Quando Susan Griffin – filosofa vicina all’area dell’ecofemminismo – nella sua opera Women and Nature: The Roaring inside her (1978) scrive di scenari oppressivi sulla vita delle donne e sulla natura, intraprende una riflessione che potremmo considerare alquanto attuale in merito ad alcuni importanti interrogativi della nostra epoca: il rapporto tra uomo e natura e il ruolo che la tecno-scienza ha sulle esistenze umane (Bianchi 2010: 1-2).
La questione tecnologica e di un suo ruolo attivo sul piano umano, d’altronde, si innesta all’interno di un dibattito femminista – che trasversalmente attraversa anche l’ambito ecologico, oltre che relativo alla polarizzazione sociale e politica di genere – per il quale, ad oggi, vi è una sovrapposizione della tecno-scienza sulla corporeità femminile, specialmente sulla sfera riproduttiva e che intravede, in particolare, sull’aspetto procreativo e materno una strumentalizzazione economica di carattere post-coloniale.
Il termine ecofemminismo che fu introdotto dalla femminista francese Françoise d’Eaubonne nel 1974, la cui espressione rimandava ad una rivoluzione dal tratto ecologico e ambientale, tra gli anni Settanta e Ottanta, si delinea con elaborazioni teoriche e idee innovative che evocano una progressione in linea antimilitarista (Angelini 2008: 236)
Con l’indiana Vandana Shiva, interprete dell’ecofemminismo in chiave post-coloniale, il richiamo concettuale è invece un’attenzione specifica ai meccanismi economici di sviluppo neoliberista in Paesi come l’India e l’Africa. Il pensiero di Shiva che si muove in direzione di una critica al sistema economico attuale, alla globalizzazione e alle biotecnologie, solleva alcuni decisivi interrogativi in merito allo sfruttamento delle risorse naturali, analogamente alle risorse umane, ossia i popoli, giacché l’economia per come è attualmente strutturata, ha contribuito a modificare alla radice la formazione della popolazione rurale indiana, una natura peraltro posta in parallelo alla femminilità e, quindi, la speculazione sulla natura terrena converge con la natura sessuale e riproduttiva della donna.
Da questo punto di vista, la manipolazione della natura è la metafora di una violenza contro la donna, in quanto natura femminile da addomesticare al fine di sfruttare le sue risorse sessuo-procreative. Il legame ambiente-natura femminile, è perciò considerato da Shiva mediante questo parallelismo. La sottolineatura teorica dell’ecofemminismo riconosce dunque il «nesso tra oppressione della natura, delle donne, dei poveri, degli animali» (Zambroni 2016: 28).
La riflessione di Shiva viene ripresa da Maria Mies, secondo cui la società contemporanea presenta visibili connubi tra sfruttamento delle risorse, soprattutto procreative-femminili, e capitalismo. Mies critica decisamente la società della globalizzazione neoliberista, laddove, la nuova risorsa economica non è altro che il corpo della donna data la sua forza riproduttiva. Pertanto, il ragionamento di Mies, allineato ad una teorizzazione post-coloniale, mette in luce quanto la sfera biologica e materna, sia diventata la fonte prevalente di accrescimento del capitale (Corradi 2007: 41-42).
Le elaborazioni appena accennate si connettono alle argomentazioni classiche di un femminismo che dagli anni Sessanta, sino agli anni Settanta e Ottanta – nelle posizioni dapprima di Simone de Beauvoir per la quale la subordinazione femminile derivava da una categorizzazione di essa sul ruolo materno e poi, con Shulamith Firestone che, addirittura, presupponeva che la concretizzazione della libertà per la donna dovesse avvenire mediante una scissione dall’essere materno e l’intervento della tecnologia su tale aspetto avrebbe, per l’appunto, consentito la via della liberazione – si pronuncia in favore dell’autodeterminazione femminile, cercando di comprendere ed esaminare le cause che hanno caratterizzato la condizione di subalternità sociale-politica delle donne. Così scrive Raffaella Baritono:
«Shulamith Firestone tenta di dare una risposta nel suo volume La dialettica tra i sessi, che non casualmente lei dedicava a de Beauvoir. Per Firestone erano proprio il nesso riproduzione-produzione, i compiti di nutrimento e di cura dei figli all’origine dello squilibrio di potere tra uomini e donne. Era la differenza biologica della donna rispetto all’uomo che aveva creato le basi per il dominio: la donna concepisce il figlio, ma lo deve anche allattare e accudire a lungo per la sua sopravvivenza e questo la mette in una situazione di oggettiva debolezza e dipendenza nei confronti dell’uomo. Il suo aiuto e la sua protezione si erano trasformati in un’istituzione oppressiva – la famiglia – che, nella sua funzione di “sede naturale” della riproduzione, rinnovava costantemente l’atto di subordinazione» (Baritono 2008: 6).
