Lavoro da dieci anni, a Palermo, in qualità di antropologa ed educatrice con minori stranieri non accompagnati. Non è un lavoro semplice. Lavorare con minori stranieri significa entrare in contatto con ragazzi soli, sostanzialmente abbandonati o fuggiti dal loro paese di origine per varie ragioni. I minori stranieri non accompagnati sono quei soggetti che si trovano in Italia privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. Oltre ai minori completamente soli, dunque, rientrano in tale definizione anche i minori che vivono con adulti diversi dai genitori che non ne siano tutori o affidatari in base a un provvedimento formale.
I minori stranieri, anche se entrati irregolarmente in Italia, sono titolari dei diritti sanciti nel 1989 dalla Convenzione di New York sul fanciullo, ratificata in Italia e resa esecutiva con legge n. 176/91. La Convenzione stabilisce che, in tutte le decisioni riguardanti i minori, deve essere considerato preminente il superiore interesse del minore (principio del “superiore interesse del minore”) e che i diritti da essa sanciti devono essere applicati a tutti i minori senza discriminazioni (principio di “non discriminazione”). La Convenzione riconosce poi, a tutti i minori, un’ampia serie di diritti tra cui il diritto alla protezione, alla salute, all’istruzione, all’unità familiare, alla tutela dallo sfruttamento, alla partecipazione.
Detto questo, appare tuttavia chiaro quanto sia difficile applicare concretamente questi inviolabili princìpi. Infatti, il fenomeno è estremamente complesso sia per le difficoltà di identificazione formale della figura dei minori stranieri non accompagnati sia per le difficoltà di quantificazione delle presenze di questi minori per lo più clandestini. All’interno di questo quadro generale possono comunque ritagliarsi tre elementi più specifici: l’essere minori (quindi soggetti vulnerabili), l’essere lontani dai propri adulti e la dislocazione, da stranieri, in un altro Paese.
La casa svolge un ruolo essenziale in questo contesto. Prima ancora dei traumi subìti in patria o durante il viaggio, la perdita della casa è un tratto che accomuna tutti gli immigrati. Non è inutile precisare che la casa va intesa non solo come luogo in sé ma, soprattutto, come fascio di sentimenti e relazioni. Il concetto di casa si carica, di fatto, di significati soggettivi che appartengono a un vissuto, a una storia personale e a figure ben delineate della propria vita. La casa è in definitiva il nostro primo universo esistenziale, individualmente esperito. Tuttavia, nella rete dei significati condivisi, essendo la casa un bisogno primordiale dell’uomo (dalle caverne fino ad arrivare alle costruzioni moderne), legata a un’originaria funzione dell’abitare, essa si carica di significati non più soltanto soggettivi, bensì anche collettivi. La casa, cioè, diventa un vero e proprio simbolo. Esaminata in rapporto agli orizzonti teorici più vari (per es. la psicologia del profondo, la psicoanalisi, la fenomenologia, ecc.), l’immagine della casa pare diventare la topografia del nostro essere più intimo (Bachelard, 2006). Anche nell’immaginario letterario e poetico, la casa si configura sovente come spazio privilegiato per narrazioni legate alla sfera intima dell’essere umano. E, nelle rivendicazioni sociali, essa acquisisce un peso di rilievo.
