata con l’avvento di Stalin, si ha nella drammatica corrispondenza che Gramsci, un mese prima del suo arresto (ottobre 1926), ha con Togliatti sulle lacerazioni del partito comunista russo (diviso tra le correnti che facevano capo a Stalin e Trockij), conducendolo a scrivere profeticamente: «Voi state distruggendo l’opera vostra»[19].
In carcere Gramsci avvertirà con forza l’esigenza di liberarsi dalla «prigione delle ideologie». E, nell’opera di recupero dell’autentico pensiero di K. Marx, si riallaccia alla interpretazione che ne aveva data Antonio Labriola Non è stato il timore della censura carceraria, come è stato erroneamente affermato, a condurre Gramsci a recuperare la denominazione ‘filosofia della praxis’ (presente già in Labriola, oltre che in Croce e Gentile) per indicare il pensiero di K. Marx. I Quaderni mostrano ampiamente la netta presa di distanza di Gramsci dal catechismo marxista-leninista e dalle direttive politiche staliniste [20]. Ma il pensiero del sardo, anche se appare più aperto e problematico, a mio avviso, rimane ancorato al pensiero critico di K. Marx e V. Lenin.
L’origine sarda ha reso Gramsci precocemente sensibile a quella che lui stesso, in un articolo dell’aprile 1916, definisce «l’annosa e ormai cronica quistione meridionale» [21]. L’articolo, intitolato Il Mezzogiorno e la guerra, mostra quanto a lungo il Nostro abbia riflettuto sulla questione prima di arrivare a quella prima sintesi che si trova nel manoscritto incompiuto, ritrovato tra le sue carte, dopo l’arresto avvenuto nel novembre del 1926 [22]. Il sottosviluppo meridionale rispetto al Nord del Paese, secondo il giovane sardo, oltre ad avere radici antiche, si è accentuato dopo il 1860 a causa dell’«accentramento bestiale» che non ha tenuto conto dei bisogni specifici delle diverse regioni italiane; i protezionismi hanno aggravato ulteriormente la situazione, arricchendo industriali ed agrari e impoverendo soprattutto i contadini del sud. La guerra, infine, diventata fonte di profitti colossali per le imprese industriali del Settentrione, ha completato il quadro: «Si parla spesso di mancanza di iniziativa nei meridionali. È un’accusa ingiusta. Il fatto è che il capitale va a trovare sempre le forme più sicure e redditizie di impiego» [23].
Sorvolando su tanti altri pezzi scritti nel periodo della prima guerra mondiale su questo stesso tema, voglio soffermarmi su un articolo del 1919, pubblicato nell’edizione torinese dell’Avanti!, massacrato dalla censura e scoperto di recente tra le Carte d’archivio:
«I signori torinesi, la classe borghese di Torino, che nel 1898 ha seminato di lutti e rovine l’isola di Sardegna facendo perseguitare, dai carabinieri e dai soldati, come cinghiali, per monti e per valli, i contadini e i pastori sardi affamati [si potrebbero usare le stesse parole per indicare quello che avvenne in Sicilia, nel biennio 1893-94, a seguito della feroce repressione voluta da Crispi del movimento dei Fasci Siciliani];i signori di Torino e la classe borghese di Torino, che ha ridotto allo squallore la Sardegna, privandola dei suoi traffici con la Francia, che ha rovinato i porti di Oristano e Bosa e ha costretto più di centomila Sardi a lasciare la famiglia, i figli, la moglie per emigrare nell’Argentina e nel Brasile; i signori di Torino e la classe borghese di Torino, che ha sempre considerato la Sardegna [e il resto del meridione italiano], come una colonia di sfruttamento, che ha rubato, nell’ultimo cinquantennio, più di 500 milioni di imposte, denaro sudato dai contadini e dai pastori rimanendo sotto la sferza del sole per 16 ore quotidiane; i signori di Torino e la classe borghese di Torino, che si è arricchita distruggendo le foreste sarde, che ha riempito i suoi portafogli col sangue, la fame, la miseria del popolo di Sardegna» [24].