L’elemento che viene, dunque, identificato quale causa principale del rapporto di dominio-oppressione è la riproduzione, in quanto condizione di dipendenza della prole sulla donna.
Per questa ragione, Firestone auspica una possibilità di scegliere e lo fa pensando, perfino, alla riproduzione artificiale, tant’è che la tecnologia è lo strumento perfetto ai fini di una realizzazione della liberazione corporea da una forma di schiavitù riproduttiva. In tal senso, seguendo il ragionamento di Firestone «una donna moderna dovrebbe liberarsi dai “vincoli della sua natura” e dalle funzioni materne» (Russo 2010: 101). Secondo la studiosa attivista la liberazione deve realizzarsi attraverso una scissione dell’essere donna da ciò che costituisce, sostanzialmente, la sua natura e che – a mio modo di vedere – non necessariamente deve congiungersi con una dipendenza o minorità sociale per la donna, e che vuol dire invece, approcciarsi alla maternità con consapevolezza e intenzionalità autonoma. E quindi, nelle intenzioni di Firestone, in che modo la donna può liberarsi dal gioco biologico della maternità? Ricorrendo «ai metodi di controllo della fertilità e alle tecnologie riproduttive, giudicate perciò in modo incondizionatamente positivo» (Mordacci 2003: 224), elemento questo che apre un ulteriore snodo di riflessione che si presenta concettualmente critico per i risvolti etici legati all’intervento delle tecnologie sulla vita riproduttiva femminile venendo identificate come «terapie della sterilità» (Moneti Codignola 2005: 330).
In tal modo, le metodiche tecno-scientifiche sembrano connettersi al concetto di medicalizzazione del corpo femminile, un corpo che in ogni modo deve essere ristabilito per esplicare al meglio le proprie funzionalità generative in considerazione che la «sterilità viene equiparata a una malattia e le tecniche di riproduzione artificiale si presentano come la cura di questa malattia» (idem: 330).
Il nesso femminilità-maternità è quindi difficile e controverso, anche in relazione alle differenti posizioni femministe che nel corso del tempo sono state avanzate e che hanno, in un certo qual modo, rivisto le posizioni eccessivamente radicali – per esempio quella di Firestone – indirizzandosi su un fronte diverso. È quello che hanno fatto Adrienne Rich e Nancy Chodorow, le quali invece si riferivano alla maternità come risorsa da affermare autonomamente, o nel significato di genealogia e relazione nel caso di Luce Irigaray e Adriana Cavarero.
In quest’ottica, è chiaro che la questione della differenza viene ad essere amplificata da una gestione differente uomo-donna in ambito pubblico e privato e legata alla funzione materna, ma che può comunque divenire un potenziale interiore che è della donna e che è parte della sua stessa natura femminile; la maternità che si slega dal condizionamento sociale e patriarcale della donna incardinata al ruolo di moglie e madre e che emerge con il senso della piena autodeterminazione corporea, ovvero, è la donna e soltanto lei che decide con piena coscienza quando diventare madre.
Detto ciò, l’aspetto riproduttivo-procreativo non è visto solo come un fardello da cui affrancarsi, bensì nel senso di una affermazione identitaria materna. «Il dominio tecnologico della maternità va allora rifiutato, almeno fintanto che le tecnologie riproduttive non siano realmente divenute strumenti di autonomia nelle mani delle donne» (Mordacci 2003: 224-225). All’interno di tale inquadratura, e sul discorso dell’utilizzo della tecno-scienza su ciò che concerne la procreazione, dunque, si distinguono due concezioni del pensiero femminista, un orizzonte teorico che sostiene in positivo l’impiego delle tecniche scientifiche a scopo riproduttivo per le opportunità legate ad una libera scelta che da esse deriverebbe, e un’altra prospettiva più categorica nell’individuare criticità etiche che sarebbero insite nel loro utilizzo.
