di Vito Teti [*]
Paesi abbandonati e città di rovine
La Calabria nel tempo è stata considerata come un «paradiso posto in terra», Eden o paese delle meraviglie. Chi ha frequentazione non superficiale dei luoghi di Calabria, è portato a declinare la bellezza insieme alle rovine. La bellezza dei luoghi è accompagnata, segnata, informata dalle rovine. Si potrebbe affermare che le rovine concorrono a costruire la bellezza del paesaggio. Del resto le rovine, come sostengono gli autori romantici, hanno un fascino e un’attrazione almeno quanto il “bello”.
Bellezza e rovine non si escludono, ma si richiamano, convivono. Non soltanto nella percezione colta dei romantici e degli esteti delle rovine, ma nella realtà osservata. Non bellezza o rovine, ma bellezze e rovine da riportare a complesse vicende storiche. Da Herman von Riedsel a Richard de Saint-Non, da Henry Swinburne a Giuseppe Galanti, da Michele Sarconi all’autore del testo apparso sul Poliorama Pittoresco, da Déodat de Dolemieu a Friedrich Leopold von Stolberg, da Astolphe De Custine a Destréé, da François Lenormant a Olindo Malagodi, da Maxime Du Camp a Waldemar Kaden le immagini della Calabria «terra di bellezze e di rovine» sono davvero frequenti e illuminanti. Le narrazioni sono legate al rimpianto delle rovine del passato, cancellate dal tempo, dall’incuria, dai fiumi, dagli acquitrini, ma anche all’osservazione, a volte in “presa diretta”, di catastrofi (terremoti e alluvioni) che rendono la rovina sempre attuale, sempre al presente.
In questo scritto vorrei sottolineare come la Calabria, sia con le immagini esterne che la riguardano sia con le forme di percezione e rappresentazione delle popolazioni locali, abbia condiviso il senso occidentale delle rovine e abbia contribuito all’affermarsi di una letteratura legata alle rovine. Intendo segnalare come la regione, grazie alla sua storia di abbandoni e di successive ricostruzioni, di spopolamenti e di nuovi popolamenti, sia stata presentata come “terra di rovina”, sempre precaria e incompiuta. Le popolazioni si sono dovute rapportare alle rovine nella lunga durata, elaborando risposte culturali e creando quadri mentali e simbolici in cui le rovine ritornano come materiali e metafore ricorrenti e imprescindibili.
Il carattere perturbante delle rovine
Se il paesaggio naturale, la vita quotidiana, le vicende e le memorie degli uomini sono contrassegnate da rovine, qual è il pensiero endogeno sulle stesse? Quali le sensazioni e le riflessioni che esse suscitano? Quale il punto di vista di persone che hanno convissuto con le rovine come fossero dei luoghi naturali? Quale la consapevolezza degli uomini della società tradizionale rispetto alle rovine? Il paese delle rovine che si ripetono e si rinnovano quali sentimenti, emozioni, percezioni, rappresentazioni ha alimentato?
Certo, bisogna tenere presente come nella percezione locale delle rovine entrino in gioco lo sguardo esterno e le elaborazioni colte. È necessario distinguere tra rovine del passato e rovine del presente. Rovine della natura e rovine degli uomini. Rovine del tempo e rovine dovute a incuria. Abbandono e ricordo, riuso e devastazione, scoperta e cancellazione, costruzione identitaria e rimozione, melanconia e indifferenza: sono termini, non sempre oppositivi, che connotano il senso locale delle rovine.
Nel linguaggio popolare la parola rovina e il verbo rovinare sono riferiti non tanto ai ruderi o ai resti di edifici e di abitati del passato, quanto a una disgrazia personale o comunitaria. «Sugnu rovinatu» è l’espressione di chi è colpito da qualche evento negativo. «Cristoforu Colombu chi facisti, la megghiu giuventù tu ruvinasti […]», dicono i versi di un canto popolare calabrese, raccolto a inizio secolo, quando l’emigrazione, causa di rovina, viene riportata a Colombo, che però nel volgere di qualche decennio diventerà salvatore delle popolazioni.
