Sono passati cento anni da quando l’arabista spagnolo Miguel Asín Palacios (1871-1944) pubblicò i suoi studi sulle influenze arabo-islamiche nella Divina Commedia [1]. Un secolo in cui lo scontro tra civiltà, religioni e nazionalismi ha caratterizzato il secondo conflitto mondiale lasciando una ferita aperta che negli ultimi anni continua a essere infetta per l’insensatezza che si cela dietro alla fantomatica idea di razza dominante. Lo stiamo osservando in questi tempi con il terrorismo fondamentalista, la recente strage nelle due moschee di Christchurch in Nuova Zelanda (15 marzo 2019) o, in modo provocatorio, con il video diffuso online dal presidente Trump che associa il volto della musulmana Ilhan Omar, membro democratico del Congresso degli Stati Uniti, all’11 settembre (12 aprile 2019). L’analogia alla quale siamo abituati, e che il nostro presente ci conferma, non lascia molto spazio a discorsi interculturali che richiedono uno sforzo per essere compresi e per essere visti nella giusta prospettiva storica.
Nello stato attuale delle cose, cercare i legami tra due o più culture e religioni pone di fronte a un rischio, quello di perdere di vista la valutazione del punto in comune. Se ci si concentra solamente sulla reperibilità delle evidenze documentaristiche, che in questi studi soffrono sia della distorsione ideologica operata dalla storiografia passata e moderna sia della difficoltà dell’individuazione delle fonti, si rischia di non seguire una pratica fondamentale che vede lo studio della storia nel rispetto delle metodologie che un particolare periodo ha usato per la definizione di se stesso. In altre parole quando studiamo Dante e le influenze culturali che ritroviamo poeticizzate nella Divina Commedia, per esempio, non possiamo analizzarle solo alla luce degli strumenti filologici a noi congeniali, ma dobbiamo saper anche rintracciare i riferimenti più o meno espliciti, intuendo il modo con cui sono stati inseriti nei versi.
L’opera dantesca ha la particolarità di essere formata da un insieme di riferimenti extratestuali che possono essere di diversi modi: lampanti con delle citazioni dirette, storici con il riferimento ad accadimenti precisi e databili, oppure aleatori senza la specificazione delle fonti ma con l’applicazione dei concetti che vuole avvalorare. L’esempio più celebre è l’adattamento della figura di Ulisse che proviene sì dalla cultura greca, ma che nelle rime dantesche assume un carattere nuovo entrando a far parte di una tradizione che si svilupperà in Occidente mantenendo l’originale spirito dell’eroe e del suo viaggio, ma con caratteristiche differenti come quella del naufragio. Se in Omero significava il pericolo perenne dal quale ci si può salvare, nella funzione dantesca rappresenta lo scotto da pagare se si vuole soddisfare la sete di conoscenza al di là dei limiti imposti dal Dio cristiano. In questo caso il superamento delle Colonne d’Ercole, confine invalicabile d’invenzione non classica ma araba, equivale al pomo dell’albero della conoscenza sul quale vigeva il divieto che è costato al genere umano l’esilio dal Paradiso terrestre [2].
Nel 1919 Asín Palacios rilevò nella Divina Commedia punti di contatto con la tradizione letteraria del mi‘rāj, il racconto del viaggio ultraterreno di Maometto, con assonanze tra le modalità del percorso e la descrizione degli inferi e del paradiso. Il Libro della Scala di Maometto fu successivamente scoperto nel 1949 da Enrico Cerulli, evento che suffragò le tesi dell’arabista spagnolo e che portò alcuni studiosi a formulare tesi sulla vicinanza dei due mondi islamico e latino e altri a rifiutare fermamente tali associazioni [3]. C’è da tenere a mente, anche al di fuori della giustezza degli studi o delle critiche, che la seconda metà del Novecento corrisponde a momenti storici in cui il confronto con il Medio Oriente non ha permesso di affrontare l’argomento con spirito libero da responsabilità storiche. Ancora in tempi recenti questo imbarazzo è chiaramente mostrato dai conflitti in Iraq, in Afghanistan, dal terrorismo e dal fenomeno dell’immigrazione. Sono temi complessi che mettono in difficoltà alcune evidenze socio-politiche e culturali, complicando di conseguenza il poterne parlare in maniera imparziale.