Fare come in Russia è la parola d’ordine che circola in Italia alla fine della prima guerra mondiale. E Gramsci è convinto, come tanti altri socialisti, che in Italia ci siano tutte le condizioni per farla. Eppure è consapevole del peso che hanno i contadini, con la loro psicologia individualista ed anarchica, e dell’influenza che su questi esercita la Chiesa Cattolica. In un gruppo di articoli, pubblicati tra l’agosto del 1919 e il febbraio del 1920 su L’Ordine Nuovo, Gramsci espone chiaramente il suo punto di vista, partendo dall’analisi della mentalità dei contadini e dal mutamento che questa ha subito a seguito della guerra:
«La mentalità del contadino è rimasta quella del servo della gleba, che si rivolta violentemente contro i signori in determinate occasioni, ma è incapace di pensare se stesso come membro di una collettività e di svolgere un’azione sistematica e permanente rivolta a mutare i rapporti economici e politici della convivenza sociale. La psicologia dei contadini era, in tali condizioni, incontrollabile; i sentimenti reali rimanevano occulti, implicati e confusi in un sistema di difesa contro gli sfruttamenti, meramente egoistica, senza continuità logica, materiata in gran parte di sornioneria e di finto servilismo. La lotta di classe si confondeva col brigantaggio, col ricatto, con l’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne, con l’assalto al municipio: era una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili ed efficaci. […] Il contadino è vissuto sempre fuori dal dominio della legge, senza personalità giuridica, senza individualità morale: è rimasto un elemento anarchico, l’atomo indipendente di un tumulto caotico, frenato solo dalla paura del carabiniere e del diavolo» [25].
Quattro anni di trincea, prosegue Gramsci, hanno radicalmente mutato la psicologia dei contadini. E questo mutamento è stato una delle condizioni essenziali della rivoluzione in Russia. Sono nati, infatti, proprio sul fronte russo i Consigli dei delegati militari, così i soldati contadini hanno potuto partecipare attivamente alla vita dei Soviet di Pietrogrado, di Mosca e degli altri centri:
«Le conquiste spirituali realizzate durante la guerra, le esperienze comunistiche accumulate in quattro anni di sfruttamento del sangue, subìto collettivamente, stando gomito a gomito nelle trincee fangose e insanguinate, possono andare perdute se non si riesce a inserire tutti gli individui in organi di vita nuova collettiva, nel funzionamento e nella pratica dei quali le conquiste possano solidificarsi, le esperienze possano svilupparsi, integrarsi, essere rivolte consapevolmente al raggiungimento di un fine storico concreto. Così organizzati i contadini diventeranno un elemento di ordine e di progresso; abbandonati a se stessi, nell’impossibilità di svolgere un’azione sistematica e disciplinata, essi diventeranno un tumulto incomposto, un disordine caotico di passioni esasperate» [26].
Le condizioni storiche dell’Italia non erano e non sono molto differenti da quelle russe, secondo Gramsci. Per questo, ai suoi occhi, il problema dell’unificazione di classe degli operai e dei contadini si presenta negli stessi termini indicati da Lenin: occorre l’unità degli operai e dei contadini per realizzare il comunismo [27]. Questa analisi verrà ripresa nel saggio del 1926 che, non a caso, si apre proprio con la citazione di un articolo apparso su L’Ordine Nuovo nel gennaio del 1920: «La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali» [28]. In tal modo, aggiunge ora il sardo, «l’operaio rivoluzionario di Torino e di Milano diventa il protagonista della quistione meridionale e non più i Giustino Fortunato, i Gaetano Salvemini» [29]. Il saggio del 1926 riprende e sviluppa anche un altro tema caro al giovane Gramsci, ossia la consapevolezza del peso che hanno le ideologie e i pregiudizi nella storia:
«È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura “meridionalista” della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la “scienza” era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato» [30].
Questa mi sembra una delle pagine più attuali di Gramsci. Basti pensare, per fare solo un esempio, alla recentissima dichiarazione del Ministro della Pubblica Istruzione sulla ‘pigrizia’ e il presunto scarso impegno degli insegnanti meridionali. Per il resto questo saggio, pur ammirevole dal punto di vista storico e letterario, oggi appare datato. Infatti, anche se il Mezzogiorno continua ad essere «una grande disgregazione sociale», nell’Italia d’oggi non esistono più né gli operai né i contadini del tempo di Gramsci; per non parlare dei grandi intellettuali, come Benedetto Croce e Giustino Fortunato, scomparsi da tempo. Resiste solo la burocrazia statale e regionale, più numerosa e potente di prima, che rimane forse uno dei maggiori ostacoli al cambiamento.
