L’antropologo si trova oggi a confrontarsi con una realtà culturale, sistemica e globale, all’interno della quale si situano, nella loro diversità, culture specifiche e territorialmente localizzate; le quali, più che rafforzare l’isolamento, tendono a rivendicare il proprio diritto a partecipare alle dinamiche mondiali di confronto e di esercizio dei poteri decisionali. Dalla diversità delle culture emergono dunque, nella contemporaneità, voci che reclamano un ‘riconoscimento’ reciproco nell’ambito del sistema-mondo contemporaneo (Marcus 2009, 155-180).
In questo sistema-mondo l’antropologo deve ridefinire il proprio oggetto di studio tenendo conto di tali realtà storico-sociali di cui, tra l’altro, egli stesso fa parte. Due antropologi che, nonostante le reciproche differenze, hanno lavorato in questa direzione sono James Clifford e Marc Augé. A partire da questi due antropologi, nelle pagine seguenti verranno presi in considerazione alcuni aspetti relativi allo studio del mondo contemporaneo; ci si interrogherà, più particolarmente, sul ruolo specifico occupato dall’antropologo in seno alla cultura di appartenenza, sul concetto di cultura a cui egli fa riferimento e sull’oggetto stesso della ricerca.
L’antropologia del mondo contemporaneo mette l’accento soprattutto sul mutamento sociale determinato dai molteplici processi di contatto, conflitto e sincretismo (quali ad esempio i movimenti diasporici, di esilio e di immigrazione), cioè su tutti quei contesti culturali complessi nei quali il dialogo e il confronto procedono secondo logiche di potere e/o di condivisione. A tal proposito, il lavoro di Clifford sui contesti storico-culturali del Pacifico – che egli definisce «siti articolati di indigenismo» – fornisce un contributo utile a delineare «una versione storicamente densa, non riduttiva, di politica culturale transnazionale» (Clifford, 2004: 77). L’approccio alla ‘transnazionalità’ delle culture serve ad interpretare proprio le dinamiche di globalizzazione a livello mondiale, in una prospettiva ampia e dislocata:
«Le risorse e i risultati delle articolazioni culturali e politiche, spesso in modo riduttivo definite ‘politica dell’identità’, sono storicamente composite e dinamiche a livello locale e regionale. […]. Poiché la decolonizzazione giunge nel Pacifico quando la sovranità è un concetto sempre più ambiguo e contestato, assistiamo all’emergere di forme diverse di identità nazionale, di nuovi tipi di negoziazioni tra il locale, il regionale, il nazionale e il globale. In questa luce, potrebbe risultare illuminante confrontare le questioni di regionalismo e di sovranità nel Pacifico con le stesse problematiche nell’Unione Europea – senza ricorrere alle nozioni di margine e centro, di retrogrado e avanzato» (Clifford, 2004: 83-84).
Tale approccio consente di creare un ponte dialogico nel discorso antropologico che attenua le antinomie noi/loro, vicino/lontano, dentro/fuori. Infatti se, da una parte, l’antropologia del rimpatrio rivolge uno sguardo attento al cambiamento sociale tout court, dall’altra cerca di ridefinire il concetto di alterità nelle relazioni spazio-temporali del mondo odierno smorzando le classiche dicotomie del passato. Il primo passo da compiere in questa direzione era quello di disancorare il proprio oggetto di studio dal concetto di ‘primitivo esotico’. D’altronde, cosa è il ‘primitivo’? Il concetto di Altro non coincide necessariamente con i concetti di ‘indigeno’, ‘esotico’, ‘orientale’ o ‘primitivo’. Si tratta, come ribadisce sovente Clifford nei suoi studi, di concetti storicamente connotati, di volta in volta utilizzati con fini diversi nel confronto interculturale, in funzione delle specifiche zone di contatto o dislocazione.
Le riflessioni di Clifford tengono conto dei nuovi paradigmi relativi ai contesti translocali di frontiera, di zone di contatto, di residenza e dislocazione. Il suo interesse per i musei tribali e i luoghi di performance culturale lo portano a investirsi in prima persona, con la sua esperienza personale, in contesti diversificati nei quali emerge, in maniera esemplificativa, il discorso di interconnessa dialogicità fra culture, spazi, etnicità e identità. Le esposizioni e i musei visitati dall’antropologo sono dislocati in luoghi diversi e lontani: Nuova Guinea, Canada, Parigi, Londra e New York. Si rilevano, così, due fronti: all’azione di mercificazione capitalistica del tribale fa da contrappunto, intrinseco all’istituzione stessa di collezione ed esposizione culturale, la manifestazione emergente dei processi storici di tradizione e innovazione ridefiniti in termini di ibridismo, localismo e autenticità.