Non sembra esserci un’attrazione particolare per le rovine da parte delle popolazioni, che vivono e convivono con esse. Rovine, abbandoni, fughe fanno parte di una storia nota, quasi familiare. Le popolazioni del passato appaiono abituate alle rovine che accompagnano morte, desolazione, fuga. I superstiti delle ricorrenti e grandi catastrofi si aggirano smarriti e apatici, piangenti e imploranti, melanconici e rassegnati. Le rovine si presentano come uno scenario della vita di ogni giorno.
Le rovine costituiscono una sorta di ambiente naturale, di paesaggio consueto, abituale. I bioi ci descrivono i santi italo-greci che si aggirano e operano in universi segnati da abbandoni e da rovine. Le rovine “locali”, in genere, non hanno la monumentalità, la maestosità, la grandezza che sono all’origine dell’estetica colta delle rovine: sono quasi sempre resti, segni, ferite che affiorano nel paesaggio, generalmente rimasti indifferenti allo sguardo esterno. I ruderi con cui convivono i ceti popolari quasi raramente ispirano valutazioni artistiche ed estetiche. Se mai servono come materiali da usare in nuove costruzioni, in ambienti in cui è difficile reperirli e trasportarli. Ruderi, pietre, vecchi materiali da un lato vengono considerati resti di “riporto”, di “riuso”, ancora utili e utilizzabili, dall’altro vengono, però, in qualche modo protetti e salvaguardati. Secondo molte credenze non è bene portare i materiali delle vecchie case e degli abitati con sé: potrebbero provocare disgrazie o sfortune. Non è bene prendere, secondo alcune voci da me rilevate, resti di chiese di paesi abbandonati. Potrebbero portare male.
Le rovine alimentano memoria e paure, generano melanconia e rendono sempre vivo un lutto che non passa: non a caso assumono lo statuto del “defunto”. L’atteggiamento nei loro confronti è ambiguo. Ruderi, case abbandonate, case in rovina sono considerati luoghi potenzialmente pericolosi e negativi, ma anche carichi di “potere” e di sacralità. I ruderi e i resti di antichi abitati o complessi monastici hanno costituito in passato luoghi di culto e di devozione. Vincenzo Padula ricorda come gli abitanti di San Giacomo (colonia albanese) e quelli di Torano, in tempo di siccità si recassero in processione tra i ruderi dell’antica cappella di San Giacomo, alle falde del monte S. Elia, e tornassero nelle loro case «bagnati fino alle ossa» (Padula 1977: 322).
I ruderi, come le grotte, come le pietre – ed è questa conferma del loro trasformarsi in elementi naturali e del paesaggio – possono nascondere tesori. Tra i ruderi di Rocca Angitola, di Castelmonardo (l’antica Filadelfia), di Francavilla Angitola, di Papaglionti (frazione di Zungri), di Cerenzia sono ambientate storie di tesori nascosti, di draghi, di serpenti, di orchi. Antiche e nuove leggende relative a zone in prossimità di luoghi abbandonati parlano di apparizioni di fantasmi, di spiriti, di morti. Le rovine erano lo scenario di apparizioni inquietanti e perturbanti. Francis Marion Crawford (1854-1909), scrittore americano vissuto a lungo in Italia e anche in Calabria – autore di un romanzo The Children of the King: a Tale of the Southern Italy (1893), i cui due primi capitoli sono ambientati tra Scalea e Verbicaro e gli altri a Sorrento e dintorni – mette in scena tra i ruderi in prossimità di S. Nicola Arcella e di Scalea una storia vampirica, For the blood is the life, scritta nel 1905.
Cristina, «una bella creatura selvaggia» e «simile a una zingara», uccisa da due ladri e sepolta in un buca vicino ai ruderi di un’antica torre vicino a Scalea, torna per vampirizzare Angelo, di cui era stata innamorata non corrisposta. Antonio, il guardiano della torre, assiste alla «diavoleria» di una donna defunta che, con labbra rosse e occhi profondi e affamati, succhia avidamente, con «baci taglienti sulla gola», il sangue ad Angelo, che non può sottrarsi alla fame d’amore di Cristina. La donna vampiro viene, infine, «uccisa» e liberata con un paletto da Antonio, mentre il prete del paese, tremante, recita le preghiere e pratica gli esorcismi con l’acqua santa. La Calabria, in realtà, non aveva conosciuto fenomeni di vampirismo e rituali come quelli narrati dallo scrittore. Luoghi considerati primitivi, selvaggi e arcaici e luoghi metropolitani e della modernità, tradizioni locali di diverse aree geografiche e nuove tradizioni inventate, concorrono, diversamente, alla costruzione di un vampiro, in realtà, sempre più «fuori luogo», delocalizzato (Teti 2007).
