di Fabiola Di Maggio
Quando un’idea prende forma vuol dire che nella realtà la sua traccia è già evidente, oppure comincia a esserlo. In qualche modo trova posto. Prendere posizione equivale a produrre uno spazio che di fatto rifletta i pensieri espressi e condivisi da uno o più individui. Infine, dare forma a un’opinione significa sviluppare strutture di senso e connessioni attraverso le quali un giudizio delineato si muove e ci raggiunge. Si insinua in noi, ci prende, forma e riforma le nostre coscienze.
La dinamica di questa configurazione si mostra chiaramente attraverso le immagini che, lo sappiamo bene, da sole hanno il potere di agire più di mille parole. La capacità esplorativa delle immagini è un groviglio di esperienze, testimonianze, scommesse, previsioni, sperimentazioni.Ho sempre pensato alle immagini come dei luoghi paradigmatici. Alcune certamente lo sono più di altre, ma tutte le forme di rappresentazione, quando nascono dall’impulso di dare voce a un pensiero, sono modelli sinottici irrinunciabili per la comunicazione all’interno di una cultura – e tra le culture tout court –, tali da restare impressi nella mente di chi ne prende visione come l’inchiostro sulla carta. Le immagini, dunque, ci scrivono sempre qualcosa dentro. Noi diventiamo il loro spazio di estensione, il posto in cui hanno un effetto concreto, sia esso positivo o negativo. E in questo sbocco l’immagine manifesta la sua indole molteplice e operativa, cioè il suo essere e produrre movimento, incontro, condivisione, assenso, critica.
Il concetto sul quale mi voglio soffermare è quello di coesistenza. La coesistenza indica la compresenza e la pacifica convivenza di cose, persone, animali, piante, fenomeni, lingue, sistemi politici, culture, diversi l’uno dall’altro, all’interno di uno stesso contesto. Concetto tra i più studiati in antropologia e in sociologia, la coesistenza, purtroppo, è sempre più un ideale da raggiungere, un’utopia da desiderare, piuttosto che una condizione assolutamente naturale e auspicabile nella nostra società globale. Avviene così, come le cronache puntualmente ci riferiscono, che guerre, sistemi capitalistici, politiche antidemocratiche e anti-migratorie disegnino una geografia socio-antropologica innaturale che non concepisce paesaggi dove la coesistenza delle diversità possa essere una risorsa utile alla moltiplicazione di ricchezza umana e culturale. Come superare queste barriere aberranti? Quali forze possono venire in aiuto alla ragione affinché questa possa illuminare la nostra epoca sprofondata in un buio sconsiderato e sicuramente anacronistico?
Un responso plausibile, da studiosa delle immagini, mi giunge a sua volta da una domanda che Ernst Fischer si poneva negli anni Sessanta del secolo scorso nel suo Arte e Coesistenza. Fischer si, e ci, chiedeva se fosse azzardato sopravvalutare il “potere” dell’arte credendo che essa, in periodi critici in cui dittatori imprudenti sono pronti a divorare l’umanità, possa concorrere alla rivalorizzazione e alla salvezza dell’umanità stessa (1969). La risposta, a mio modo di vedere, è senz’altro positiva. L’arte, in tutte le sue sfumature, può e deve, ora più che mai, partecipare alla missione di recupero del pensiero contemporaneo, portato alla deriva da parabole e affabulazioni mistificanti sullo straniero e sulla convivenza tra popoli, che lo stanno facendo naufragare. Ed è qui che si fa sentire in modo prorompente la necessità di pensare densamente attraverso sistemi paradigmatici, come l’arte e le immagini, che possano contenere, prevedere, escogitare e mostrare atti di resistenza intellettuale. Ora, la coesistenza – e la sua auspicabilità – è sicuramente un antidoto efficace contro la digressione politica e purtroppo anche socio-culturale che si sta verificando.
