«È cosi che fanno in ER, dice Sbho. Penso: Che cos’è ER? Non riesco a ricordarmelo, quindi me ne sto zitta. Neanche Perdono dice nulla, sono sicura che nemmeno lei lo sa. L’ho visto in TV, a Harare, quando sono andata a trovare Sekuru Godi. ER è quello che fanno in America negli ospedali. Per farlo bene c’è bisogno di nuovi nomi. Io sono la dottoressa Bullet, che è bella, e tu sei il dottor Roz, che è alto, dice Sbho annuendo. Hai detto dottore, non voglio essere un uomo, dico».
E per farlo bene immaginiamo, anche noi, dei sostantivi: immaginiamo “Paradise” e “Darling”. Il primo è un toponimo Paradise, il secondo un aggettivo, Darling, cara o tesoro. Continuiamo il gioco e costruiamo una storia: Paradise è il Paradiso, un locus amoenus, Darling è una bambina, un angelo del Paradiso. Questo è ciò che potremmo immaginare, ma il gioco segue altre regole e Noviolet Bulawayo ha creato una storia diversa intorno ai nomi. La storia è quella di Darling che non è un angelo, ma una bambina africana, il posto non è il regno di Dio ma lo Zimbabwe, paese che non è un Paese, dove l’uomo non è una persona, ma un essere vivente depredato di ogni connotazione umana: non esiste il cibo, non esiste una casa, non esiste il diritto all’istruzione, al lavoro, alla felicità, è un luogo dove non c’è traccia di Dio. Questa la trama iniziale di C’è bisogno di nuovi nomi (Bompiani 2014, trad. it. Elena Malaga), della scrittrice africana Noviolet Bulawayo.
Nata e cresciuta a Tsholotsho, in Zimbabwe, a diciotto anni si trasferisce nel Michigan, qui prosegue gli studi avviati in patria e consegue un master alla Cornell University. Attualmente è Stegner Fellow alla Stanford University in California. Prima donna africana e primo scrittore dello Zimbabwe a vincere il Caine Prize for African Writing, nel 2011, grazie al racconto breve Hitting Budapest, pubblicato sulla Boston Review, successivamente sviluppato e reso primo capitolo del romanzo qui proposto. In corso di pubblicazione in dodici Paesi il romanzo ha ottenuto premi e riconoscimenti tra i quali: l’Etisalat Prize for Literature 2013, il Los Angeles Time Book Prize 2013, l’Hemingwey Foundation/ PEN Award 2014 e finalista al Man Book Award 2013. Un nome nuovo quello della Bulawayo in tutti i sensi, dal momento che l’autrice firma il romanzo con uno pseudonimo, tralasciando il nome di battesimo, Elisabeth Zandile Tshele, una scelta che linguisticamente esalta le proprie radici: Bulawayo è infatti la seconda città dello Zimbabwe, dopo la capitale Harare, e la preferenza è coerente al valore onomastico e al potere performativo che al linguaggio attribuisce l’autrice nel contesto di tutta la narrazione.
Darling, sullo sfondo apocalittico dello Zimbabwe, conduce per mano il lettore narrando le sue avventure, della scompaginata compagnia dei suoi amici dai soprannomi strambi: Bastard, Chipo, Diolosà, Sbho, Stina. Darling e i suoi amici rubano i frutti tropicali (guaiave) per il quartiere di Budapest, tentano di asportare la pancia di un’amichetta brutalizzata, simulano l’esecuzione di Natolibero, danno la caccia a Bin Laden, e giocano al gioco delle Nazioni, dove tutti vogliono essere il Paese vero, gli Usa, perchè «chi ci tiene a essere un posto terribile dove si fa la fame e tutto cade a pezzi?»
Tutto è gioco e costante è la sensazione di non esistere, di essere non persone. Alessandro Del Lago fa notare come nelle principali lingue indoeuropee il sostantivo persona denoti, da una parte, l’uomo come essere vivente appartenente alla specie umana e, dall’altra, come singolo individuo. A questi significati si aggiungono altri attributi, più o meno specifici, e a seconda dell’uso linguistico il sostantivo indica una diversa manifestazione dell’essere umano, differenti declinazioni accumunate dall’aspetto sociale. «Noi sappiamo intuitivamente che cosa significhi persona: il singolo come manifestazione individuale della specie umana, ma in un senso che eccede la sua natura biologica, un essere soprattutto sociale» (Del Lago 1999:208). Linguisticamente il contrario di persona è il sostantivo non-persona, o meglio non-person, lemma che ha un significato specifico nella lingua inglese ma che non trova un corrispettivo nelle lingue europee (ivi: 213).