Anche le case diroccate e disabitate sono considerate luogo di possibile ritorno dei defunti e apparizioni degli spiriti. Crepacci, sorgenti, fiumi, “dirupi” naturali sono luoghi canonici del ritorno dei morti. Anche i dirupi costruiti o provocati dagli uomini s’inscrivono in un ordine naturale. Le case diroccate, prive di identità e di continuità simbolica, possono diventare luoghi del ritorno dei defunti che a quella casa appartenevano. Le case disabitate, perdendo la loro struttura difensiva, non presentano più ostacoli e possono diventare case dei morti (Lombardi Satriani, Meligrana 1982: 69). Sono ampiamente attestati il terrore, l’ansia, l’angoscia che la casa, e quindi la famiglia, possa andare in rovina, possa andare distrutta o sia soggetta ad abbandono. Una delle bestemmie o maledizioni più terribili che si rivolgeva a persona nemica era che gli potesse crescere l’erba davanti alla porta della casa. Le “piante ruderali” sono oggetto degli studi di rovinologi, paesaggisti, botanici. Si potrebbero scrivere una geoantropologia delle rovine e una sorta di etnobotanica legata ai ruderi.
Le erbe selvatiche, il non più coltivato e curato, il trionfo della natura sulle costruzioni dell’uomo, attestano la fine della casa, della famiglia, della vita, del paese. Le case venivano, non a caso, protette, in maniera simbolica, dal ritorno dei defunti, degli spiriti, dei morti di mala morte, ma anche dall’invidia del vicino e dalla maledizione del nemico. Proprio queste paure, questi sentimenti e questi comportamenti attestano come la chiusura della casa e dell’abitato fossero eventi tutt’altro che eccezionali in Calabria. Il ricordo della casa in coloro che l’abbandonano resta vivo, ma questo non impedisce la ricerca e la costruzione di una nuova casa, non prelude quasi mai a un ritorno. Le rovine, i ruderi, i paesi abbandonati diventano, col tempo, luoghi del rimpianto e della nostalgia, segno della fine e ammonimento. Negli ultimi anni, con una diversa consapevolezza, assurgono a costruzione identitaria, che vede impegnati universi che si sono frantumati, dilatati, scheggiati.
Le rovine: spolia, cura, devastazione
A dispetto dell’atteggiamento di cautela e di attenzione nei confronti delle rovine, a dispetto della “paura” nell’usare resti di antichi edifici, in Calabria il riuso e il reimpiego di materiali di epoche precedenti è attestato fin dall’antichità. La spoliazione è una pratica antica, che si diffonde dappertutto in epoca medievale. Gli esempi sono innumerevoli.
La Cattedrale dell’antica Mileto è stata costruita in epoca medievale con materiali e colonne dell’antica Hipponion, che erano, peraltro, già stati impiegati per la costruzione della città romana. Il Duomo di Gerace deve la sua maestosità e bellezza, il suo splendore, alle colonne della Locri magnogreca. La vecchia Cerenzia, città sorta quasi certamente in periodo bizantino, conserva memoria di marmi e capitelli di precedenti città. Colonne, pietre, marmi della Certosa di Serra S. Bruno, distrutta quasi totalmente dal terremoto del 1783, decorano e abbelliscono chiese della cittadina (Ceravolo 2005).
Le élites calabresi non sono naturalmente estranee all’attenzione per i ruderi e le rovine come segni e documenti del passato. I rappresentanti della tradizione erudita e letteraria (si pensi a Gabriele Barrio, Giuseppe Marafioti, Domenico Martire, Giovanni Fiore da Cropani) si occupano delle “vestigia” materiali delle antiche città greche e romane e, spesso, rintracciano o indicano i siti di antichi insediamenti. Il mito del passato magnogreco e romano spesso è all’origine della scoperta di importanti siti archeologici. Prima ancora delle “scoperte” dei protagonisti del Grand Tour, le élites regionali e locali individuano nelle rovine del passato i segni di civiltà scomparse, di cui si sentono eredi, e alle quali “tornano” con sentimenti di nostalgia e di rimpianto. L’attenzione per le rovine risponde a una sorta di bisogno di “nobilitazione” di luoghi oggetto di rifiuto e denigrazioni esterne. Spesso la nostalgia del passato, di cui le rovine sono tracce, segni, spie, coincide con un bisogno di affermare una diversa identità e con una critica del presente. Già a partire dal Cinquecento la rovina del passato incontra anche la rovina del presente. I più lucidi e avvertiti studiosi locali non esitano a denunciare le rovine che vengono create da invasori, baroni, incuria, apatia.