A questo proposito è utile fermare la nostra attenzione in particolare sul significato di coesistenza quale manifestazione simultanea di cose che hanno tra loro una certa relazione dalla quale ricavare un insegnamento. La relazione che in questo caso prendo in considerazione è quella formale, prettamente immaginale, legata alle composizioni fotografiche create da Giulia Capasso [1] nel 2018: “COEXISTENCE. La botanica dei corpi. Design sociale per Palermo multiculturale”. L’importanza educativa di questo lavoro consiste nel mettere in evidenza, attraverso l’analogia formale, il legame tra nature, culture e architetture diverse all’interno di uno stesso ambiente, nella fattispecie Palermo – sede, oltretutto, di MANIFESTA 12 e del suo Giardino Planetario – che diviene modello storico-geografico e antropologico particolare al quale guardare per pensare alla coesistenza come a una realtà presente e possibile a livello universale.
Le “forme di coesistenza” di Giulia Capasso raccontano significati profondi come lo sono proprio quelli storici, geografici e culturali. L’evoluzione umana, come la preistoria e la storia testimoniano, non è altro che un continuo flusso fatto di movimento, cammino, migrazioni, adattamenti. Viaggi, dislocazioni, assestamenti e ancora partenze sono il motore che permette agli uomini di sperimentare la coscienza della trasformazione, dell’incontro, dello scambio, del confronto, della rielaborazione di memorie e identità, della fruizione di spazi e paesaggi diversi, della possibilità, non meno importante, di crearsi percorsi alternativi nella vita. Eppure, l’energia creativa e metamorfica insita nella dislocazione sembra essere stata soppiantata attualmente da una sorta di “decadenza migratoria universale”. Tale declino è ampiamente collegato alla crisi socio-economica che sta interessando numerosi Paesi in tutto il mondo dove il fenomeno dell’immigrazione è vissuto come un fardello al quale sempre più spesso si risponde con manifestazioni di intolleranza e razzismo piuttosto che con impegno civile e prospezione politica di nuove forme di cittadinanza.
La Sicilia è, ed è stata per secoli, un crocevia di culture, un microcosmo dove popoli diversi hanno convissuto plasmando la sua fisionomia e la sua essenza, arricchendola sotto ogni punto di vista: architettonico, paesaggistico, artistico, socio-culturale, eno-gastronomico, botanico, linguistico. Palermo, Capitale Italiana della Cultura nel 2018, può considerarsi la cartina di tornasole che bene illustra il concetto di coesistenza, di sincretismo culturale nella complessità del contemporaneo. Il capoluogo siciliano assurge così a paradigma e a simbolo dei mutamenti culturali in atto nel Mediterraneo e in Europa tout court.
Ed è proprio Palermo lo scenario scelto da Giulia Capasso per sviluppare il suo design antropologico volto a rendere visibili forme di coesistenza e proporre una visione liberale. Il progetto è basato sulla ripartizione uomo/vegetazione/architettura. Le persone fotografate provengono tutte da nazioni differenti: Tunisia, Ghana, Italia, Vietnam e Sri Lanka. Le specie vegetali prese in considerazione sono: Musa Acuminata, Agave, Ceiba Speciosa, Ficus Benjamina e Ficus Macrophylla. I set urbani selezionati sono: le Scuderie Reali, l’Orto Botanico, Villa Sperlinga, Piazza Marina e il Giardino Inglese [Fig.1]. A una prima foto d’insieme segue una messa a fuoco sul soggetto, sulla pianta e sullo spazio urbano; infine, delle macro fotografie mettono in evidenza l’affinità formale ed espressiva dei diversi elementi.
Procediamo alla lettura delle immagini e prendiamo in considerazione la concatenazione immaginale Tunisia – Musa Acuminata – Scuderie Reali [Fig. 2]. Il soggetto ritratto è una donna tunisina, residente in Sicilia, che indossa abiti tradizionali del suo Paese di origine accompagnati dalla tipica gestualità e ritualità della velatura del capo. La decodifica dell’immagine avviene per ordine scalare perché connessa alla posizione dei tre soggetti primari all’interno dello spazio visivo [Fig.3]. Il dinamismo della fotografia, definito dalle configurazioni naturali e architettoniche a dal movimento della donna che si mette il velo, è necessario per la comprensione della composizione [Fig.4]. Indispensabile alla lettura degli scatti e alla stima della loro univocità morfologica, dovuta alle corrispondenze estetiche e alla connessione di livelli semantici eterogenei, è l’accostamento di particolari ricavati dalla pianta, dall’architettura e dall’abito che mostrano un’evidente affinità geometrica [Fig.5]. Altre proficue analogie risultano dalla comparazione tra le configurazioni prodotte dalle pieghe del velo sul capo e il fronzolo della foglia del banano [Fig. 6], come anche lo sviluppo verticale e sovrapposto dello stelo del bulbo affine alla disposizione del velo [Fig.7].