Sul punto, Laura Corradi in una serrata critica che conduce nel libro Nel ventre di un’altra. Una critica femminista delle tecnologie riproduttive (2017) osserva che nell’utilizzo delle metodiche tecno-scientifiche si celerebbe il fervore neoliberista del mercato del “diritto” alla riproduzione e il diritto in questione è, in realtà, rivolto ad alcuni soggetti privilegiati economicamente. Negli ultimi anni, infatti, il femminismo si è discostato da alcune versioni eccessivamente favorevoli alle tecnologie, intravedendo in esse un modo per reiterare un nuovo tipo di oppressione patriarcale sulle donne.
«Il pensiero femminista, per esempio, si è molto soffermato sulla possibilità che le nuove pratiche riproduttive possano dare luogo non a una maggiore autonomia per le donne, bensì a forme di abuso e sfruttamento. Si tratta, per esempio, del rischio di un prelievo di ovociti e tessuto ovarico oltre le reali necessità, con la finalità non sempre esplicitata di produrre embrioni; della doppia tendenza a spingere le donne alla procreazione, come se questo fosse l’unico valore della vita femminile, e, nel lungo periodo, del tentativo di escluderle completamente dalla riproduzione. I sostenitori delle tecnologie riproduttive, al contrario, sottolineano la possibilità di estendere i diritti non soltanto delle coppie, ma anche dei singoli ad avere figli, non solo laddove si verifichino situazioni di sterilità o patologie a trasmissione ereditaria, ma anche come diritto alle scelte riproduttive e a un diverso modo di procreare […] Il convergere di molte diverse forme di maternità e paternità – genetica, gestazionale, sociale e le loro combinazioni – ha infatti prodotto situazioni che le differenti legislazioni hanno dovuto convogliare nel riconoscimento o nella negazione di nuovi diritti. In questo senso è esemplare il problema della surrogazione» (Tallacchini, Terragni 2004: 103-104).
In particolare, la surrogazione di maternità – denominata talvolta anche come gestazione per altri – che viene a congiungersi con le tecniche di procreazione assistita ed è attuata in genere tramite forma contrattuale, ridefinisce alla radice non solo il concetto di genitorialità o maternità, bensì pone in luce il problema dell’autonoma gestione sul corpo e la procreazione per le donne, in considerazione delle differenti posizioni di potere tra coloro che possono godere di tale tecnica – coppie o donne con un benessere economico – e chi invece è in una situazione di svantaggio sociale tale da mettere a servizio il suo corpo per l’ottenimento di un miglioramento. È il caso di alcune donne appartenenti ad uno status inferiore che intravedono nella possibilità di utilizzare sé stesse e il proprio utero vantaggi economici, e l’esempio dell’India è significativo. Senza entrare in una questione prettamente giuridica o di definizione medico-scientifica – che non è nelle mie intenzioni intraprendere – il problema del compenso che si cela nella relazione contrattuale tra i due soggetti coinvolti, a mio avviso, mette in evidenza la drammaticità del tema della condizione di subalternità di certe donne, collegata ad una sorta di espropriazione post-coloniale della generatività attraverso il denaro.
Alla luce di tale osservazione, la maternità tende ad acquisire una valenza simbolica nel mercato riproduttivo, connettendosi ad una cultura economico-patriarcale e tecnologica che determina e reitera, ancora una volta, la sua espansione sui corpi femminili.
Del resto, vanno ridiscusse le contraddizioni in merito alla situazione personale di vita di una donna che diverrebbe più autonoma, eventualmente, posticipando il desiderio di maternità – avendo una certa difficoltà nel conciliare i tempi professionali e quelli genitoriali – per avvicinarsi in seguito ad essa, possibilmente, con l’ausilio delle tecniche riproduttive, individuate quasi come soluzione rispetto alle criticità nel concretizzare la maternità – anche in età avanzata – analogamente a quelle donne che pensano di adoperarsi per fini economici snaturando sé stesse, iniziando dalla propria natura. E, la riflessione del femminismo e della prospettiva ecofemminista sulla tecno-scienza, ha contribuito a rendere quanto mai evidenti gli influssi patriarcali nell’incentivare eventuali interventi sulla vita procreativa femminile, omologando nuovamente il ruolo della donna a quello di madre, incardinandola ancora e ad ogni costo, alla funzione materna – socialmente accettata – su cui per secoli il pensiero femminista ha attuato le più forti critiche.
