di Giulia Viani
Abbiamo assistito di recente al “dilagare” sui social network dell’ultima moda del #10yearschallenge, ossia la “sfida” che consiste nel pubblicare una foto di dieci anni fa e metterla a confronto con una di oggi, poi declinata in innumerevoli e immancabili varianti su tema, ora in chiave ironica ora ambientalista ecc. L’occasione, unita a personali vicende “biografico-accademiche”, è molto invitante per immaginare un’altra variante della sfida, ossia sul tema delle migrazioni nelle “nostre” città. Mi si perdonerà la digressione autobiografica, ma con la “svolta postmoderna” ogni antropologo ha imparato che nessuna osservazione è neutra e che non si può prescindere dal proprio posizionamento soggettivo. Il caso ha voluto, infatti, che il mio lavoro di tesi in antropologia culturale sulle comunità mauriziane a Palermo risalga proprio al 2009 e che, dopo aver esplorato altri orizzonti di ricerca, religioni e paesi, mi sia ritrovata oggi un po’ inaspettatamente a tornare su temi e luoghi, nell’ambito di un dottorato di ricerca nella mia città natale. Ho ricominciato inevitabilmente a interrogarmi e a riflettere su cosa fosse successo da allora a oggi (cambiamenti e/o persistenze) e, soprattutto, ho (r)incontrato persone. D’altronde la specificità e la bellezza, ma anche la difficoltà e la complessità della ricerca antropologica risiedono proprio in questo: avere “soggetti” al posto di “oggetti” di ricerca.
Avevo lasciato la comunità mauriziana induista alle prese con un “problema d’identità” [1]: apparentemente omogenea agli occhi di un osservatore esterno (anche perché riunita in uno stesso tempio e associazione culturale, quindi sotto un’unica “etichetta”), la comunità si era rivelata invece complessa e differenziata in quattro gruppi “etnici” (hindu, marathi, telugu e tamil), riconducibili alla variegata composizione del Paese d’origine, conseguente a sua volta alla politica coloniale inglese e alle migrazioni indiane dell’Ottocento. Tale pluralità emergeva soprattutto durante la dimensione festiva, tra celebrazioni collettive e specificità di gruppo (come le feste “patronali” di Ganesha Chaturthi e Durga Puja), in quanto i riti sono contesti privilegiati in cui si mettono in scena e si manifestano i tratti distintivi e le dinamiche dell’identità.
Cosa è successo in questi 10 anni? Le prime discrepanze evidenti riguardano la percezione stessa (purtroppo spesso distorta) della migrazione, l’accentuarsi dell’inquietudine da parte dell’opinione pubblica unita tuttavia a un maggiore interesse a riguardo, la presenza sempre più significativa e stabile dei gruppi migranti visibile nel territorio attraverso negozi e ristoranti “etnici”, ma anche mediante riti e processioni che rappresentano ormai un appuntamento fisso e si vanno “tradizionalizzando” accanto alle feste siciliane [2]. Anche qui il caso ha voluto, per rendere ancor più evidente il confronto, che l’ultimo rito del 2009 e il primo seguito a distanza di dieci anni fosse il medesimo: la processione del Cavadee [3]. Il rito deve il suo nome al giogo di legno (cavadee appunto) portato a spalla dal devoto in ottemperanza a un voto fatto in precedenza al dio Murugan [4]: il penitente chiede alla divinità di ripagare le sue sofferenze con un atto di grazia e di accoglimento nei confronti della sua richiesta (come la guarigione da una malattia, la benedizione di un figlio, il conseguimento di un traguardo importante come la laurea o la riuscita del viaggio migratorio) e per questo rappresenta una festività molto sentita dai fedeli.
Confrontando le “immagini” del Cavadee di ieri e di oggi, la prima e più vistosa differenza è il luogo in cui si svolge il rito: Catania 2009 e Palermo oggi. Nel 2009 infatti il Cavadee non si svolgeva a Palermo, ma solo a Catania ed è lì che si recavano i Mauriziani palermitani (e io con loro) per celebrarlo. Il Cavadee è infatti un rito molto delicato [5] che prevede, oltre al trasporto del giogo, anche la perforazione della lingua e delle guance con i vel, ossia aghi d’argento a forma di piccole lance: ci si affida alle mani esperte di un pandit (officiante) proveniente direttamente dalla Madrepatria e soltanto la comunità mauriziana catanese, più numerosa, poteva permettersi tale organizzazione. Oggi anche Palermo ha il suo Cavadee, addirittura due volte l’anno, nel mese di Thai (gennaio-febbraio) e di Sittirai (aprile-maggio), primo segnale della maggiore “strutturazione” della comunità.