Il ritrovamento del Libro della Scala rimane comunque una scoperta importante che dimostra come già nella cultura islamica esistesse un oltretomba distinto in gironi ai quali venivano associate pene simili, anche per il concetto del contrappasso, a quelle che animeranno l’inferno e il purgatorio danteschi. Gli studi di Asín Palacios vengono tradotti in Italia solo nel 1994 (ristampato poi nel 2014 dalla Luni Editrice) e pubblicati da una casa editrice minore, la Nuove Pratiche Editrice di Parma cui spetta l’onore di aver reso il testo disponibile ai dantisti italiani a cinquant’anni esatti dalla morte dell’autore e a settantacinque dalla pubblicazione del testo originale. Lungo il XX secolo, quindi, il dibattito sulle fonti arabo-islamiche della Divina Commedia si è in gran parte tenuto senza la circolazione del libro in lingua italiana mentre in inglese, per esempio, fu pubblicato già nel 1926 [4].
Se la questione delle fonti islamiche nella Divina Commedia ha portato a un dibattito assai fitto tra fascinazione del testo e rifiuto categorico, non ha tuttavia ancora permesso di scorgerne interamente l’apertura interculturale [5]. Dal nostro canto abbiamo a lungo lavorato sulla tradizione onirologica che si trova a condividere, tra Medioriente e Occidente latino, le basi fondamentali per l’interpretazione dei sogni. Abbiamo notato, nello spoglio della tradizione manoscritta greca del IV secolo, di quella araba e latina del VII e delle successive italiana, francese, inglese, tedesca, fino alle edizioni a stampa latine e volgari del 1550, una coerenza dell’immaginario notturno e dei metodi interpretativi. Le traduzioni dei testi greci e poi arabi, prima in latino poi nei volgari europei, hanno dimostrato una diretta influenza delle tecniche divinatorie bizantine e islamiche nell’Occidente cristiano. Questo è un fatto rilevante trattandosi di un argomento delicato per l’ortodossia ecclesiastica che non contemplava l’interpretazione dei sogni a livello personale, ma indicava le Sacre scritture come essenziali per la comprensione dei simboli onirici. Senza l’apporto della cultura arabo-islamica alle scienze divinatorie i sogni e le pratiche prognostiche sarebbero rimaste un mero esercizio speculativo [6].
Dopo un secolo di discussioni su Dante e l’Islam ci domandiamo: a che punto sono arrivati gli studi di filologia dantesca e quelli più generali di storia della cultura? A questa domanda precisa segue una risposta non altrettanto lineare che deve prendere in considerazione molti elementi non solo letterari o storici, ma deve anche valutare la portata ideologica che può esserci dietro all’avanzamento o alla critica di certe teorie e pratiche filologiche [7]. Uno degli aspetti più importanti, e probabilmente più utili prima di applicarci allo studio delle influenze interculturali, è capire quale sia il contesto socio-politico dell’epoca che vogliamo analizzare. In questo caso individuare, seppur sinteticamente, l’origine dello scontro e della frattura tra cristiani e musulmani nell’invasione araba dell’VIII secolo d.C., quando nel 717 i musulmani tentarono di conquistare l’Impero Romano d’Oriente. La fallita entrata a Costantinopoli, l’odierna Istanbul, spinse gli arabi a preparare una nuova e maestosa invasione per destabilizzare l’impero occidentale penetrando nel mondo cattolico dall’Andalusia, dopo aver preso forza nei Paesi islamici del Nord-Africa ed essersi stanziati nel meridione d’Italia. L’obiettivo era quello di attraversare la Spagna per arrivare in Francia, raggiungere il cuore dell’impero e poi marciare verso Costantinopoli per chiudere il cerchio ideale della loro invasione e fondare l’Impero Islamico che sarebbe sorto dopo aver inghiottito quello Romano. Ma nel 732 si consuma l’ultimo e definitivo arresto dell’onda araba. A Poitiers, nel centro della Francia, Carlo Martello sconfigge gli eserciti musulmani che gradualmente si frammentano lasciando incompiuta l’impresa. Il tentativo saraceno ha segnato una ferita profonda mai rimarginata, e le otto crociate che si sono assecondate con una certa costanza dall’XI al XIII secolo sono la risposta all’infedeltà del popolo musulmano. L’offensiva congiunta del papa e dell’imperatore mirava a liberare la Terra santa dall’occupazione islamica, dagli invasori pagani e blasfemi ed educarli alle regole della cristianità prendendone le ricchezze minerarie per sostenere economicamente il proprio impero.
