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In nome del cous cous. La festa in un piatto

 

foto F.Marino

foto F.Marino

 di    Ninni Ravazza

Non riesco a credere (sperare) che un soldato israeliano e un fedayn palestinese faccia a faccia nei Territori si sorridano sol perché fra i due c’è un tavolo con un piatto di couscous. Anche il modo di prepararlo e condirlo li divide: grani grossi melanzana e pesce il primo, frumento spezzettato e grano integrale con ceci e piselli il secondo. Però i due, smessi i gradi e lasciate a casa le armi, si sono stretti la mano, a volte anche abbracciati, quando si sono ritrovati migliaia di chilometri a ponente della Striscia assieme agli chef di mezzo mondo davanti alla spiaggia di rena candida che li ha riuniti per una gara a tema: il Cous cous.

Da diciassette anni a San Vito lo Capo si celebra l’apoteosi di questa pietanza che credevamo patrimonio esclusivo del basso Mediterraneo e invece è conosciuta – e variamente apprezzata – anche in Brasile e Francia oltre che in diversi Paesi che il Maghreb divide dal Mare Nostrum. Sarebbe bello che fosse davvero il “piatto della pace”, come con un pizzico di demagogia è stato appellato dopo il confronto a suon di spezie di palestinesi e israeliani, ma certamente il cous cous è divenuto il piatto simbolo del dialogo culturale, del turismo gastronomico, della vacanza intelligente, della riscoperta dei colori e degli odori dell’autunno siciliano. Una grande kermesse che a San Vito lo Capo ha allungato la stagione turistica portandola a otto mesi abbondanti. Una festa che ha proiettato il paese tra le stelle del turismo internazionale. Il Cous cous Fest, ogni anno, l’ultima settimana di settembre: quando altrove si preparano i termosifoni qui si fa il bagno a mare e si passeggia sul corso addobbato come fosse ferragosto.

E sulla scia della festa poi arrivano gli scalatori che vengono da lontano e si inerpicano per le falesie improvvisamente scoperte per smaltire la semola condita col grasso pesce da brodo o con la coriacea carne di montone. E gli amanti del trekking che percorrono i sentieri delle riserve naturali che fanno da cornice al paese. E i subacquei che preferiscono le balze sottomarine di Punta Nera alle rocce coralline del Mar Rosso, perché qui l’acqua è altrettanto limpida ma non ci sono tensioni né scontri tra religioni.

foto F. Marino

foto F. Marino

Il cous cous è prima di tutto festa, incontro e confronto. Nei diciassette anni della manifestazione si sono sfidati a colpi di sughi colorati e aromatici gli chef che si affidano al solitario Maometto e quelli che pregano un Dio attorniato da mille santi. Gli unici sfregi sono i buchi nella pentola di terracotta che chiamano cuscusiera. Ma servono a far passare il vapore del brodo che insaporirà la semola raccolta in grumi da mani sapienti.Nei diciasette anni di Cous cous Fest si sono confrontati gli chef di: Italia (3 volte vincitore), Israele (3 vittorie) Palestina (1), Francia (2), Costa d’Avorio (2), Tunisia (4), Algeria (1), Marocco (1), Egitto, Stati Uniti d’America, Brasile, Senegal. Nell’ultima edizione i ticket per la degustazione venduti sono stati quasi 50mila. Sull’onda del successo del Cous Cous Fest San Vito lo Capo negli ultimi dodici anni ha registrato un aumento del 71% nel movimento turistico, raggiungendo le 600mila presenze e sopravanzando una meta storica del turismo siciliano, Cefalù.