Il momento principale del rito (in cui vengono conficcati gli aghi nel volto e si mette a spalla il bilanciere cerimoniale) si svolge in una spiaggetta del cosiddetto Foro italico di fronte al mare. È in questo frangente, mentre si è ancora nelle fasi di preparazione, che ritrovo conoscenze e amicizie, come Deepa [6], che mi invita ad andare a trovare lei e la sua famiglia nella nuova casa, o Nitya, che mi mostra sul cellulare le foto del matrimonio della figlia alle Mauritius (con un «indiano “vero” dell’India!») e del nipotino nato pochi mesi fa nel nord Italia dove si sono trasferiti. C’è anche Anjali, che vive in Francia da qualche anno ed è tornata qui appositamente per il cavadee; mi dispiace solo non poterla abbracciare come le altre, ma si appresta a compiere il rito come penitente e secondo le “regole di purità” non può avere contatti con nessuno [7].
Una volta terminato il rito in spiaggia, la processione si avvia verso il tempio attraversando le strade principali della città come corso Vittorio Emanuele e via Maqueda. Una novità anche questa: ero abituata alla processione di Ganesha Cathurthi che arrivava al mare dell’Arenella attraverso vie cittadine periferiche, cercando di non dare eccessivamente nell’occhio (almeno anni fa, oggi anche qui qualcosa è cambiato), osservata soltanto dalla mia telecamera e da qualche passante incuriosito. Il Cavadee palermitano, invece, sfila fieramente tra le arterie principali della città nell’ora di punta di una mattinata domenicale, tra una folla vociante di palermitani e turisti intenti a immortalare questo “strano” e inaspettato evento con i propri cellulari.
Da parte della popolazione locale c’è molto interesse e curiosità (anche se magari con uno “sguardo esotico”), ma la conoscenza dei culti e delle pratiche cerimoniali dei migranti – e del loro senso – sembra ancora scarsa: problemi tipici della contemporanea “città globale multireligiosa”, dove i simboli delle religioni coesistono, ma non godono di reciproca conoscenza e non sono inclusi in un comune patrimonio culturale [8]. Qualcuno pensa che sia una festa musulmana o cingalese, altri un matrimonio o il culto di una dea (i paramenti del dio Murugan sono tutti rosa!), ma l’apertura al confronto, l’accoglienza e la voglia di trovare somiglianze sembra avere la meglio anche di fronte agli aspetti più “crudi” della processione come gli aghi infilati nelle carni, come commenta un maturo osservatore «ormai anche i nostri figghi c’hanno i piercing!».
Direzione tempio. Ma dove? Nei miei ricordi il tempio è lontano, dall’altra parte della città, più che altro un garage adibito a luogo di culto e condiviso con i tamil dello Srilanka, che però celebravano i loro riti nella fascia oraria precedente a quella dei mauriziani (tanto che, recandomi in anticipo, riuscivo a seguirli entrambi). No, non è più così. Negli anni il tempio ha cambiato più volte sito in giro per la città e, soprattutto, si è “differenziato” in vari templi dislocati in diversi quartieri cittadini (problemi tipici da ricercatrice… non mi resta che confidare nello “sfasamento” di orari o giorni dei riti principali delle feste, come nell’ultimo Novaratri [9] in cui la comunità mauriziana ha anticipato per comodità alla domenica, mentre quella srilankese ha preferito mantenere la data calendariale esatta, anche se infrasettimanale).
La processione si conclude, infatti, in un tempio per me nuovo in una delle viuzze del centro storico, al “Mariammen Kovil”, un negozio adibito a luogo di culto tamil mauriziano, da non confondere con il tempio tamil srilankese [10] né con gli altri due templi mauriziani hindu. Srilankesi e mauriziani, infatti, non condividono più lo stesso luogo di culto, ma anche le comunità etnico-religiose mauriziane più piccole (come tamil e telugu) sono riuscite ad avere un tempio autonomo e specifiche associazioni culturali con propri rappresentanti, coordinate da un’associazione mauriziana “centrale” a cui far riferimento. È bello vedere tra questi rappresentanti anche la cosiddetta 2^ generazione e riconoscere, per esempio, il volto cresciuto della figlia dell’ex presidente, oggi giovane 23enne neolaureata in economia, tra i nuovi componenti del direttivo dell’associazione (come dice suo padre «adesso tocca a loro!»).
L’apporto dei giovani è oggi fondamentale, infatti, anche nell’organizzazione e nella riuscita di incontri come il recente “Divali Show”, ultima novità riguardante la festa di Divali [11] e la sua trasformazione in “evento” (operazione culturale non condivisa da alcuni membri della comunità, che hanno commentato negativamente sulla pagina facebook dell’associazione). Rito della luce celebrato in famiglia e al tempio, Divali è oggi festeggiato anche nella “variante” di spettacolo di canti e balli, momento di incontro tra tutte le comunità mauriziane (non solo induiste) e i rappresentanti della Consulta delle culture [12] e delle istituzioni, con cui l’associazione è impegnata da anni in un dialogo proficuo. L’evento è, infatti, occasione per una riflessione “politica”: i mauriziani chiedono una «vera integrazione non solo culturale, ma anche sociale e lavorativa», che possa permettere ai loro figli – nati e cresciuti qui – di diventare anche loro «futuri avvocati, medici e professionisti al pari degli altri italiani». Questa la sfida lanciata dai mauriziani, questa la sfida dell’integrazione per tutti noi… Ai prossimi dieci anni!