In questo senso, è di rilievo la riflessione di Nancy Fraser, filosofa statunitense, per la quale uno degli errori del femminismo, già dagli anni Sessanta e Settanta, è quello di essersi intrecciato ad una svolta culturale creando, di fatto, una connivenza con il sistema economico neoliberista (Casalini 2015: 35). Brunella Casalini, inoltre, nota che l’attuale epoca neoliberale ha prodotto una nuova fisionomia del ruolo femminile entrato in massa nel lavoro, ma con salari molto bassi e forme contrattuali incerte. Il neoliberismo economico coincide, peraltro, con la crescita esponenziale della povertà delle donne e con l’aumento del tempo dedicato al lavoro remunerato rispetto al lavoro cosiddetto di cura (idem: 37).
Il tema di un ripensamento in merito a forme di sfruttamento riproduttivo – nel caso della surrogazione di maternità – svela quanto la società sia permeata da un neoliberismo che è sia economico che culturale e
«che postula la totale disponibilità da parte delle donne del proprio corpo e comporta che ogni atto di disposizione si traduca in merce; e non si tratta solo di un business, ma appunto di una cultura. Il trionfo dei diritti individuali insito in tale posizione esige l’ampliamento della sfera della proprietà. L’ideologia del libero mercato e l’individualismo progressista impongono di ritenere del tutto legittimo che le due libere volontà del donatore e della donna da affittare si incontrino per realizzare il rispettivo interesse, senza incontrare alcun limite etico» (Luccioli 2007: 325).
D’altro canto, sul nesso scienza-vita umana si incrocia inevitabilmente l’argomento spinoso del corpo biologico e delle sue parti ridotte a materiale di scambio e, quindi, elemento integrante dell’ambito attinente alla bio-economia. Melinda Cooper e Catherine Waldby parlano, infatti, di una economia incentrata sulla vendita di gameti, sui possibili pericoli di una sperimentazione farmaceutica non etica – o della clonazione – il cui scopo sarebbe quello di trarre un profitto. Su tale punto è necessaria una attenta riflessione, dato che la tecno-scienza può essere uno strumento utile di aiuto e supporto della vita umana, senza però che si imponga su di essa.
Il tema del bio-lavoro – così viene definito da Cooper e Waldby – sta ridefinendo totalmente l’economia globale, e il valore di mercato è attribuito in base alle potenzialità umane, genetiche, biologiche, riproduttive delle donne, così che il processo bio-economico non può non avvicinarsi al bio-potere, un concetto caro al filosofo Foucault, e il passaggio alla modernità tecnologica viene sancito dal sorgere di un potere strutturato e organizzato su più livelli, nel quale l’assoggettamento coinvolge primariamente la realtà biologica e umana.
«Nel fare questo il “bio-potere” diventa un elemento ineludibile per lo sviluppo del capitalismo e si consolida, ad un primo livello, attraverso l’inserimento dei corpi negli apparati produttivi, ed, a un più generale livello, mediante l’“adattamento” al processo economico dei fenomeni che investono la popolazione. Ma il bio-potere non attiene solo alla normalizzazione e regolazione dell’aspetto biologico, rappresenta piuttosto il potere di definire l’ambito ed il tipo di relazionalità (e quindi la qualità dell’“inclusione”), in quanto è un controllo sul “come” vivere che si riproduce in tutte le aggregazioni istituzionali formali ed informali presenti nei diversi strati del corpo sociale, siano esse famiglia, l’amministrazione, l’esercito o la medicina» (Farinella 2005: 18).