Si può dunque immaginare quanto il tema dell’abitare possa essere importante sul piano psicofisico per questa specifica categoria di migranti, i quali, invece, si ritrovano spesso a muoversi fra strutture diverse, perdendo punti di riferimento importanti non soltanto in termini spaziali ma anche relazionali. La prima accoglienza si configura non solo come luogo di riparo e di soluzione delle emergenze, ma anche come “base sicura” grazie alla quale il minore può sentirsi accolto e costruire un senso di fiducia verso l’ambiente esterno. Le comunità di pronta accoglienza offrono un servizio che, temporaneamente e in attesa di soluzioni più adeguate, garantisce al minore il soddisfacimento dei suoi bisogni primari e al contempo si attiva per individuare risposte efficaci ai suoi bisogni evolutivi. Il progetto di assistenza, anche se breve, intende offrire al minore un sostegno sul piano affettivo, educativo e relazionale affinché possa sperimentare un ambiente positivo di sicurezza. Se, trascorso il periodo di pronta accoglienza, non vengono identificati i parenti del minore o connazionali a cui affidarlo e se non viene emesso un provvedimento di rimpatrio assistito, si provvede ad inserire il minore in una struttura di seconda accoglienza, idonea alle necessità del soggetto, strutturando un progetto educativo individualizzato.
In passato, la demarcazione fra strutture di prima e seconda accoglienza era molto più distinta; nel corso degli ultimi anni, sono stati molti i responsabili di strutture di seconda accoglienza che hanno deciso di ricoprire un ruolo attivo nella gestione delle emergenze e della pronta accoglienza a causa dei massicci sbarchi avvenuti in Sicilia con un’imponente presenza di minori di entrambi i sessi. Tra le tipologie di servizi, il Gruppo Appartamento si configura come luogo di civile abitazione – non dissimile strutturalmente da una qualsiasi casa privata – finalizzato alla realizzazione di contesti di convivenza necessari al recupero di competenze relazionali e sociali utili a promuovere l’autonomia del soggetto. Si tratta di un servizio residenziale che accoglie i giovani, sia stranieri sia italiani, vicini alla maggiore età o già maggiorenni (se espressamente autorizzato con un provvedimento di misura rieducativa emesso dal Tribunale per i minorenni territorialmente competente) che necessitano di essere guidati e sostenuti in un processo di progressiva autonomia, con lo specifico obiettivo di favorire l’indipendenza del soggetto.
La realtà relativa ai Gruppi Appartamento è piuttosto recente all’interno del sistema complessivo delle politiche sociali rivolte ai minori stranieri non accompagnati [1]. In molte città, da diversi anni, rientra l’attivazione di progetti-ponte per l’inserimento abitativo e lavorativo dei ragazzi che stanno per diventare maggiorenni. Tendenzialmente, prevalgono le convenzioni dei Comuni con il privato sociale per la gestione di Gruppi Appartamento o di progetti di semi-autonomia o per le case di autonomia. Si tratta di strutture che hanno la funzione di porsi in funzione intermedia tra la comunità alloggio o il Gruppo Appartamento e il domicilio autonomo al fine di rafforzare nei giovani l’acquisizione di autonomia e di garantire un sostegno ai percorsi di inserimento. Vi sono poi casi in cui il Comune individua un domicilio post-diciotto anni, a seconda delle esigenze del ragazzo, e casi in cui il privato sociale si attiva autonomamente con altre fonti di finanziamento. Si tratta sostanzialmente di un argomento nuovo, su cui non sono ancora state fatte esaurienti ricerche di stampo socio-antropologico.