I viaggiatori del Grand Tour contribuiscono in seguito, anche in maniera indiretta, ad alimentare l’interesse per le rovine dell’antichità. Quasi sempre essi sono ospiti di aristocratici e borghesi colti, con cui intrattengono rapporti, dialoghi, scambi e presso cui si recano anche per avere notizie. Molti viaggiatori stranieri, soprattutto nell’Ottocento, faranno riferimento a importanti rappresentanti della tradizione letteraria erudita ed encomiastica. Illuminante in questo senso il rapporto tra François Lenormant, il grande archeologo francese che visita la Calabria, e Vito Capialbi, studioso, storico, archeologo tra i più importanti del Mezzogiorno d’Italia nella prima metà dell’Ottocento (Paoletti 2003). La famiglia Capialbi è un esempio di come ricerca antiquaria, ricerca storica, ricerca archeologica e demologica spesso convivano e tendano a un riconoscimento dei luoghi, che risponde a una sorta di affermazione di un nuovo status e ruolo sociale ed economico.
A cavallo tra Otto e Novecento storici, archeologi, eruditi, demologi si fanno protagonisti di ricerche sul passato. Gli studiosi locali raccolgono documenti scritti, manoscritti, testi di tradizioni orali, oggetti del mondo contadino, reperti archeologici: tutto poteva concorrere alla scrittura di una storia cancellata e dimenticata e alla valorizzazione di luoghi considerati periferici, ma che avevano alle spalle un glorioso passato. La ricerca dei resti e delle tracce di quel passato assume spesso toni di rimpianto, molte volte di polemica nei confronti del presente e non di rado orgogliosa rivendicazione di antichità e di grandezza rispetto a negazioni o dimenticanze esterne. Non bisogna sottovalutare nemmeno l’analogia che viene stabilita tra resti materiali e resti immateriali, come segni e testimonianze di antichi splendori. Quando i resti materiali, i ruderi, i frammenti non sono sufficienti, sono ancora sepolti, sono dimenticati, vengono in soccorso le testimonianze orali, il folklore, le usanze, le tradizioni considerate come sopravvivenze del lontano passato. Per decenni la ricerca e il mito delle origini hanno portato all’antichità classica. La tradizione greco-latina spesso è attestata più dalla ricerche folkloriche che da quelle demologiche. La prima incoraggia e sollecita l’altra, e viceversa, contribuendo a generare una sorta di attenzione per le rovine del passato, prima lasciate nell’incuria, sovrastate da detriti, dalle acque malariche, dalle erbe. Gli scavi sono sempre scavi d’identità.
Se spesso il legame con il mondo classico ha avuto connotati retorici, di fuga in un passato glorioso, se quasi sempre l’attenzione per le rovine dell’antichità ha portato alla sottovalutazione di storie, tradizioni, monumenti, opere d’arte di periodi successivi, è anche vero che in questo quadro culturale si afferma una nuova consapevolezza tra le élites e tra le popolazioni, che peraltro rivelano una nostalgia e una memoria di antiche civiltà sepolte e spesso sono le fonti privilegiate dei ricercatori. Sono i contadini, i braccianti, i pastori, i lavoratori della terra a conoscere una storia di abbandoni e di ricostruzioni e ad indicare emergenze archeologiche.
Nel 1950 un grande intellettuale come Umberto Zanotti Bianco inseriva il legame con l’antichità, che coinvolgeva storiografia calabrese e ceti popolari, in una sorta di «necessità identitaria» affermata in un contesto di isolamento e di perifericità economica e culturale.