Riflettendo su tali questioni, Clifford contribuisce personalmente al dibattito con la nozione di ‘articolazione’:
«Articolazione è il connettere e disconnettere politico, il collegare e scollegare gli elementi – la concezione secondo la quale ciascun insieme socio-culturale che si presenta a noi come un nucleo intero è in realtà una sequenza di connessioni e disconnessioni storiche»(Clifford, 2004: 50).
Tale discorso non è riferibile soltanto a contesti non occidentali; anzi, tutt’altro, come chiarisce in Strade:
«La regione che chiamiamo Europa è stata infatti costantemente rimodellata e attraversata da influenze originatesi al di là delle sue frontiere […]. Praticamente ovunque si volga lo sguardo, si scorgono all’opera processi umani di movimento e d’incontro complessi e di antica data. I centri culturali, le regioni e i territori precisamente delimitati non esistono prima dei contatti, ma di essi si nutrono, appropriandosi e disciplinando gli incessanti movimenti delle persone e delle cose» (Clifford, 2008: 9-10).
Queste affermazioni di Clifford mostrano manifestamente quella che è una tendenza generale dell’antropologia del rimpatrio: l’antropologo studia l’Altro anche per conoscere se stesso. L’Altro è in definitiva un’entità molteplice, è nell’‘altrove’ in senso proprio e metaforico, ma è anche ‘in casa propria’. I due aspetti non sono antinomici, bensì complementari: se l’antropologo si reca in un Paese lontano, l’Altro si definisce nelle pratiche di una cultura che il ricercatore ri-conosce come diversa-altra; se l’antropologo è un nativo, l’Altro è ugualmente presente, soggetto interazionale in campo, è colui che condivide il sistema culturale di riferimento dello studioso ricercatore ed è anche, come in contesti interetnici, colui che attiva il confronto e il dialogo fra culture nella condivisione delle pratiche di vita quotidiana.
Tale prospettiva, in cui insider ed outsider si mescolano variamente, non esclude l’elaborazione di testi etnografici di autori contemporanei che rivalutano la dimensione intra-soggettiva dei soggetti (individuali e collettivi) sul campo: non si rinuncia ovviamente alla riflessione critica su regole più generali, categorie concettuali e strumenti teorici utili alla spiegazione e comprensione delle culture, ma si tiene pure conto di ciò che di primo acchito pare più ordinario e sfuggente quale il vissuto personale, la vita quotidiana, l’interazione con i propri sensi e pensieri. Una serie di ‘incontri’ usuali con i lavavetri in città, ad esempio, può divenire oggetto di analisi antropologica deautomatizzante: in questo senso, un contesto urbano localizzato si traduce in un sistema semantico testuale nel quale a diversi livelli discorsivi di generazione del testo enunciato si collocano le pratiche di vita quotidiana (configurate in vari posizionamenti agentivi dei soggetti in campo), il confronto interculturale in termini di traduzione fra sistemi culturali di riferimento diversi, il riferimento a concetti classici e meno classici dell’antropologia quali ‘dono’, ‘cultura’, ‘campo’ e ‘fuori campo’ (Montes, 2014a e 2014b).
Il presupposto più generale è che l’appartenenza dell’antropologo alla cultura che egli studia produce un effetto specifico: quello di «ridefinire le condizioni della rappresentatività» dell’alterità intesa come “individualità di sintesi” all’interno e all’esterno del sistema culturale moderno (Augé). Nel caso dell’antropologia del rimpatrio, il posizionamento del ricercatore non implica una identificazione totale dell’etnologo con il proprio oggetto di studio. Semmai, l’esperienza personale, in quanto esperienza individuale diretta, diventa una vera e propria strategia epistemologica di ricerca. L’espressione “strategia epistemologica” viene utilizzata da Schramm per definire la metodologia di ricerca che si è resa necessaria durante la sua ricerca nel Ghana, nel contesto commemorativo dei pellegrinaggi degli afro-americani nei Paesi di origine. La presenza dell’antropologa è stata motivo di serrato confronto fra culture e storie. La strategia epistemologica di cui parla Schramm si riferisce al posizionamento non solo fisico, ma, anche e soprattutto, simbolico e culturale dell’antropologa, la quale, essendo americana di razza bianca, in quel contesto etnografico, era un soggetto appartenente alla cultura dominante (Schramm, 2009: 181 e sgg). Di conseguenza, nel campo delle scienze umane, si delinea un rinnovato rapporto fra pratica etnografica e riflessione antropologica, le quali si ritrovano ad agire su uno stesso livello discorsivo.