Perché, dunque, utilizzare la nozione antropologica di “rito di passaggio” per delineare questa categoria di strutture in relazione ai minori stranieri non accompagnati? Dal mio punto di vista l’utilizzo di questo concetto è efficace ai fini di una comprensione più profonda delle esigenze di cui sono portatori i minori stranieri non accompagnati e di un miglioramento del servizio stesso. Ma cosa si intende esattamente per “rito di passaggio”? È noto che la nozione di “rito di passaggio” nasce in ambito antropologico grazie al contributo del folklorista francese Arnold Van Gennep, pioniere nello studio delle forme sociali dei riti. Egli individua una comune struttura tripartita in quelli che denomina “riti di passaggio”, riguardanti momenti della vita di singoli individui o di una comunità nel suo complesso, in cui avvengono dei mutamenti socialmente significativi. Egli vi coglie tre fasi. La prima, “di separazione”, toglie all’individuo o al gruppo lo status precedente. Nella seconda, “di margine”, i soggetti sono in uno stato di crisi, avendo perduto la precedente identità sociale e non avendone ancora ricevuta una nuova. La terza fase, detta “di aggregazione o riaggregazione”, fornisce ai soggetti un nuovo status, con i diritti e le obbligazioni corrispondenti, e li reinserisce nella società. L’idea innovativa è la seguente: studiare i fatti in successione entro la loro sequenza, non isolati nel disordine apparente delle usanze, passati al vaglio di ciascun cerimoniale. La teoria dei riti di passaggio è rivoluzionaria perché, pur insistendo sull’etnografia delle forme, non ne fa tuttavia un principio classificatorio; al di là della molteplicità delle forme, si ritrova, espressa consapevolmente o potenzialmente, una sequenza-tipo: ‘lo schema dei riti di passaggio’. Van Gennep rifiuta di individuare a priori delle funzioni; laddove le società sono caratterizzate dalla discontinuità, il rito di passaggio cerca di ricomporre l’ordine sociale, rimesso in discussione a ogni nuova tappa del ciclo biologico umano. Egli collega il funzionamento dei riti alla loro utilità sociale. Il rito sembra efficace non per ciò che esprime e significa, ma perché opera un cambiamento reale. Da allora, gli etnologi si riferiscono a Van Gennep nell’affrontare il tema del rito, più spesso quello specifico dell’iniziazione.
I periodi di margine sono talvolta così importanti da acquisire una propria autonomia. Delle tre tappe identificate da Van Gennep (separazione, margine, aggregazione), la fase che si riferisce al margine, alla transizione, alla zona intermedia fra separazione e ri-aggregazione, sembra particolarmente ricca. Lo stesso Van Gennep afferma: «La situazione di margine non si figura più soltanto come l’elemento intermedio di un rito di passaggio, ma appare come uno stato rispetto a cui esistono riti preliminari, liminari e post liminari». Dunque, in alcuni casi, la fase di marginalità può essere costituita da diversi riti di passaggio che insieme, per l’appunto, contribuiscono ad un cambiamento di status per il soggetto che ne è partecipe.
Sulla base della mia esperienza e della mia ricerca, ritengo di potere identificare il Gruppo Appartamento come un vero e proprio rito di passaggio per i minori stranieri non accompagnati, volendo essere per loro una concreta opportunità per imparare a “vivere da soli”, con la presenza di altri coetanei in contesti di normalità abitativa, riuscendo a gestire studio, lavoro e spese personali. L’obiettivo è quello di sostenere questi ragazzi nel cammino verso l’acquisizione di un’autonomia sociale ed economica, attraverso la condivisione di un ambiente familiare nel quale sperimentare un modello di responsabilizzazione e di crescita personale. In un’ottica generale, dunque, il gruppo appartamento si configura come un “rito di passaggio” costituito da tre fasi:
- Inserimento – “Fase di aggregazione”
- Permanenza – “Fase di margine”
- Uscita – “Fase di separazione”
La sequenza delle fasi che costituiscono il rito di passaggio (così come vengono indicate da Van Gennep) è qui, in questa sede, capovolta. Il minore straniero che è arrivato sul territorio italiano, infatti, ha abbandonato la propria terra di origine (fase di separazione), ha affrontato un viaggio (fase di margine) ed è approdato in una terra straniera (fase di aggregazione). Una volta giunto a destinazione il minore straniero non accompagnato, privo spesso di documenti di identità e degli strumenti indispensabili per vivere nella nostra società, entrato nella maggioranza dei casi illegalmente, viene preso in carico dai servizi territoriali ed inizia un percorso di integrazione sociale.