Elites e popolo, Intellettuali e semplici, dirigenti e diretti
In un articolo dell’agosto 1918, pubblicato sul Grido del Popolo, Gramsci anticipa concetti che riprenderà negli anni successivi:
«L’educazione, la cultura, l’organizzazione diffusa del sapere e dell’esperienza, è l’indipendenza delle masse dagli intellettuali. La fase più intelligente della lotta contro il dispotismo degli intellettuali di carriera e delle competenze per diritto divino, è costituita dall’opera per intensificare la cultura, per approfondire la consapevolezza. E quest’opera non si può rimandare a domani, a quando saremo liberi politicamente»; essa stessa libertà, è essa stessa stimolo all’azione e condizione dell’azione [31].
La rivista creata l’anno successivo a Torino, L’ Ordine Nuovo. Rassegna settimanale di cultura socialista [32], doveva servire proprio a questo: educare, fornire agli operai torinesi un mezzo per liberarsi dal «dispotismo degli intellettuali di carriera». Ecco perché nel gennaio del 1920 si difende con passione dall’accusa di avere pubblicato articoli ‘difficili’:
«Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora considerati dai più come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non v’è nulla di più inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta “popolare”, una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano così da vicino come quelli dell’organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il più grande passo in avanti sarà già fatto» [33]. Nei brani sopra citati si trovano in nuce, insieme alla sua idea di partito come intellettuale collettivo, l’analisi critica compiuta in carcere, tra il 1929 e il 1935, sul ruolo svolto dagli intellettuali nella storia nazionale. Ad una società che ha fatto degli intellettuali una ‘casta’, Gramsci contrappone il progetto di una società, senza caste e senza classi, in cui tutti possano diventare intellettuali. In una pagina dei Quaderni Gramsci è particolarmente chiaro al riguardo:
«Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose più elementari […] Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto […] Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico rispondente a certe condizioni? […] per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Così, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare le divisioni in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più» (Q. : 1752-3).
È un brano questo in cui Gramsci utilizza magistralmente la coppia dialettica realtà/possibilità per spiegare dove vuole arrivare: da un lato riconosce la realtà effettuale delle cose – il genere umano è diviso, esistono realmente dirigenti e diretti – ma insieme mostra la possibilità di cambiare questo stato di cose. Non a caso, in un’altra nota dei Quaderni scrive: «Occorre violentemente attirare l’attenzione sul presente così com’è se si vuole trasformarlo». Il realismo rivoluzionario di Gramsci è sostenuto anche da un altro principio della sua ‘filosofia della praxis’. Questo si trova chiaramente espresso in una famosa nota dei Quaderni in cui si afferma che tutti gli uomini sono potenzialmente filosofi:
«Occorre distruggere il pregiudizio che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è una attività propria di una determinata categoria di scienziati, dei filosofi professionali o sistematici. Occorrerà pertanto dimostrare che tutti gli uomini sono filosofi, definendo i limiti e i caratteri di questa filosofia [«spontanea»] di «tutto il mondo», cioè il senso comune e la religione. Dimostrato che tutti sono filosofi, a loro modo, che non esiste uomo normale e sano intellettualmente, il quale non partecipi di una determinata concezione del mondo, sia pure inconsapevolmente, perché ogni “linguaggio” è una filosofia, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza. È preferibile pensare senza averne consapevolezza, in modo disgregato e occasionale, è preferibile partecipare a una concezione del mondo “imposta” dal di fuori, da un gruppo sociale (che può andare dal proprio villaggio alla propria provincia, che può avere l’origine nel proprio curato o nel vecchione patriarcale la cui “saggezza” detta legge, nella donnetta che costruisce delle stregonerie o nel piccolo intellettuale inacidito dalla propria stupidaggine e impotenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e in connessione con tale lavorìo del proprio intelletto scegliere il proprio mondo di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia universale?»[34].