Un’altra analisi delle immagini riguarda la relazione Ghana – Agave – Orto Botanico [Fig.8]. In questo caso il rapporto uomo/pianta/architettura è giocato principalmente sulle loro caratteristiche fisiche. Tutti e tre i soggetti presentano un aspetto compatto, vigoroso e imponente. La lettura dell’immagine muove dal basso verso l’alto e l’ordine prevede che prima si osservi la pianta, poi l’uomo ghanese e infine l’edificio [Fig.9]. Come per la composizione precedente, notiamo alcune particolari analogie, per esempio gli aculei sulle coste dell’agave ricordano i denti incorniciati dal sorriso del soggetto ritratto [Fig.10]; e ancora le dita delle mani intrecciate richiamano l’impilarsi delle coste dell’agave nella sua parte più nascosta, la cui perpendicolarità rimanda alle strutture architettoniche che si intravedono tra gli arbusti [Fig.11]. Infine, la decorazione geometrica presente sul costume africano è in perfetta analogia con il frutto della pianta [Fig.12].
L’insegnamento che traiamo da questo progetto fotografico è di natura formale, dialettica e antropologica. Si tratta, ovvero, di quella dinamica che permette il libero accostamento di immagini per favorire la mutua comprensione delle stesse e dei fatti storici, sociali, politici, economici e culturali ai quali queste rimandano, e il cui modello di presentazione resta impresso nella mente dell’osservatore per via della composizione concisa ed efficace. COEXISTENCE è un montaggio di fotografie che mette in forma la comunicazione di un concetto all’interno della società, quello appunto della coesistenza, che “prende posizione” attraverso una serie di dialoghi, corrispondenze e attrazioni formali, spesso quasi impercettibili, eppure acutamente produttive. Il montaggio stesso, oltre a essere un atto creativo che mette in mostra un certo processo immaginativo, è una presa di posizione di un’immagine rispetto a un’altra, di ciascuna immagine rispetto a tutte le altre, di tutta la composizione rispetto all’attualità. Quest’ultima, dal canto suo, pone il montaggio stesso nella prospettiva di un’attività iconografica e iconologica originale dell’arte e dell’immaginazione della sua autrice.
Le forme di coesistenza elaborate nelle composizioni fotografiche di Giulia Capasso trasmettono un rilevante messaggio antropologico, politico e sociale. Prendendo in considerazione piante non originarie della Sicilia – Ceiba Speciosa proviene dall’America e dall’Africa, Agave dal Centro America, Ficus Benjamina dall’India e dal Sud della Cina, Musa Acuminata dal Sudest asiatico e dall’Australia e Ficus Macrophylla dalla Nuova Zelanda –, soggetti provenienti da tre continenti diversi – Africa, Asia ed Europa – edifici e giardini palermitani che hanno accolto queste piante variando e arricchendo la vegetazione del luogo – Scuderie Reali, Orto Botanico, Villa Sperlinga, Piazza Marina, Giardino Inglese –, la fotografa ci trasmette una pensiero che, attraverso il montaggio fotografico, la dialettica e l’analogia di forme e contenuti, diventa spazio paradigmatico, immagine icastica e indimenticabile che ci segna nel profondo non lasciandoci indifferenti.