L’ingresso nella casa equivale ad un cambiamento di status per il giovane, non più solo e abbandonato, privo di familiari e di mezzi di sostentamento, ma sottoposto ad una tutela e a una protezione sociale riconosciuti dallo Stato; a un livello sociale ed istituzionale, il ragazzo trova un posto nella società, diventa “visibile”. La disposizione dell’affidamento e l’apertura della tutela hanno, infatti, importanti conseguenze rispetto all’ottenimento del permesso di soggiorno e alla possibilità per il minore di presentare ricorsi. L’inserimento è un vero e proprio rito di ingresso nella casa scandito da numerosi momenti, atti, che si sono nel tempo sempre più definiti e stereotipati. Dopo aver varcato la soglia della casa (la porta come frontiera), primo ingresso simbolico nella casa, vi sono dei momenti fortemente ritualizzati: la conversazione in presenza del mediatore – linguistico e culturale – e dell’assistente sociale in cui viene letto e firmato il regolamento, l’assegnazione della stanza (con il relativo letto e tutti gli spazi personali annessi: armadio, cassetto, comodino), la consegna del materiale di prima necessità e la presa visione del vestiario che è posseduto dal nuovo utente con una mini programmazione delle cose necessarie nell’immediato. Una volta dentro, la casa diventa il simbolo di un nuovo status per il giovane: casa come protezione, come spazio familiare, come luogo in cui radicarsi per una nuova vita. Il senso di radicamento sarà per il ragazzo un processo lungo e dipendente, comunque, da numerose variabili.
La permanenza è la fase in cui avviene il lungo processo di apprendimento, per stadi e finalità, che porterà ad una trasformazione dell’utente in termini di immagine personale e sociale. Il progetto educativo individualizzato (P.E.I.) si suddivide per aree e per obiettivi a breve, medio e lungo termine. Ognuno di questi obiettivi risulta essere contrassegnato da momenti diversamente ritualizzati. Ad esempio, l’ottenimento del diploma di terza media risulta essere frutto di un esame finale in cui il ragazzo riceve dalla scuola, in quanto istituzione, un documento che ne cambia lo status: viene certificata la scolarizzazione. E questa certificazione ha, ovviamente, numerose ricadute sul piano sociale e di immagine di sé (il ragazzo può ad esempio partecipare a tutti i concorsi in cui è necessario il possesso del diploma della scuola media inferiore). Un altro esempio deriva dalle pratiche che devono essere svolte per l’ottenimento del permesso di soggiorno. Esse sono caratterizzate da diverse fasi: richiesta del permesso di soggiorno, l’identificazione all’interno dell’ufficio immigrazione della Questura di Palermo e il ritiro del documento presso la medesima struttura. Anche in questo caso il cambiamento di status risulta abbastanza evidente: da clandestino il ragazzo diventa regolare. Tuttavia, una certa ritualità caratterizza anche il quotidiano. In particolare, la vita in comunità organizzata secondo regole e routine, configurandosi come ripetitiva e quindi prevedibile, risulta rassicurante per i minori stranieri poiché consente loro di negoziare e condividere i significati propri del contesto in cui si trovano a vivere.
È necessario, a questo riguardo, aprire una parentesi sulla questione del rito e ribadire il fatto che, negli anni, la forma ed il contenuto del rito si sono emancipati dalla dimensione religiosa, alla quale per moltissimo tempo sono stati connessi; pertanto, il rito è stato riconosciuto come forma generale di espressione della società e della cultura, acquisendo una forte indipendenza come oggetto sociale.