Il sostantivo non persona, situato al suo opposto, nega il tratto della socialità. Una non-persona è un soggetto che subisce un processo di rimozione sociale, a cui viene negato ogni tipologia di diritto: dai basilari diritti umani a quelli politici. L’uso del sostantivo non-persona, reiterato all’interno del romanzo, ha l’effetto di evocare e presentificare le terribili e spaventose condizioni in cui versa la popolazione dello Zimbabwe, oppressa dal gramo e metifico retaggio del periodo coloniale, delle guerre di decolonizzazione e del regime dittatoriale.
Come possiamo ben intuire la Bulawayo, sostenitrice del potere creativo delle parole, affida ad esse il compito di cambiare il mondo, un rinnovamento declamato dal titolo: C’è bisogno di nuovi nomi, dove il bisogno non è semplicemente mancanza, esigenza, dipendenza, ma a livello ontologico è impulso ad essere, è uno stato di ricerca, ricerca di una condizione non subordinata ma autonoma. Bisogna immaginare nuovi modi di essere, nuovi mondi possibili e migliori. E quale modo più soddisfacente di creare, di stabilire un ordine, attraverso il Logos? Nominando o rinominando le cose, gli eventi, le persone? Perchè le cose si cominciano a conoscere e a possedere solo se l’uomo, attraverso lo strumento linguistico discretizza il continum amorfo e indistinto.
Darling cerca risposte attraverso il gioco, con il “facciamo finta”, azione dell’intelligenza rappresentativa, come verifica delle proprie potenzialità creative ed esplorative, il gioco è simulazione di scelte e norme possibili, diverse dal reale. Ma il bisogno di concretezza, di essere, di autodeterminazione passa attraverso il corpo: nelle cicatrici, attraverso la bocca, cercando il cibo. Ma il cibo disponibile non è cibo vero: i bambini mangiano frutti, cibi non cotti, che li mantengono in uno stato preculturale. Degne di nota le espressioni iperboliche adoperate: si accosta il sostantivo Nazione o Paese ad altre parole, la principale è fame, e la Nazione viene invocata soprattutto per significare qualcosa di irrealizzabile, di non raggiungibile. Nell’accostamento si dispiega il senso, tracima il significato e non è più fame, ma fame di cultura, di Nazione, di Identità. A dare prova del senso di confusione, di non comprensione, di inconsistenza è l’interrogativo che corre di bocca in bocca: «Che cos’è esattamente un africano?». I giochi continuano fino alla trasformazione in realtà e dopo il funerale di Natolibero si ha la cesura, il gioco non è più gioco è per Davvero, e Darling emigra. Va in America, negli USA, dal «grande babbuino che regge il mondo», ma tutto ciò che ha sognato, sperato, desiderato non è in quel luogo. E ancora a dominare il suo mondo sono le stesse figure retoriche, ma al rovescio: non è più fame ma abbondanza, non è più macilento ma obeso, e le prime immagini sono quelle del cugino grasso, della zia ossessionata dal proprio corpo, unico obiettivo camminare, camminare, camminare per trasformare il formoso corpo africano in snello corpo da modella americana.
Le categorie di riferimento vengono alterate e sovvertite: l’Alice africana, nel mondo attraverso lo specchio, si rende conto di come il termine grasso del suo Paese abbia un significato rovesciato, si accorge di come il contatto con gli altri generi solitudine e il cibo vero, lungi dall’essere ratificatore di esistenza, non basti per placare il bisogno di riconoscimento dell’umano: «Qui si mangia, c’è cibo di ogni tipo e di ogni genere. Ci sono volte, però, che mangio tanto ma il cibo non mi basta, è come se avessi fame del mio paese e non c’è niente che me la faccia passare». Il cambiamento è radicale, limitata nella conoscenza dell’ambiente geografico, mutila degli affetti e dell’intera rete sociale che la circondava deve affrontare un luogo altro, dove i ricordi legati al passato non possono avere un riscontro positivo, non vi è nulla di normale: i modelli sociali e culturali che ha introiettato non sono validi ma proibiti, il suo corpo è sbagliato, nella pelle, nella testa, nel sorriso, nei capelli, nei vestiti, tutto è fonte di vergogna e disagio. Ma il problema maggiore, l’ «enorme portone di ferro di cui tu perdi sempre le chiavi», è linguistico: «Il problema, con l’inglese, è questo: non è che apri bocca e ti viene fuori, prima devi pensare a cosa dire. Poi devi trovare le parole. Poi devi sistemare le parole nella tua testa. Poi devi ripetere le parole a mente, per essere certa che siano giuste. Infine, ultimo passo, devi dirle ad alta voce in modo che si capiscano».