«Il ricordo della grande civiltà fiorita – quando Roma non era ancora che un aggregato di villaggi di pastori – sulle feraci sponde dell’attuale Calabria, e con tale intensità che gli stessi greci chiamarono quelle loro colonie la Grande Grecia […] ha nutrito per secoli la fantasia delle genti calabresi sempre in attesa della riapparizione di testimonianze del loro luminoso passato.
Percorrendo la severa e bella regione, non è raro trovare nei villaggi chi vi mostri nelle vaghe lontananze, presso le distruttrici fiumare o nelle località più impensate il luogo ove sarebbe sepolta una delle antiche città dal nome glorioso o qualche favoloso tesoro. E il sentir parlare di queste antiche meraviglie, colorate dai sogni, da umile gente tra il fumido odore dei loro miseri abituri e le triste stigmate di una povertà secolare, ha una poesia che non è possibile dimenticare.
È questo geloso amore di cose lontane, è questa passione non potuta nutrire di seri studi perché isolata da ogni centro di alta coltura, che hanno tuttavia orientato una parte delle storiografia calabrese dell’ottocento verso l’antica storia della Magna Grecia» (Zanotti Bianco 1950: 1014).
Il “classico” parlava ancora nel presente e questo contribuiva ulteriormente alla costruzione di tradizioni culturali in cui passato e presente, leggende e storia, miti e rovine convivevano, coesistevano. È l’ulteriore conferma di come l’identità non sia qualcosa di granitico e di definito, ma il prodotto di continue vicende storiche, di sovrapposizioni, di contrasti, di mobilità. Il mito delle origini non può essere liquidato come un artificio sterile e inconcludente: racconta le identità plurali, le costruzioni controverse, i racconti e le rappresentazioni mutevoli dei diversi ceti sociali.
A cavallo tra Otto e Novecento, le élites più illuminate della regione si pongono anche il problema della salvaguardia, della tutela, del recupero dei ruderi. Si va affermando una sensibilità tutta moderna per i ruderi come memoria, legame col passato, rapporto con la propria storia. Anche questa volta le citazioni potrebbero essere molteplici e di tono diverso.
Nicola Misasi, in un libretto dal titolo evocativo e illuminante, Anima rerum, apparso nel 1889, ricorda ruderi di castelli calabresi entro i quali si sono verificati episodi cruenti o strani, presentati con una sensibilità tipicamente romantica attenta all’orrido e all’insolito. Nel capitolo dedicato a Il Castello di Cosenza, lo scrittore sembra parlare di una sorta di anima delle cose e dei ruderi. Gli uomini passano, egli sostiene, ma le cose restano, mute, eloquenti, melanconiche, «hanno un’anima che sopravvive alla morte; ed è l’anima delle cose che ci svela l’anima degli uomini» (Misasi 1889: 53). Egli invita al rispetto dei ruderi, venerabili come cadaveri, soprattutto perché sono «la storia, sono la tradizione, cioè sono l’anima del popolo sopravvissuta ai secoli, sopravvissuti alle sciagure» (Ibid.: 57).
Un’analoga pietas troviamo nelle poesie di Antonio Anile e nel suo ricordo dei ruderi di Briatico vecchia. L’interesse per ruderi, case diroccate, resti di castelli, rocche, paesi abbandonati accompagna una tradizione intellettuale e culturale locale e trova i suoi maggiori esponenti in autori come Corrado Alvaro e Francesco Perri.
Un senso religioso del rudere ci arriva dal romanzo Tra due mari di Carmine Abate. Il protagonista è proprio un grande rudere, “Il Fondaco del Fico”, riferimento letterario a quel Fondaco del fico, luogo emblematico della mobilità in Calabria in epoca moderna. Situata in prossimità dell’Angitola, là dove si diramano le strade per Pizzo-Monteleone, Nicastro-Catanzaro, le Serre, Curinga e Maida, Francavilla e Filadelfia, la locanda costituiva una sosta obbligata per tutti i viaggiatori che si trovavano a percorrere le vie di collegamento tra la Calabria Ultra e la Calabria Citra, il Tirreno e lo Ionio. Luogo di passaggio e di sosta, segnato nelle carte geografiche sei-settecentesche, è descritto e ricordato da molti viaggiatori che si sono recati in Calabria dalla fine del Settecento alla prima metà del Novecento: Henry Swinburne, Vivant Denon, Richard de Saint-Non, Stolberg e Giuseppe Maria Galanti, Richad Keppel Craven, Justus Tommasini, Alessandro Dumas, François Lemormant. Alcuni (e tra questi Henry Swinburne che vi sosta nel febbraio 1778) ritengono si possa trattare dell’antico Fundus Sicae di cui parla Cicerone (Teti 1995). Nella finzione letteraria di Abate, il rudere, attorno al quale si agitano ricordi, affetti, sentimenti di tre generazioni, diventa una sorta di luogo di culto, metafora di viaggi e anche di una diversa attenzione per la propria storia. Il rudere diventa oggetto di memoria, di appartenenza, e anche di speranza di rinascita economica, culturale, produttiva. Giorgio Bellusci, anziano personaggio, fa capire a tutta la famiglia che «i resti del Fondaco del Fico andavano rispettati, come quelli di un morto della famiglia» (Abate 2002: 11).