Questa dinamica è nota, ma su un aspetto bisogna porre l’attenzione: se per un attimo si annullasse dalla storia l’aspetto più cruento delle battaglie religiose, si potrebbe notare la portata culturale e gli effetti che comporta ogni invasione territoriale. Nell’Europa turbata dall’invasione musulmana si sono depositate le culture scientifiche e letterarie del mondo arabo. La matematica, la geometria, nuove tecniche agricole, l’astronomia, l’alchimia, la medicina come la poesia fanno parte di un bagaglio culturale che è stato assorbito dalle tradizioni popolari e dalla cultura intellettuale dei Paesi mediterranei. Anche il gusto letterario è suggerito dalla cultura popolare, per esempio le gesta di Carlo Martello che fermò l’onda araba e poi quelle del nipote Carlo Magno, che riconquistò parte delle terre arabe in Spagna, vengono prima narrate oralmente e in un secondo momento riunite per iscritto in Francia, creando così il ciclo carolingio, genere epico-cavalleresco. Questi testi, una volta codificati, assumono un aspetto propagandistico con lo scopo di incitare la gente a prendere parte alla prima crociata, in toni per la verità esagerati rispetto alla realtà storica in cui lo scontro con i musulmani fu molto più duro e complicato di quanto si sia voluto far credere.
La letteratura traduce in azioni fantastiche le credenze popolari e gli avvenimenti storici di dominio pubblico, ed è per questo motivo che in Spagna, a Siviglia e Toledo, dal 1100 vengono tradotti in latino i testi della cultura araba e islamica che si trovavano nelle biblioteche degli emiri e dei califfi che si sono succeduti nella penisola iberica. A Montpellier si correggono e se ne traducono altri sia in provenzale sia in latino, mentre a Padova si italianizza il sapere considerato blasfemo dalla Chiesa. In questo modo le scienze esatte e quelle divinatorie trovano il loro posto nella tradizione occidentale, entrando a far parte della normalità quotidiana. Una volta tradotte in latino e in volgare perdono la loro veste originale e per aggirare il divieto della Chiesa, nei testi manoscritti vengono modificate quelle opere che potevano suscitare il sospetto della censura ecclesiastica con la soppressione del titolo o con la sostituzione di termini cristiani al posto di quelli arabi.
Contemporaneamente alla diffusione di questi testi, nel XIII secolo si assiste a una commercializzazione delle ricchezze minerarie e delle manifatture tessili arabe così come degli strumenti di calcolo astronomico e divinatorio. Il porto di Venezia è stato uno dei principali del Mediterraneo occidentale e lì arrivavano, oltre alle stoffe, a manufatti artigianali e alle spezie, strumenti meccanici di calcolo geomantico e astrolabi, spesso seguiti da manuali d’istruzione. Dal punto di vista politico, la prima metà di questo secolo ha avuto un imperatore illuminato quale Federico II di Svevia che ha istituito a Palermo e in Puglia, in particolare a Lucera, il modello più riuscito di corte multiculturale del Medioevo latino. Nel 1227 lo Stupor mundi, che osteggiava le crociate, viene scomunicato e l’anno dopo parte per Damietta dove, invece di combattere contro l’esercito musulmano, stipula con il sultano al-Malik al-Kāmil, nipote del Saladino, un trattato di pace della durata di dieci anni, evento unico nella storia delle crociate. Il dialogo con il sovrano musulmano, su cui abbiamo già discusso proprio nelle pagine di questa rivista, è stato possibile grazie all’incontro tra lo stesso sultano e Francesco d’Assisi esattamente 800 anni fa nel 1219 [8]. Anche tale importante avvenimento ha permesso alla Divina Commedia, all’inizio del Trecento, di essere un’opera aperta ad altre influenze culturali. In questo testo studiato da Asín Palacios, il Saladino è posto, non senza sorpresa, nel Limbo invece di essere dannato, come ci si potrebbe aspettare, nel vero e proprio Inferno. Questa scelta è motivata dalla grandezza della figura di Salah ad-Din, sultano d’Egitto dal 1174 al 1193, esaltato nell’Occidente cristiano per il suo coraggio e virtù cavalleresche.