Ma torniamo a parlare della casta degli intellettuali. Gramsci è stato spietato con loro [35]. La storia nazionale mostra che sono stati sempre lontani dal popolo, «più legati ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano» (Q: 2116). Questo perché la cultura in Italia, come aveva già detto Francesco De Sanctis, ha avuto una tradizione libresca ed astratta:
«È da notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri e di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui segni del tempo, sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc. non se ne leggono mai. […]. Manca l’interesse per l’uomo vivente e per la vita vissuta. […] . È un altro segno del distacco degli intellettuali italiani dalla realtà popolare-nazionale» [36].
La casta degli intellettuali, naturalmente, non ha gradito il trattamento ricevuto ed hanno reagito di conseguenza. Le accuse contraddittorie di “idealismo”, di “populismo”, di “utopismo” e di “totalitarismo”, rivolte a Gramsci, prive di qualsiasi fondamento, sono in gran parte frutto del risentimento della casta. Come ha ben visto Eric Hobsbawm nell’opera del sardo non c’è posto per alcun “ismo”. Per Gramsci la cultura, se vuole essere autentica e vitale, deve «rimanere a contatto coi ‘semplici’ e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere» (Q: 1382). Credo che abbia visto giusto Tullio De Mauro quando ha scritto che nell’usare la parola cultura Gramsci si distacca consapevolmente dall’uso dominante in Italia [37].
Nei suoi Quaderni Gramsci, oltre a prendere nettamente le distanze dal materialismo volgare e dall’interpretazione economicistica e deterministica del pensiero di Marx, afferma decisamente la necessità di liberarsi dalla «prigione delle ideologie» nel senso deteriore di «cieco fanatismo ideologico» ricordando un principio elementare del metodo scientifico che tanti hanno dimenticato:
«Non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e un procuratore che, per obbligo d’ufficio deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia alla ricerca della verità […], si dimostra più avanzato chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversari significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista critico» [38].
Giorgio Baratta è stato uno dei primi a cogliere il carattere socratico e dialogico del pensiero di Gramsci. In uno dei suoi ultimi libri ha utilizzato una metafora musicale per riassumere quello che ha appreso dal suo attento studio:
«“Tutti gli uomini sono filosofi” è la linea di base, il basso continuo nella polifonia dei Quaderni. Ma allora, tutti gli umani sono in contrappunto con gli altri, le altre, perché la filosofia è un abito logico-dialogico, relazionale, uno strumento di unificazione attraverso le differenze di lingue e linguaggi in cui gli uomini parlano, anche quando si ignorano, o sono ignoranti, com’era Socrate, che la città ha messo a morte» [39].
Una delle ragioni che spiega la straordinaria capacità mostrata da Gramsci di resistere al logorìo del tempo e di riuscire ancora a illuminare il presente è dovuto alla sua grande apertura mentale e il suo approccio storico e non dogmatico ai problemi. Quando nei suoi Quaderni scrive della necessità di liberarsi dalla ‘prigione delle ideologie’ , Gramsci sa di cosa parla. Infatti mostra di avere ben compreso il senso della critica marxiana ad ogni forma di sapere ideologico, inteso esattamente come forma di falsa coscienza, malgrado ai suoi tempi non fosse ancora nota L’ideologia tedesca di K. Marx .
Il nostro presente rischia di passare alla storia come l’epoca del tramonto delle “ideologie”. Eppure, secondo me, nel corso della storia non c’è stato un tempo più “ideologico” di questo. Dopo il 1989, a seguito del crollo del muro di Berlino e della successiva implosione dell’URSS, la casta odierna degli intellettuali ha trasformato il presente nel tempo più ideologico che il genere umano abbia mai conosciuto. Le favole, tra le altre cose, insegnano che una cosa tanto più invisibile è, tanto più reale può apparire. Ma il gioco funziona fino ad un certo punto. Che l’imperatore ed ogni forma di potere siano nudi, oggi possono vederlo tutti. E la storia che si dava per finita – una delle peggiori ideologie del nostro tempo – non è finita affatto. La storia continua.