Un elemento importante, fra tanti altri, è la ridefinizione dell’oggetto di studio: il ricercatore studia se stesso o il suo più ampio sistema culturale in quanto ‘dato’ osservabile? Attraverso quali processi di ricerca ˗ l’osservazione e la descrizione, la spiegazione o l’interpretazione ˗ è possibile oggettivare il soggetto osservante? Si può tentare di rispondere a tali quesiti prendendo in considerazione le questioni poste da prospettive diverse. Mentre nel caso dell’antropologia dei mondi lontani si attivano processi di traduzione da un sistema culturale a un altro attraverso il confronto più oggettivato di somiglianze e differenze, nel caso dell’antropologia del rimpatrio il ricercatore procede con fare autoriflessivo, ponendo se stesso come soggetto focale rappresentativo e avviando un confronto stretto fra individuo e collettività, fra soggetto e oggetto, all’interno dello stesso sistema culturale di appartenenza.
In altri termini, se nell’antropologia del lontano si determina il dialogo nello spazio metaforico dettato dalle opposizioni dentro/fuori e vicino/lontano, nel caso del rimpatrio si assiste ad un cortocircuito di queste categorie e alla focalizzazione più specifica sul semantismo di base soggettivazione/ oggettivazione. Dialogo e auto-riflessione, di conseguenza, diventano due facce complementari e simultanee del discorso antropologico del rimpatrio. All’interno del quale non si verifica chiusura o il ripiegarsi della ricerca su tratti ‘psicologizzanti’ perché la dimensione soggettiva dell’antropologo diventa invece essa stessa parte del processo di generalizzazione. Per l’antropologo, la generalizzazione è una strategia imprescindibile di studio e conoscenza che va dal particolare al generale, dal micro al macro. Un esempio utile a comprendere tale ‘strategia di ricerca’ è l’esperienza di Augé nel metrò di Parigi. In particolare le problematiche implicite nel fare antropologia della modernità emergono nella “Prefazione alla nuova edizione italiana” del 2010 di Un etnologo nel metrò:
«Ebbene, nel metrò, che frequentavo fin dalla mia più tenera infanzia, ero un indigeno come un altro; solo che questo indigeno era un etnologo e mi veniva quindi offerta l’occasione di praticare una sorta di autoanalisi etnologica. […] Da una parte, l’indigeno che interrogavo in me parlava del metro, di ciò che ci vedeva allora; tale osservazione era quindi datata ed è per questa ragione che, recentemente, ho avuto il desiderio di attualizzarla per rendere conto di quello che era cambiato nel metrò, nella città e anche più in là nel mondo che ci circonda […]. Oggi il contesto si è nello stesso tempo ampliato (globalizzato) e interiorizzato (grazie all’intervento delle tecnologie della comunicazione). Tanto che lo sguardo dell’etnologo deve prima di tutto rivolgersi al contesto stesso perché ci sia almeno una possibilità di capire a quale tipo di relazioni deve e può interessarsi» (Augé, 2010: 25-26).
Come si evince dal testo, il ricercatore interpreta il lavoro etnografico come autoanalisi attuata in contesti culturali e spazi specifici (Disneyland, il metrò, le case di campagna, la spiaggia, etc.) in rapporto ad un sistema di ricerca disciplinare e presenta se stesso come indigeno e informatore di se stesso, osservatore e osservato. Le affermazioni di Augé aiutano a definire l’antropologia del rimpatrio come una forma particolare di osservazione partecipante in cui il movimento nello spazio culturale della modernità ha un esito al contempo agentivo e autoriflessivo; nel caso specifico di Augé si tratta non tanto di partecipazione osservante quanto di presenza osservante condotta attraverso l’esperienza personale dell’antropologo. Augé propone un fare etnologia che tiene conto sia del contesto sia del soggetto, in una direzione che include però l’individualità e la localizzazione del micro-contesto sociale, al fine di un loro superamento: in questo caso, dal metrò alla città e dalla città al mondo. La complessità della dimensione soggettiva messa in gioco è dimostrata dal fatto che Augé ritorna più volte a parlare soprattutto del metrò, un luogo per eccellenza problematico della vita in città. L’evolversi della sua esperienza professionale è esempio di meta-discorso disciplinare sia a livello epistemologico che a livello metodologico come accade nel caso del procedimento di oggettivazione del soggetto del quale la sua esperienza sul campo diventa esempio concreto.