Ritornando alle righe iniziali di queste pagine, nelle quali abbiamo discusso della metodologia che si dovrebbe adottare nella ricostruzione dei fatti storici, e più avanti dove abbiamo ribadito l’importanza della comprensione del periodo che si analizza, ci preme soffermarci su come venivano visti, anche al di fuori del testo dantesco, i musulmani e la loro massima figura politica e religiosa. Nel codice Laurenziano Martelli 12, manoscritto composito del XIII-XIV secolo che riunisce testi eterogenei di cultura sia popolare sia colta, con la prima versione integrale della Vita Nova giunta sino a noi, si legge un profilo del Saladino nei Conti di antichi Cavalieri, poema di origine francese assai diffuso nel basso Medioevo:
«El Saladino fo sì valoroso, largo, cortese signore e d’anemo gentile che ciascuno ch’al mondo era en el suo tempo dicea che, senza alcun difetto, era onne bontà in lui compiutamente». (c. 1r)
Stupisce che alla figura di massimo rilievo per la società islamica, ma simbolo della lotta religiosa cristiana, potessero essere rivolte, alla fine del XIII secolo, delle frasi tanto positive. Considerato lo stretto legame che lega il sovrano al popolo, il giudizio espresso sull’imperatore o sul Sultano non è separabile del tutto da quello che si ha sulla gente che egli rappresenta. La fama di ‘spirito magno’ risuona al tempo di Dante che costruisce la sua Commedia considerando anche elementi della cultura araba. In quale misura lo abbia fatto è il perno dell’indagine di Asín Palacios e di tutti gli studiosi successivi che hanno il compito delicato di identificare ogni connessione e probabile ispirazione per il poema sacro [9]. Già alcuni predecessori di Dante come, per esempio, Marco Polo, l’autore de Il Novellino, Brunetto Latini o contemporanei come Antonio Pucci, Bosone da Gubbio o Giovanni Sercambi, subito successivo, usano generalmente parole di lode. Lode dove il ritratto positivo dei saraceni è spesso e volentieri usato per criticare i cristiani ormai ritenuti persone negative e senza convinzione di fede.
Per capire meglio la visione che gli intellettuali e scrittori avevano del mondo arabo, allarghiamo l’orizzonte dei riferimenti uscendo dal testo dantesco per vedere come si comporta a tale riguardo la letteratura immediatamente successiva. Questa indagine potrà tornare utile per capire più a fondo qual era l’atteggiamento verso la cultura musulmana e se si riscontrano altrove delle influenze mediorientali nei testi chiave del sapere occidentale. Con questo proposito è in preparazione un libro dal titolo Boccaccio and Islam. Islam and Boccaccio dove, tra i vari interventi in lingua inglese dopo l’introduzione di Timothy Kircher, Brenda Deen Schildgen si concentra sulle novelle in cui Boccaccio esprime la sua idea sull’Islam e sulla cultura islamica (in particolare nelle novelle I.3, II.9 e X.9); il sottoscritto si occupa di Boccaccio cronachista per quanto riguarda l’incontro tra Federico II e il sultano e i rapporti con il papa Gregorio IX; Roberta Morosini studia la Vita di Maometto di Boccaccio nel suo Zibaldone Magliabechiano; Andrea Celli traccia la tradizione della figura del Saladino da Boccaccio a Paolo Giovio fino al 1700; Marino Forlino svela le influenze del Libro di Sindibad e de Le mille e una notte nel Decameron e, infine, Bahaa Najem Mahmood si occupa della ricezione delle opere del certaldese nella cultura arabo-islamica.
Boccaccio, conoscendo bene in quale modo la Divina Commedia ha regolato la struttura del dogma cristiano con la suddivisione nei tre regni del grado più o meno alto di colpa, di tempo durante il quale la pena deve essere scontata, o di beatitudine, dedica le prime quattro novelle alle religioni monoteiste mediterranee. Ebrei, cristiani e musulmani sono analizzati attraverso dei caratteri umani che nella scena narrativa compiono delle azioni dipendenti dalla loro cultura e fede. Ciappelletto, Abraam, Melchisedech, il Saladino e un giovane monaco sono personaggi che rappresentano i vizi e le virtù della religione che professano, falsamente o meno, ma che attraverso le loro macchinazioni riescono a conseguire, grazie alla propria fede, i loro scopi. Così vengono introdotte le prime quattro novelle:
1) cristiani: «Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è, morto, reputato per santo e chiamato san Ciappelletto».
2) ebrei: «Abraam giudeo, da Giannotto di Civigní stimolato, va in corte di Roma, e veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi cristiano».