Tutto nasce da un’intuizione verace di tanti anni fa, c’era ancora la lira e i villeggianti a fine agosto abbandonavano i luoghi del turismo. L’estate finiva con l’inizio di settembre. Perché non attirare qualche turista col piatto della nonna, quello che in famiglia si aspettava settimane, mesi, per ritrovarsi tutti insieme attorno alla tavola, e che nei pochi ristoranti che gli dedicavano il venerdì (giornata di magro, niente carne) andava a ruba? Una scommessa. Una sagra con poche bancarelle in piazza, i ristoratori a proporre il “loro” cous cous e un bicchiere di vino. Cinquecento porzioni, volate in pochissimi minuti. Stupore tra gli organizzatori e sconforto per i turisti rimasti a digiuno. L’anno successivo l’Amministrazione comunale scommette sull’iniziativa. E vince. Il cous cous distribuito per tre giorni va a ruba. Le pensioni e gli alberghi si riempiono di clienti, così come i ristoranti. La manifestazione cresce, la sagra si trasforma in evento. Un’agenzia di professionisti affianca il Comune nella organizzazione e gestione, e soprattutto nella pubblicizzazione. I sindaci si avvicendano ma tutti credono nel progetto. I giorni della festa diventano quattro, cinque, sei, poi si fanno precedere da una padellata di pesce azzurro pescato e mangiato per tre giorni interi, si crea un’anteprima (Preview) in giugno che richiama nuovi turisti, infine si arriva ai dieci giorni dieci di cibo, eccellenti concerti, dotti incontri culturali, dibattiti e conferenze del Cous Cous Fest 2014.

San Vito lo Capo viene additato (e invidiato) in tutta Europa quale esempio di turismo per tutte le età, grazie anche a un attento rispetto per il territorio; qui i dati sono in controtendenza rispetto al resto del Paese: i turisti aumentano di anno in anno, le strutture turistiche (alberghi, ristoranti) si moltiplicano e lavorano da marzo a novembre. A San Vito lo Capo gli ombrelloni in spiaggia resistono fin quando nelle pasticcerie viene esaurita la “martorana”, dolce tipico della Festa dei Morti in Sicilia.

.foto F. Marino

foto F. Marino

Qual è il segreto del cous cous? È un ottimo piatto, completo e gustoso, ma non basta questo a spiegarne il successo. Seguendo la strada della palma (Leonardo Sciascia abitava poco lontano da San Vito) ha raggiunto il nord e oggi si mangia del buon cous cous nei tanti locali più o meno “etnici” in tutta Italia (e anche di là delle Alpi). Il fatto è che qui il piatto è riuscito a far la festa, e non il contrario. Il cous cous non è il piatto del giorno di festa, ma trasforma in festa il giorno in cui si prepara. Ci vogliono ore per cucinarlo a dovere: la ‘ncocciata della semola (anche se oggi il precotto accorcia i tempi e dimezza il lavoro), la preparazione degli ingredienti, la cottura della zuppa di pesce o carne o verdure, la cottura a bagnomaria della semola insaporita dai vapori filtrati dalla cuscusiera, il “riposo” della pietanza in capaci recipienti bassi e svasati coperti da un plaid di lana, l’addobbo del piatto con spezie e condimenti multicolori prima del suo arrivo a tavola. Quattro o cinque ore di lavoro almeno. Le donne che si affaccendano ai fornelli. Impensabile prepararlo per un pranzo a due, quando si cucina il cous cous si invitano i parenti e gli amici, e la giornata si fa festa. Senza limitazioni di stagione: il pesce o la carne o le verdure si trovano tutto l’anno. Mangio il cous cous, dunque mi immergo nella festa. Migliaia di persone ogni anno  a San Vito si ritrovano a pranzo e cena gomito a gomito con sconosciuti che non vedranno mai più, ma che in quel momento condividono la medesima condizione festaiola. Chi non viene a San Vito lo Capo l’ultima settimana di settembre può vivere la stessa emozione in qualunque giorno dell’anno, perché qui il cous cous non manca mai. E la festa continua.

Dialoghi Mediterranei, n. 10, novembre 2014
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Ninni Ravazza, giornalista e autore di diversi volumi sul mare e la sua cultura, è stato per 14 anni il Presidente della Pro Loco di San Vito lo Capo, che ha organizzato col Comune il Cous Cous Fest. Nell’ambito della manifestazione ha tenuto diversi Laboratori del gusto dedicati all’antropologia della pesca e alla gastronomia tradizionale legata ai prodotti del mare siciliano. Ha scritto di salinari, di  tonnaroti e di corallari. L’ultima sua pubblicazione è dedicata al noto capitano d’industria Nino Castiglione, Il signore delle tonnare, fondatore della omonima ditta.

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