Nella realtà il “Fondaco del Fico” ha avuto una sorte meno edificante, diversa da quella che la storia sembrava avergli assegnato e da quella che la finzione letteraria ha saputo conferirgli. Cancellato, demolito, distrutto, nella indifferenza pressoché generale, per elevare un lungo muro lungo l’autostrada del Sole, in prossimità di Eccellente e di Acconia.
L’invito al rispetto dei ruderi, il riconoscimento identitario delle rovine, la speranza di una loro rinascita e di un loro riutilizzo, l’uso attuale del “classico” – temi presenti negli studiosi e negli scrittori calabresi – sembrano rivolti a scongiurare le devastazioni che vengono compiute nella realtà. È la presa d’atto che la modernizzazione ha creato distruzioni e rovine, ha cancellato memorie materiali e immateriali. Non è il rimpianto per il passato, ma la pietas per ciò che poteva essere salvaguardato, custodito ed è stato interamente deturpato.
L’atteggiamento nei confronti delle rovine oscilla tra indifferenza e tutela, distruzione e riuso “appropriato”, abbandono e protezione, impiego strumentale e risorsa di memoria. Le rovine – e includiamo a pieno titolo quelle dimenticate e invisibili, quelle silenziose e nascoste, quelle non considerate e non scoperte da “rovinologi”, quelle che oggi riemergono grazie a strane vendette della natura e una nuova sensibilità che si va affermando anche tra la gente – suscitano sensazioni e atteggiamenti che vanno dall’attrazione alla rimozione, dallo stupore all’inquietudine, dalla cura all’incuria, dalla persuasione alla retorica. Ad alcuni parlano, ad altri non dicono nulla.
Nella regione vengono spesso sepolti e cancellati resti del passato per edificare case private o edifici pubblici o strade. Le soprintendenze sono state silenziose, altre volte inascoltate, più di recente impotenti. Si fa retorica sul passato per poi distruggerne gli antichi resti. Spesso distruggiamo dei ruderi e dei reperti di grande valore e rilevanza. Altre volte, quando non esistono tracce e memorie del passato, li inventiamo per raccontare storie fittizie. Spesso ascoltiamo lamentele sul fatto che un dato reperto, una statua, un’opera d’arte sono state trafugate e si trovino custodite o nascoste in chissà quale museo fuori delle regione. È certo un problema, ma non dovremmo dimenticare che distruggiamo quotidianamente antichi reperti, trascuriamo l’avvio di scavi che potrebbero farci conoscere meglio la regione e noi stessi.
Alcune soprintendenze sono spesso costrette a contrastare privati cittadini e anche pubbliche amministrazioni che tendono a occultare con ruspe e colate di cemento ruderi, tombe, reperti archeologici. Distruzioni e costruzioni vengono perpetuate in nome dei ruderi, del passato, della tradizione. I ruderi, specie quelli che non sembrano avere un volto nobile, quelli che non hanno tutela e sguardi amorevoli, subiscono sovente questa sorte. Anche quelli più antichi, e più oggetto di controllo. I miei viaggi in Calabria negli ultimi anni si sono tradotti il più delle volte in scoperta di devastazioni e d’incuria, di scempi e di omissioni. Sia per la natura sia per quello che restava delle costruzioni dell’uomo. Chateaubriand distingueva tra rovine del tempo e rovine degli uomini. Spesso le due rovine viaggiano insieme. Per non parlare delle rovine dovute al restauro! Può accadere che i recuperi e le tutele (non esiste un accordo su cosa si intenda per tutela) provochino danni più devastanti delle distruzioni. Certi restauri e interventi degli uomini, di politici e di tecnici, distruggono ulteriormente la rovina, la rendono altra da sé, dalla sua storia, dalla stessa memoria.