L’analogia sottesa alle forme di coesistenza ci suggerisce il seguente concetto: come giardini e strutture architettoniche palermitane hanno accolto nei secoli piante provenienti da diversi Paesi del mondo, che si sono perfettamente adattate al nuovo ambiente mescolandosi con la vegetazione locale e coesistendo con essa, così la città di Palermo diventa un grande giardino sociale, un modello di città multiculturale a cui ispirarsi, dove etnie diverse continuano a incontrarsi e a convivere associando le differenze per creare energia e risorse dagli spostamenti e dalle dinamiche migratorie. In questa compenetrazione di forme e significati tra nature, culture e architetture l’arte, nello specifico la fotografia, gioca un ruolo fondamentale. La relazione formale conseguita in questi scatti, vicina alla «struttura che connette» di Gregory Bateson (2007, 2011) e all’animismo di Tim Ingold (2001, 2006, 2007, 2011), è tanto primaria quanto espressiva perché è quella che più di ogni altra opera di comunicazione ci aiuta intuitivamente a ritrovare la consapevolezza che solo riconoscendoci frammenti di un tutto vitale e intimamente interrelato potremo impiantare le nostre esistenze sulle logiche fondamenta della mutua dipendenza, della tolleranza attiva e della coesistenza appunto.
Alla luce di quanto esposto, il design antropologico di Giulia Capasso corrisponde alle premesse con le quali ho aperto questa comunicazione. Le composizioni fotografiche di COEXISTENCE sono idee che hanno assunto delle forme. Queste forme hanno preso posizione, e soprattutto hanno formato un giudizio, un pensiero critico che tocca, in un modo o in un altro, la sensibilità di chi le osserva. In un tempo dove la ragione non riesce a esprimersi come dovrebbe o, semplicemente, non alza abbastanza la voce per farsi sentire, a volte resta davvero poco da dire. E mentre i discorsi istituzionali si parlano solo addosso nei gabinetti di Governo, chi prospetta davvero scenari praticabili e ad alta risoluzione lascia all’immagine l’ultima parola.
Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
Note
[1] Giulia Capasso (Palermo, 1995) si è laureata in Disegno Industriale all’Università di Palermo nel 2018. “COEXISTENCE. La botanica dei corpi. Design sociale per Palermo multiculturale” è il progetto fotografico realizzato per la sua tesi di laurea. Appassionata di video e fotografia, collabora con curatori e associazioni artistiche alla realizzazione di progetti ed esposizioni. Partecipa a collettive di fotografia e realizza mostre personali.
Riferimenti bibliografici
Bateson, G. 2007, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi.
– 2011, Mente e natura, Milano, Adelphi.
Fischer, E. 1969 Arte e Coesistenza, Bologna, Il Mulino.
Ingold, T. 2001, Ecologia della cultura, Roma, Meltemi.
– 2006, Rethinking the animate, re-animating thought, in «Ethnos», 71 (1): 9-20.
– 2007, Lines. A Brief History, London, Routledge.
– 2011, Being Alive: Essays on Movement, Knowledge and Description, London, Routledge.
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Fabiola Di Maggio, dottore di ricerca in Studi Culturali e Visuali, antropologa delle immagini e curatrice d’arte. Si occupa di Arte fotografica satellitare ed è esperta nell’analisi di fenomeni visivi legati alle immaginazioni frattali e apofeniche per le quali ha proposto un’inedita connessione. Nell’ambito dei Visual Culture Studies, e dei Museum Studies specificamente, ha messo in rilievo l’importanza del Cold Visual Turn relativo alle forme e alle dinamiche che negli ultimi decenni caratterizzano la cultura museale contemporanea indicando con il neologismo “musiconologia” una nuova area di ricerca che unisce le prospettive epistemologiche dell’antropologia e dell’iconologia. Dal 2009 si occupa dello studio del concetto di “primitivismo” nell’arte contemporanea e del fenomeno della musealizzazione dell’arte extra occidentale secondo una prospettiva che incrocia le analisi culturali dell’antropologia e quelle estetiche della storia dell’arte. Nell’orizzonte dell’antropologia delle immagini di Aby Warburg, le sue riflessioni sono inoltre rivolte all’indagine dei rapporti formali tra astrazione e figurazione nell’arte occidentale, extra occidentale e preistorica.
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