La visione quasi “tentacolare” di un potere tecnologico ingloba quindi l’elemento della fecondità, cercando di stabilire su tale funzione naturale un preciso controllo, trasformandola in qualcosa che non rientra più nel progetto procreativo comunque connesso ad una scelta libera e consapevole – e che tutto sommato rientra nelle preoccupazioni dell’attuale femminismo – e che, invece, tende a determinarsi quale sentimento di personale godimento risolto nel potere del denaro.
E giacché la maternità non dovrebbe essere posizionata sull’istanza di un desiderio che va sempre e comunque realizzato, anche danneggiando altri individui, – per esempio, le donne cosiddette surrogate, delle quali è necessario considerare la parte emozionale e psicologica, in quanto direttamente implicate nelle fasi di gestazione e parto – ci si deve orientare per un diverso senso della maternità, vista non unicamente nella tracciatura di una decisione autoreferenziale. A guardar bene, la situazione delle “madri” surrogate sembra pressoché distante da una libera autodeterminazione procreativa, tenendo conto che l’esistenza di un contratto che stabilisce i termini della relazione tra coppia committente e donna che partorisce, implica una transazione commerciale, con conseguente cessione del “bene” prodotto. L’elaborazione critica di un determinismo bio-tecnologico proviene, in modo ancora più deciso, dal femminismo post-coloniale e de-coloniale e le tecniche biomediche – che intervengono in maniera pressante sulle esistenze umane – sono identificate quali dispositivi attraverso cui il potere maschile reitera il dominio sui corpi delle donne.
In un’ottica antropologica, non è possibile tralasciare il punto di una questione che, storicamente, ha incardinato il dualismo sulla definizione di una imposizione dell’uomo sulla donna. È Silvia Federici che associa la supremazia maschile al potenziale riproduttivo delle donne, allineando il tema all’argomento del corpo femminile come risorsa politico-economica. Qui, l’elemento post-coloniale si innesta mediante un corpo procreativo identificato quale oggetto di una forma di colonizzazione diversa rispetto al passato, non più in un rapporto asimmetrico tra colonizzatore e soggetto colonizzato, ma si estende ad una conquista economica del potere sessuale e generativo delle donne. Adesso, la materia da possedere non è la terra fisica e geografica; è l’energia femminea della capacità del “dare” vita.
L’espansione di questa tipologia di dominazione neo-coloniale, comunque espressione di una diversa forma patriarcale, conduce pertanto ad un rafforzamento della subalternità, delle dicotomie di status tra soggetti che possono acquisire e realizzare un obiettivo mediante il denaro e altri soggetti che non si trovano in analoghe condizioni. A tale riguardo, penso che ai fini del ragionamento risulti interessante la posizione di Paola Tabet:
«Lo scambio sessuo-economico costituisce si può dire la cerniera del rapporto di classe tra uomini e donne, un rapporto soggiacente a, e articolato con, i più diversi sistemi sociali ed economici e tuttavia alla loro base. Un sistema vario, potente e insieme di straordinaria compattezza. Un sistema globale che unisce sfruttamento economico, oppressione sessuale, limitazione della conoscenza. [..] Come in un gioco di prestigio scompare infatti il lavoro delle donne e viene occultata l’espropriazione delle risorse e dei mezzi di produzione da loro subita e, con un ribaltamento ideologico della realtà, dominazione e sfruttamento appaiono come fatti ovvii, legati alla diversa ‘natura’ dei due sessi. Una duplice beffa sta così alla base dei rapporti di classe tra i sessi che danno agli uomini, società per società, il potere economico, giuridico e politico» (Tabet 2004: 181).
La teorizzazione di Tabet, ben collegata alla posizione marxiana del lavoratore espropriato del suo prodotto e che si rivolge anche alla donna – nel caso specifico della donna surrogata – requisita a sua volta del proprio, il bambino, rileva perfettamente la condizione femminile la cui attività principale è legata alla procreazione, laddove in qualsiasi società, alla donna è richiesto l’espletamento del suo dovere: procreativo-materno. Nel contesto, il pensiero di Karl Marx sottolineava la reale natura del lavoro umano, un’attività non libera di cui l’uomo non poteva manifestare alcuna titolarità, un lavoro di cui egli era sostanzialmente espropriato a vantaggio di altri. Il lavoratore non ha autonomia e ha una funzione solo in relazione al prodotto finale. In tal senso, il lavoratore assume lo status oggettivante di “cosa” che produce “altro da sé”.