La rovina perde il suo carattere poetico, la sua aspirazione alla memoria, la sua vocazione all’ammonimento, il suo segnalare fine e decadenza futura, e diventa segno di una fine in corso o già avvenuta. Le immagini catastrofiche e le visioni apocalittiche del nostro tempo – Chernobyl e Sarajevo, Baghdad e New York, la stazione di Madrid e la metro di Londra, le macerie di Istanbul e quelle dell’Abruzzo sono, pure nella loro diversità, ugualmente perturbanti – sono state “preparate”, annunciate, da storie, concezioni, riflessioni che appartengono fin dall’antichità, quasi “dalle origini”, a quella che definiamo, con buona approssimazione, tradizione occidentale, almeno il pensiero colto e delle élite. Sia l’attenzione per le rovine sia quello che in maniera schematica e diversi significati chiamiamo modernità – l’idea di un tempo lineare, di un prima e di un dopo, di periodi che finiscono senza tornare, la concezione storica – hanno antecedenti più remoti. Il tema delle rovine – come quello della melanconia a cui sono indissolubilmente legate – che rivela il senso della storia e di ciò che è accaduto e che non torna più, risale all’antichità. Le rovine non costituiscono una sorpresa, un incidente, ma vengono preannunciate, attese, temute, minacciate, fanno parte integrante di quello che la tradizione occidentale pensa di se stessa (Teti 2004; Teti 2007).
Il motivo delle rovine e quello dell’apocalisse hanno ormai invaso la letteratura, l’arte, la video art, i fumetti, la fotografia, il cinema, la riflessione archeologica e quella antropologica. A rendere attuali e familiari le rovine ci pensano quotidianamente la cronaca, la vita, le guerre, i bombardamenti, le devastazioni dei fondamentalisti, le catastrofi naturali. La fine del mondo sembra essere all’ordine del giorno, nei telegiornali, negli oroscopi, nelle previsioni catastrofiche, nella realtà.
La Calabria, la “terra dei sismi” e delle frane, che ha conosciuto devastanti terremoti fin dall’antichità, è forse il luogo che più di ogni altra parte di Europa ha dato, in epoca moderna e contemporanea (si pensi ai terribili flagelli del 1638, 1659, del 1783, del 1905, del 1908, ma anche ai numerosi abbandoni di abitati provocati da frane e alluvioni), l’idea della rovina come presente, come elemento caratterizzante il paesaggio naturale e urbano, la storia, la vita, la mentalità delle popolazioni.
Gli effetti del terremoto non finiscono mai. Terremoti, frane, alluvioni, invasioni e abbandoni di paesi generano vicende di precarietà insediative, culturali e mentali. Le baracche del terremoto sono segno della rovina, della provvisorietà eletta a norma, di rinvii a tempi imprecisati. Le baracche come mortificazione e quasi preludio, attesa, paura di una nuova fine. Ancora fino a pochi anni addietro, in molti paesi era possibile vedere le baracche del terremoto di inizio Novecento. Le persone si sentono sempre precarie nei posti, mai stanziali in luoghi che potrebbero abbandonare da un momento all’altro. I danni del dopoterremoto, le conseguenze delle dopocatastrofi, delle mancate o delle insensate ricostruzioni a volte sono più devastanti di quelli provocati dalla “natura”.
Di fronte alla furia improvvisa degli elementi qualsiasi intervento appare puerile e tutto viene puntualmente rimandato a poi, all’infinito: «Sulle catastrofi della Calabria, si sono formate fortune imponenti» (Alvaro 1958: 165).