Darling impara, non senza difficoltà, che per soppravvivere deve integrarsi e solo appropriandosi del linguaggio può entrare in relazione con l’Altro, solo attraverso la comunicazione può interiorizzare i modelli esterni, rifiuta quindi l’Ebonics, il vernacolo adottato dagli afroamericani e utilizzato come mezzo per esprimere l’appartenenza a gruppi alternativi in seno alla società ospitante, adotta quindi un coping di tipo mimetico e decide che «il modo migliore per uscirne è sembrare americani e ho imparato come fare dalla TV». Ma tutto questo non basta per essere americani: il percorso di Darling, come quello di ogni migrante, non è mai definitivo, non trova un epilogo, ma è sottoposto ad un continuo processo di definizione e ridefinizione, e negli ultimi capitoli la Bulawayo presenta una giovane donna che scopre qualcosa in più sul modo di percepirsi, di autorappresentarsi e di essere rappresentata. Darling, alla fine del percorso adolescenziale, scopre il proprio corpo come macchina da lavoro. È il processo, da parte del migrante, che il sociologo francese Abdelmalkek Sayad chiama individuazione del corpo.
Per il sociologo francese immigrazione e lavoro sono stati consustanziali, elementi indissociabili legati da una relazione sintagmatica: « […] non si può metterne in discussione uno senza al tempo stesso mettere in discussione l’altro e senza mettere in discussione se stessi» (Sayad 2002: 232). Lavoro ed Immigrazione, legati da una mutua dipendenza, caratterizzerebbero il soggetto migrante fino a costituire i bastioni della sua stessa Identità. È di ovvia comprensione che il migrante abbia come unico obiettivo un miglioramento qualitativo della propria vita: egli, investendo sogni e grandi speranze, dissipa ogni energia nel lavoro, considerato come unica possibilità per ottenere l’esito sperato. Caricando le proprie aspettative sviluppa un’attenzione monomaniacale, una relazione morbosamente patologica con il lavoro: solo con il lavoro, paradossalmente, egli può esistere. Non può e non sa sottrarsi ad esso perchè negherebbe lo scopo della sua presenza in terra straniera e, consapevole di non essere un cittadino, sa che la sua presenza viene legittimata precipuamente attraverso la capacità produttiva, essendo il migrante «[...] l’unico lavoratore a non avere altra funzione se non quella del lavoro» (ivi: 272). In mancanza di questo il rischio è un ritorno al Paese di origine, un ritorno che equivale ad un fallimento ai propri e, soprattutto, altrui occhi. Per tale motivo ogni asperità, che osteggia il percorso lavorativo, è causa di grandi conflitti che vanno a intaccare in profondità il senso di sè, aprendo gravi falle nella stessa identità dell’immigrato. È una relazione complessa e certamente pericolosa in cui il soggetto, dolorosamente, realizza ed esperisce una nuova percezione e un diverso uso del proprio corpo.
Ricorda Sayad che tra le contraddizioni maggiori, che incontra il migrante lungo il suo percorso, quella con il proprio corpo è la più controversa. Ad un primo livello l’immigrato si cimenta con una visione morfologicamente diversa del proprio corpo, discorde rispetto a quello che rappresentava la norma nel proprio Paese, dissimile da quello che, fino a quel momento, il migrante credeva di possedere e autenticata altresì dal gruppo originario. Separato dal gruppo intraprende un percorso solitario di conoscenza individuale e sperimenta il proprio corpo come unità biologicamente individualizzata, l’immigrato:
« [...] viene immerso in un universo economico e sociale in cui la virtù cardinale è l’individualismo generalizzato. È infatti sottoposto all’azione di meccanismi (economici, giuridici, culturali, ec.) che, attraverso la regolamentazione che impongono e la regolazione dei comportamenti che realizzano ciascuno nel proprio campo, hanno l’effetto di inculcare la morale individualistica che caratterizza gli stranieri e gli stranieri di bassa condizione sociale (gli immigrati). Spesso suo malgrado e quasi sempre a sue spese, è così che il lavoratore immigrato […] fa esperienza dell’individuazione caratteristica della società di immigrazione. Con il lavoro salariato scopre il tempo matematico, tempo misurabile e calcolabile (quantità di tempo convertita in denaro), tempo individualizzato (che impiega la propria persona e solo il lavoro della persona). Correlativamente, scopre le dimensioni individuali del lavoro svolto […], della remunerazione ricevuta […] dunque del budget che è costretto ad avere […]. Dunque il lavoratore immigrato originario della società (e delle economie) del terzo mondo scopre innanzitutto l’individuazione del proprio corpo come organo o utensile di lavoro, come sede delle funzioni biologiche e come “corpo” socialmente ed esteriormente definito in termini di corpo estraneo» (ivi: 271).