Così, negli ultimi decenni il moltiplicarsi dei terreni di ricerca, l’aprirsi dell’etnologia alle società moderne hanno orientato il rito verso aspetti più profani e talvolta meno collettivi. Molti sono gli autori che hanno concentrato la loro attenzione sulla ritualità più profana o, addirittura, del quotidiano. Cito, giusto per fare alcuni esempi: E. Goffman, M. De Certeau, M. Segalen e C. Rivière. Al di là delle diverse concettualizzazioni, rimane invariata una delle caratteristiche cardine del rito, ovvero: la sua plasticità, la capacità che gli appartiene di essere polisemico, di adattarsi al mutamento sociale. Inoltre, i punti sui quali gli autori concordano, indipendentemente dalle loro posizioni iniziali, sono i seguenti: il rito come sequenza temporale di azioni, come insieme di ruoli, come struttura teologica dei valori, come mezzi simbolici in relazione ai fini da realizzare e come sistema di comunicazione. Tutti questi elementi sono presenti all’interno del microcosmo definito Gruppo Appartamento.
L’uscita dalla casa è un momento cruciale per l’individuo poiché corrisponde ad un cambiamento di status più profondo: non soltanto “non più straniero ma immigrato del Paese ospitante”, ma individuo capace di vivere nella legalità. Una volta uscito dalla struttura, con documenti validi ed un bagaglio di strumenti utili per la vita di tutti i giorni (soldi compresi), l’individuo sente di potere partecipare alla vita della società, pur non potendo godere di tutti i diritti derivanti dall’accesso diretto alla cittadinanza.
L’obiettivo che le istituzioni si pongono, dunque, a un livello generale, è l’assistenza e il sostegno per il raggiungimento di una piena autonomia e di una buona integrazione nel tessuto sociale, economico e culturale. Anche maggiorenni, i giovani riscontrano difficoltà rispetto ad un inserimento nel contesto socio-urbano che sia adeguato alle loro possibilità economiche e che rientri nel pieno della legalità; anche alla fine di questo percorso, la piena autonomia si configura più come un “passaggio” che come un arrivo. Il grado di indipendenza raggiunto cambia per ogni individuo. Tuttavia, ognuno con le proprie peculiarità, l’individuo che esce dalla struttura ha imparato a “vivere da solo” senza il sostegno né l’intervento dei servizi sociali e possiede un’identità riconosciuta nel territorio entro cui è inserito. Si potrebbe dire che la struttura contribuisce a rimodellare l’identità dell’individuo in un nuovo contesto.
L’identità è uno dei perni attorno a cui ruota il concetto di rito di passaggio. La perdita e il raggiungimento di un nuovo status corrisponde anche all’acquisizione di una nuova immagine personale e sociale. E per un minore straniero non accompagnato questo significa non soltanto riuscire ad ottenere un permesso di soggiorno regolare (tassello imprescindibile del percorso evolutivo) ma anche costruire un’immagine positiva di sé pienamente riconosciuta all’esterno. Tuttavia, il concetto di identità è in sé ambiguo, benché di antica matrice. Credo che la prospettiva relativa al rito di passaggio consenta di inquadrarlo meglio e in maniera meno sfuggente.
Mentre, in passato, gli stranieri erano coloro che venivano da un paese vicino o poco conosciuto, adesso gli stranieri diventano coloro che non possono certificare (con l’esposizione di un documento) l’appartenenza alla nazione, al territorio. Oggi si tende ad esaltare il confine tra le due categorie di esseri umani: cittadino o straniero. O sei l’uno o sei l’altro: o sei uno di noi o non sei uno di noi. Si determina in maniera automatica una tendenza quindi non solo alla chiusura, ma conseguentemente alla difesa. E, com’è noto, il passo dalla difesa all’attacco risulta spesso scontato; in entrambi i casi servono delle armi che non devono rimanere inutilizzate. Bauman in un’intervista sul tema dell’identità opera una riflessione sul concetto di identità nazionale, ponendo in rilievo lo stretto legame esistente tra nazione e Stato.
«Stato e nazione avevano bisogno l’uno dell’altra, il loro matrimonio, si è tentati di dire, era stato contratto in paradiso […] Lo Stato cercava l’ubbidienza dei suoi sudditi rappresentandosi come il compimento del destino della nazione e una garanzia della sua continuazione. Dall’altro lato, una nazione senza uno Stato sarebbe stata destinata a essere dubbiosa del suo passato, insicura nel suo presente e incerta del suo futuro, e perciò fatalmente condannata ad un’esistenza precaria»[2].