La valutazione di un soggetto si conforma sulla base delle qualità e dell’utilità del bene prodotto e quest’ultimo non appartiene più al lavoratore; il prodotto è esterno a lui; il lavoratore lo crea, ma non è lui il proprietario, cosicché, il rapporto tra colui che produce e il prodotto stesso, si determina quale processo di trasformazione che priva l’operaio della propria umanità, lo rende schiavo e senza valore. In modo analogo, la donna viene così confiscata del suo potenziale sessuale-materno.
Sessualità e maternità si sovrappongono e la prestazione fisica delle donne costituisce, specialmente in convergenza all’orizzonte neoliberale del mercato, la risorsa primaria dello sfruttamento, anche per quanto concerne il settore pornografico in cui le rappresentazioni sessuali del corpo femminile vengono accentuate, come la questione della prostituzione, problema che non accenna a diminuire ed è in crescita esponenziale.
Specificatamente, nella surrogazione di maternità – nella sua forma contrattuale – è necessario evidenziare che il bambino «diventa prodotto da scegliere, selezionare e programmare» (Pessina, Picozzi: 2002: 100). Concettualmente, la logica neoliberale del mercato si profila come la struttura razionale di una ideologia post-moderna, che pone centralità sul lavoro delle attività umane perché produttrici di beni. In questo quadro, lo stesso soggetto umano è innalzato a strumento per la produzione di qualcosa e tale processo finisce con l’identificare il corpo, in quanto mezzo per lo sviluppo di alcune attività, quale categoria principale dell’economia di produzione.
La derivazione marxiana di questa prospettiva si adatta all’interazione con la teorizzazione del corpo in quanto risorsa, e in connessione ad una riduzione dell’autonomia e dell’integrità individuale. L’egemonia maschile-coloniale esercitata sulle donne è stata, dunque, attuata al fine di determinarla quale forza-lavoro da adoperare, primaria risorsa dell’economia. Di conseguenza, la sessualità all’interno delle società capitalistiche e neo-coloniali, diviene categoria storica della primaria funzione lavorativa legata alla dicotomia di classe.
«La posizione della Firestone, […] rimaneva legata a una visione naif e ottimistica della tecnologia, come se fosse un valore neutrale e potesse essere usata a piacere dalle donne per i loro fini di liberazione. Negli anni settanta e ottanta, tuttavia, le critiche a questa teoria da parte di pensatori come Lagdom Winner, Jacques Ellul ed altri hanno dimostrato quanto la tecnologia fosse profondamente pervasa da valori socio-politici e come fosse difficile porla al servizio della liberazione degli esseri umani. Il tecno-pessimismo, se si può definire così, che emerge da queste posizioni, insieme all’ambientalismo, ci hanno dimostrato come in molti casi la tecnologia, invece che liberarci dal determinismo della natura, di fatto ci rende ancora più schiavi. Questo atteggiamento critico e pessimistico è stato adottato negli anni ottanta anche da alcune teoriche femministe riguardo alle nuove tecniche di riproduzione. L’antica e ingenuamente ottimistica opinione che vedeva queste tecnologie come strumento di liberazione della donna […] è stata quindi rifiutata e queste tecnologie sono state considerate uno strumento maschile di oppressione delle donne» (Charlesworth 1996: 71).
L’angolatura mette in evidenza un mercato capitalistico inclusivo del lavoro di riproduzione biologica e sociale della vita, il cui tassello viene ad essere costituito mediante la manipolazione della sfera procreativa, e corpo femminile e natura riproduttiva vengono considerate alla pari di una risorsa (Bianchi 2010: 19). Così, viene a profilarsi la negazione del corpo stesso e dell’autodeterminazione delle donne, della loro capacità riproduttiva, allorché, nella illusione di un senso di autonomia – tra l’altro, connesso alla scelta di prestare il proprio corpo al servizio della surrogazione – si produce di fatto la perdita della propria integrità fisica e della libertà riproduttiva, sottesa ad un incessante antropocentrismo economico, che cela la verità di una schiavitù corporea neo-coloniale nel significato di una malintesa forma decisionale.