3) ebrei-musulmani: «Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli».
4) cristiani: «Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa si libera dalla pena».
Nelle prime novelle del Decameron risultano chiare le macchinazioni che ognuno di loro mette in atto, ma per capire come i tre fedeli vengono descritti da Boccaccio secondo il gusto del suo tempo, basterà fare una cernita degli aggettivi usati nelle loro storie, con la prevalenza di quelli usati al grado superlativo, per avere un’idea abbastanza chiara della tipologia di religiosi di fronte alla quale ci troviamo:
Cristiano | Ebreo | Musulmano |
falso | ricco | valoroso |
ingannevole | diretto | generoso |
pessimo | leale | magnanimo |
santo | savio | accorto |
cane | avaro | buono |
malvagio | usuraio | magnificente |
La lettura orizzontale di questa serie di aggettivi ci offre un ritratto accurato del genere umano a tutto tondo, il prototipo dell’uomo che tutti siamo, in certa misura o potenzialmente: valorosi e ricchi ma all’occorrenza anche falsi; generosi, diretti ma a volte ingannevoli, oppure magnanimi, leali ma pessimi; attenti, savi e con la pretesa di santità; buoni ma avari e animaleschi; strozzini (nel richiedere sentimenti), malvagi ma anche magnifici. L’analisi dei tre diversi fedeli serve a Boccaccio per parlare dell’uomo del suo tempo al di fuori della religione specifica. Ma se diamo una lettura verticale delle tre tipologie di religiosi, vediamo nello specifico quanto al musulmano siano riservati aggettivi di una tale positività che contrasta in modo evidente con il solito parere negativo che si aveva dell’infedele saraceno. La storia che Melchisedech racconta al Saladino, quella dei tre anelli che il padre fa forgiare dall’unico che possiede per poter lasciare la stessa eredità ai tre figli che ama nello stesso modo, simbolo delle tre religioni, è espressione di una auspicata coesistenza. Non è necessaria la ricerca della fede migliore, del Dio più giusto, del figlio più meritevole e amato dal padre, ma l’amore del genitore e non la quantificazione del sentimento è quello che interessa allo scrittore che, aprendo la scena della sua commedia umana, narra la storia dei tre anelli per sottolineare l’unità trinitaria del divino.
Verso la conclusione del Decameron, nella nona novella della decima giornata, il Saladino, travestito da mercante – quindi senza una veste che lo possa far riconoscere – incontra, fa amicizia, e aiuta messer Torello a non perdere la fedeltà, la fede cioè della moglie. Anche in questa storia ricorre il simbolo dei tre anelli: quello dato da Torello alla moglie in pegno d’amore, quello che la donna dona al marito prima del lungo viaggio e che al suo ritorno le permetterà di riconoscere l’ormai irriconoscibile Torello, e il terzo anello è quello nuziale che la donna rifiuta poco prima delle sue nuove nozze, che aveva accettato di stipulare persuasa della falsa notizia della morte del marito. In questa novella la figura del Saladino acquista ancora maggiore magnanimità, e i tre anelli continuano a rappresentare tre diversi stadi di fede: l’innamoramento, quindi promessa futura; il viaggio, cioè la speranza del ritorno e, infine, il rifiuto di un’altra fede. L’anello è simbolo di circolarità, dunque di perfezione, dunque ancora di Dio. È signaculum fidei come l’anello del re Salomone, quello che secondo i lapidari arabi aveva poteri guaritivi e permetteva di scacciare i demoni e di intendere il linguaggio universale degli animali.
I tre anelli, diversi ma irriconoscibili tranne che dal padre, sono per noi lettori il sigillo che contiene il principio dell’instabilità razionale e analitica della verità unica. Sono la rappresentazione della variabilità della stessa verità in cui le differenze tra le tre religioni trovano equilibrio nell’unità del concetto Primo. Questi tre cerchi, simbolo delle fedi cristiana ebraica e islamica nel racconto del Saladino e dei tre stadi della fede nella novella di Torello, sono allegoria del fondamento delle tre religioni sotto un Padre comune. Sono, in ultima analisi, anelli congiunti di cui è impossibile valutare le differenze perché insieme sono in armonia, la stessa che Asín Palacios ha avvertito cento anni fa, anche al di fuori del giudizio di veridicità o meno che possiamo attribuire ai suoi studi.