Puro automatismo, insieme di congegni ben oliati dediti alla produzione, il migrante nel momento in cui riscopre il proprio corpo ne viene spossessato: egli non è più libero di decidere cosa farne, come indirizzarlo, come utilizzarlo. Il corpo si oggettivizza, non è proprietà del soggetto, ma potenza indipendente che estranea l’uomo da sè, un corpo estraneo alieno a se stesso e alla società. E Darling, come centinaia e migliaia di immigrati, scopre che l’America non è il Paradiso ma è Lavoro. Lei stessa non è una persona dotata di autonomia decisionale ma macchinario la cui unica mansione è il lavoro. «Lavori pagati male. Lavori che spaccavano la schiena. Lavori che erodevano le ossa della nostra dignità, che divoravano la carne, che corrodevano il midollo. Abbiamo preso ferri roventi e abbiamo piallato il nostro orgoglio. Abbiamo pulito cessi. Abbiamo raccolto tabacco e frutta sotto il sole cocente fino ad avere la lingua di fuori e ansimare come segugi perduti. Abbiamo macellato animali, sgozzato gole, fatto colare sangue. Abbiamo lavorato con macchinari pericolosi, trattenendo il respiro come coccodrilli sott’acqua pensando sempre ai soldi e mai alla vita».
È una migrazione assoluta, quella raccontata dalla Bulawayo, che raddoppia e si moltiplica lungo il corso della narrazione. La giovane protagonista è sottoposta a uno spostamento continuo: dalla casa distrutta, a causa della politica repressiva di Mugabe, a Paradise, da Paradise ai quartieri confinanti, dallo Zimbabwe all’America. Ma lo spostamento non è semplicemente corporeo. La migrazione di Darling non segue il piano orizzontale delle coordinate geografiche, ma percorre un orientamento verticale. È una ricerca ascendente dell’Io, che si muove dal basso verso l’alto, e discendente, dall’alto verso il basso: dalla non-persona a persona, dalla persona a mero corpo, dal bestiale all’umano, dall’umano all’automa. Inizialmente Darling è presentata e si autorappresenta come una non-persona, definizione scelta dall’autrice e qui corroborata dalla visione del sociologo Del Lago applicata alla condizione dei migranti privi di ogni riconoscimento giuridico. Successivamente l’emigrazione, nelle speranze della protagonista, le restituisce una parvenza corporea che la fa sentire quasi una persona ma, dissolto il miraggio, si accorge di come la migrazione, lungi dall’essere cura e rimedio, inasprisca ed esasperi quel sentimento di non presenza che si porta dentro. Darling sperimenta l’individuazione del corpo, prova l’effetto di essere immigrata e di non avere il diritto di poter tornare al proprio Paese. Darling è «atopos, senza luogo, fuori luogo, inclassificabile. […] Nè cittadino, né straniero, né veramente dalla parte dello Stesso, né totalmente dalla parte dell’Altro, l’immigrato si situa in quel luogo “bastardo” di cui parla anche Platone, alla frontiera dell’essere e del non-essere sociali» ( Bordieu in Sayad 2002:6).
E Darling migrata da se stessa, Darling atopica, Darling alienata si ferma. Il gioco della negazione approda ad un punto morto, davanti a lei si aprono possibili vie, non sa quale imboccare: non c’è alcun gatto del Cheshire ad indicarle la strada. La soluzione è aspettare: «Aspetteremo per sempre sospesi in aria come bandiere di nazioni mai celebrate». E nell’attesa il ricordo invadente e prepotente di una vita che poteva essere ma che non è. NoViolet Bulawayo al primo tentativo consegna un compendio completo ed esaustivo, tra illusione e sofferenze, dell’esperienza migratoria. Una storia difficile da narrare per le condizioni limite descritte ma restituite in toni smorzati grazie al filtro narrativo, un linguaggio gremito di allitterazioni, un impiego mai approssimativo delle parole che costringe il lettore a misurarsi con lessemi che, usurati dall’uso comune, perdono il loro spessore semantico. La conoscenza profonda del disagio, gli spunti riflessivi sulla differenza, sulla retorica della rappresentazione e dell’autorappresentazione, del trinomio cibo-identità-cultura, dei rapporti tra immigrati e Stato, fanno del romanzo l’esordio memorabile e promettente di una scrittrice della migrazione.
Dialoghi Mediterranei, n. 10, novembre 2014
Riferimenti bibliografici
Del Lago A. (1999), Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano.
Sayad A. (2002), La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, pref. di P. Bordieu, Cortina editore, Milano.
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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e le reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni.
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