Ovvero, senza il potere di uno Stato-nazione difficilmente tradizioni locali, lingue e dialetti, consuetudini e modi di vita differenti, si sarebbero potuti spontaneamente mettere insieme. Come Bauman stesso ci suggerisce, ne è un esempio lampante la Repubblica italiana: al momento della sua unità nazionale essa era, in realtà, un mosaico di tradizioni locali fortemente differenziate. Risulta chiaro, a questo punto, come il concetto di identità sia fortemente connesso a quello di “cultura”, concetto problematico su cui si è articolato gran parte del dibattito antropologico sin dalla sua nascita. La cultura è il principio cardine dell’identità, ne è il territorio per eccellenza. È pericoloso tuttavia pensare le culture, e insieme le identità, come universi chiusi e autosufficienti, come “essenze”. Non esistono culture “pure”, così come non esistono identità “pure”.
«Tutte le culture sono i prodotti di una lunga storia di appropriazioni, resistenze, compromessi, mescolamenti; ogni cultura ha una sua specificità solo e soltanto perché è continuamente in relazione alle altre ed è da questa continua interazione che ciascuna deriva le ragioni della propria unicità» (Matera, 2006: 91).
In sintesi: l’identità afferma la propria esistenza solo in presenza di un’alterità che la minaccia. Ne consegue il fenomeno della chiusura. Le società, i gruppi o le comunità, tendono ad allontanare l’alterità, nel tempo e nello spazio, al fine di non venirne contaminati, nell’illusorietà di essere completi, in uno sforzo incessante di preservare il proprio “essere”, la propria “essenza”. Senza, infatti, un soggetto altro, individuale e collettivo, che ne riconosca l’esistenza, l’identità smette di esistere, o meglio non esiste in quanto ‘problema’. È dunque proprio in questa qualità relazionale, in questo processo dinamico che sta il senso dell’identità.
Dentro queste coordinate concettuali, il Gruppo Appartamento si configura come un servizio utile ai fini dell’inserimento dei minori stranieri non accompagnati nel tessuto sociale e culturale della nostra società e il “rito di passaggio” può offrire un’utile chiave di lettura, appare un’efficace strumento di analisi per una migliore comprensione dei meccanismi sia interni ed inconsci, sia esterni e consci che ne regolano il funzionamento. Da diverso tempo gli studiosi di scienze sociali si interrogano sul proprio ruolo in un mondo segnato da profonde trasformazioni. Viviamo in un periodo storico in cui la conoscenza di culture diverse, da curiosità di pochi e da ristretto interesse scientifico, è diventata un’urgente necessità per tutti. La comunicazione interculturale è ora alla base dei rapporti tra gli uomini. Chi più chi meno, siamo spesso impreparati a comunicare con chi ha riferimenti culturali diversi dai nostri e si trova ad avere con ‘noi’ rapporti di varia natura, privati o pubblici. In questa prospettiva l’antropologo ha un ruolo importante oggi, dovendo posizionarsi non solo rispetto alla disciplina, ma anche riguardo alla società, al suo divenire, alla sua evoluzione. Non si tratta soltanto, per quanto importante sia, di sviluppare un atteggiamento psicologico ed etico di apertura, di disponibilità verso ciò che non ci è familiare. C’è bisogno di un’alfabetizzazione ai saperi basilari dell’antropologia. Occorre sicuramente dotarsi di conoscenze e di strumenti di analisi appropriati; soprattutto, nel dialogare con chi ha riferimenti culturali distanti dai nostri, si tratta di affinare una sensibilità volta a comprendere i messaggi di segno diverso. È questa, in fondo, la vocazione dell’antropologia, il contributo che essa può dare per una migliore convivenza umana.