Un altro aspetto importante che emerge dal testo citato riguarda la dimensione temporale della pratica etnografica. La ricerca sul campo è sempre un’esperienza ‘datata’ (come dice Augé) nel tempo e localizzata nello spazio interazionale della ricerca. In questo senso, alcune considerazioni importanti riguardano proprio il momento della scrittura e della testualizzazione dell’esperienza etnografica rimpatriata che assume la funzione di azione sociale, a tutti gli effetti, agita in un contesto disciplinare istituzionalizzato, quello dell’antropologia.
In Un etnologo nel metrò, Augé riesce con fine abilità narrativa ad esprimere la pluralità dei punti di vista relativi al posizionamento del ricercatore in campo. La voce narrante del primo capitolo di Un etnologo nel metrò è un viaggiatore nel metrò che agisce in maniera riflessiva nello spazio e nel tempo dell’azione e dei ricordi. Gli itinerari delle linee del metrò procedono, a livello simbolico, in senso parallelo, come linee di vita quotidiana. Il metrò è come una metafora della vita: la mappa dei percorsi agisce da guida ai ricordi personali. Attraverso il luogo, la memoria collettiva agisce sull’agente individuale, il quale riconosce e riscrive il luogo nel presente personale e relazionale. Ad esempio, i nomi storici delle linee della metropolitana parigina agiscono in maniera performativa a livello di immaginario collettivo. In tal senso, si potrebbe dire che l’agire sul campo di un antropologo del rimpatrio è un agire evocativo, un modo per guardare al presente creando un ponte con il passato attraverso il richiamo della memoria. I ricordi sono immagini di emozioni e azioni, sono sequenze reinterpretative di eventi sociali. Il passato individuale viene ricontestualizzato e reinterpretato alla luce di un sistema esperienziale e relazionale collettivo che si configura nel presente dell’osservazione sul campo. La sintesi fra passato e presente, azione e performatività, intenzionalità, orientamento e direzionalità delle azioni prende forma come agency dei soggetti in campo e non è insita o inscritta unicamente nel luogo. Tale sintesi è un processo simbolico ‘agito’ in maniera più o meno consapevole dal sistema di background personale. È in questo gioco di individualità singole che emerge il senso di implicita appartenenza a un contesto collettivo.
Così facendo, la voce dell’antropologo acquista autorità non perché attribuisce a se stesso il diritto di descrivere l’altro e di interpretare la diversità da un punto di vista etnocentrico, ma perché include se stesso nel processo di oggettivazione in corso. L’antropologo, infatti, agisce all’interno dei sistemi simbolici riconosciuti e condivisi dalla propria comunità, culturale e sociale, nella quale agiscono anche le istituzioni e i colleghi del proprio ambito scientifico di riferimento. La dissoluzione di una frontiera troppo rigida tra il soggetto e l’oggetto è proprio una delle chiavi di volta dell’antropologia del rimpatrio.
Un tentativo di superamento di alcune ‘frontiere’ (in questo caso teoriche, discorsive e disciplinari) è la pubblicazione di Strade di Clifford, il quale inserisce all’interno del libro contributi di vario genere testuale come, scrittura di viaggio, collage poetico e saggi dal registro più documentario e scientifico, redatti per diversificati contesti di ricerca e di ricezione. Il suo intento è dimostrare come
«Il discorso accademico – un insieme di convenzioni in via di evoluzione i cui vincoli io rispetto – condensa processi di pensiero e di sentimento che è possibile provare a manifestare in una varietà di forme differenti» (Clifford, 2008: 19).
Quello compiuto da Clifford è un passo importante che mi consente di accennare, qui en passant, all’aspetto più specifico, ma spesso trascurato, relativo al processo di inferenza nelle dinamiche di codifica e decodifica, di produzione e ricezione dei testi, in relazione al concetto di cultura e dal punto di vista della condivisione delle rappresentazioni delle azioni sociali. I processi di produzione andrebbero infatti sempre visti in concomitanza di processi di ricezione.
Analizzando un testo di Augé (L’impossible voyage), Montes mette in evidenza le relazioni ineludibili fra teoria della ricezione e teoria della produzione culturale, teoria antropologica e pratica etnografica, esperienza vissuta in prima persona e necessaria oggettivazione, testo letterario e narrazione antropologica:
«His theory is also a form of literature in which one of the main aspects is also the writing of the self and the reflection on his own cultural background. […] reflecting on antropology from this perspective offers a different conception of sameness/otherness and reception theory. […]. Furthermore, associating the history of a discipline such as antropology and the corresponding textual forms can be a powerful means to explain epistemological paradigms of epochs and to see new possible ways of defining Otherness and the nature of literature itself »(Montes, 2006: 260).
Si mostra, in questa prospettiva, quanto e come i nuclei fondanti l’impianto epistemologico delle discipline siano interrelati alle dinamiche di testualizzazione dell’esperienza di campo. I testi che ne risultano sono esito di dialogo e negoziazione di significati in rapporto a sistemi semiotici condivisi all’interno di contesti culturali collettivi e storicizzati.
In conclusione, per quanto difficile sia in poche righe, è possibile definire l’esperienza etnografica nei contesti della contemporaneità in termini di posizionamento del ricercatore rispetto a sistemi di pratiche negoziati nel tempo e nello spazio. In questo senso, gli esempi di Augé e di Clifford, qui presi in considerazione, sono allo stesso tempo diversi e complementari: Augé porta avanti la riflessione meta-disciplinare in veste di ‘antropologo nativo’, mentre Clifford, dal suo posizionamento di storico critico della cultura, definisce il suo lavoro di ricerca in termini di incontri, dialogo e traduzione. Rimpatriare l’antropologia, non vuol dire, per nessuno dei due studiosi, conoscere il già conosciuto attraverso un’esperienza etnografica esclusivamente soggettiva e privata! I due antropologi cercano, semmai, ognuno a suo modo, di smussare la dicotomia tra individuale e collettivo. Ma, come si è visto, non è tutto. Fra le potenzialità del ‘fare’ antropologia del mondo contemporaneo è possibile inoltre inscrivere il superamento dell’antinomia locale-globale, così come quella speculare di interno ed esterno. L’antropologo dei mondi contemporanei privilegia, giustamente, un posizionamento dinamico del soggetto volto a cogliere le interconnessioni fra le realtà locali e la dimensione transnazionale dei processi relazionali fra le complesse entità culturali e sociali.
Dialoghi Mediterranei, n. 10, novembre 2014
Riferimenti bibliografici
Augé M., Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina, Milano, 2009, (ed. or. 2008)
Augé M., Un etnologo nel metrò, Elèuthera, Milano, 2010, (ed. or. 1986)
Clifford J., Ai margini dell’antropologia. Interviste, Meltemi, Roma, 2004, (ed. or. 2003)
Clifford J., Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, (ed. or. 1997)
Clifford J., Marcus G. E., Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma, 2001, (ed. or. 1986)
Marcus G. E., “L’etnografia nel/del sistema-mondo. L’affermarsi dell’etnografia multi-situata”, in Cappelletto F., Vivere l’etnografia, SEID, Firenze, 2009
Montes S., “Is intra-reception possible? The literatures of anthropologists, Marc Augé and otherness”, in Interlitteraria, 11, vol. I, University of Tartu, Tartu, 2006
Montes S., “Voi, lavavetri a Palermo. Una riflessione antropologica”, in Dialoghi Mediterranei, n. 8, luglio 2014a
Montes S., “Una incursione fotografica ‘sul campo’ e l’antropologia ‘fuori campo’”, in Dialoghi Mediterranei, n. 9, settembre 2014b
Schramm K., “Voi ce l’avete, la vostra storia. Giù le mani dalla nostra! Dell’essere respinti sul campo”, in Cappelletto F., Vivere l’etnografia, SEID, Firenze, 2009
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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e ai processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, istituiti nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza e ai contesti urbani e di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.
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