Quasi tutte le opere pubbliche degli ultimi decenni ricordano storie di interminabili colate di cemento, magari inadeguato e insufficiente, che non terminano mai. In Calabria se ne incontrano a centinaia. Dighe mai completate. Fabbriche sorte con il miraggio della salvezza e ormai dismesse. Letti di fiumi incustoditi dove prosperano detriti e immondizie. Montagne di sabbia scarnificate e dissanguate da ruspe impietose a cui non segue la minima protezione dell’uomo. Baracche di lamiere e di tavole che prosperano in prossimità dei paesi. Staccionate precarie che delimitano rigorosamente terreni rigorosamente incolti: l’importante è separare, affermare il mio, poco importa che poi non venga utilizzato. Tutto si rinvia. A Nardodipace tra l’alluvione del 1971, la decisione della ricostruzione, l’assegnazione delle case sono passati quasi trent’anni. E oggi le case sono disabitate, sono diventate vecchie, fuori tempo. Le persone che le attendevano sono morte o sono andate via.
La precarietà, la provvisorietà, l’indefinitezza diventano regole di vita, elementi di risorsa e di economia. La Calabria è la terra dei mille progetti finanziati e mai realizzati, delle dighe incompiute, dei piani regolatori sempre approvati e mai attuati, delle varianti perenni, delle varianti delle varianti. E mentre nel passato l’incompiutezza appare strettamente connessa all’insicurezza e a vicende catastrofiche, oggi appare legata piuttosto ad arricchimenti facili, a clientele che prosperano, a strategie dei gruppi dominanti. In una terra sempre mobile e pericolante, sempre in viaggio, sempre soggetta ad aggiustamenti e a riparazioni, la filosofia del pubblico intervento ha finito col perpetuare il potere delle classi dominanti, ha contribuito ad alimentare clientele, famiglie, gruppi politici. Nulla appare definitivo e compiuto. Tutto sembra determinato dalla provvisorietà, dall’idea che nulla è durevole. Non vi è mai un progetto del nuovo. Tutto viene lasciato al caso. Le popolazioni sembrano sempre in attesa del peggio o del ritorno delle catastrofi. Esse convivono, quasi rassegnate, abituate a una storia di distruzione.
La Calabria è la terra dove i governi e le giunte cadono con maggiore frequenza, dove tutto viene ribaltato e tutto viene ricostituito. Mancano qualsiasi vocazione progettuale, la fiducia nel domani. Si afferma sempre la logica del “Meglio oggi l’uovo che domani la gallina”. Accontentarsi, perché domani potrebbe essere peggio. Nulla appare definitivo, compiuto, coerente. Tutto appare provvisorio e tutto viene rinviato. C’è anche una bellezza del poi, quasi una difficoltà a dire no. Il poi vediamo, non è per non mantenere la parola, ma perché non si vuole dispiacere l’amico.
Oggi, tutto il paesaggio è segnato da case di due, tre o più piani, di cui soltanto il primo viene ultimato e senza intonaco. Esistono case vuote e terreni non coltivati di cui è difficile conoscere i proprietari, spesso eredi che sono in America. Basta sfiorarli, aprire una finestra, parcheggiare una macchina e su bito sbucano mille proprietari in lite tra di loro. Tutto è precario anche le proprietà e i legami. Si dice che le costruzioni vengono lasciate incompiute, rimandando a tempi migliori, sperando che poi i figli le ultimino in qualche modo. Ma non è più come con la prima emigrazione quando gli emigrati cominciavano un piano, poi partivano per fare un po’ di soldi, tornavano, riprendevano la costruzione e così via, fino ad ultimarla, a volte dieci-quindici anni dopo averla iniziata. Alla fine le case linde, pulite, finite, colorate, con il balcone, e il portone che suscitavano l’invidia e l’ironia dei signori sorgevano come una novità in paesi di case fatiscenti e anguste e modificano il paesaggio urbano.
Gli scheletri in cemento, alzati e non finiti, come una sorta di ipoteca sul futuro, un desiderio di controllare il tempo e quello che verrà, in realtà raccontano un presente di rovina, la rovina del presente, una rovina immanente e persistente. I pilastri in cemento, scarni, vaganti verso il cielo che nascono già come rovine. Una recente indagine promossa dall’Assessorato all’Urbanistica della Regione Calabria fa il quadro preciso e drammatico dei disastri ambientali prodotti negli ultimi decenni. Il paesaggio si presenta come quello di un “the dey after”. Ogni 150 metri di costa emerge un illecito edilizio: villette a schiera come palafitte, camping e villaggi turistici dentro l’alveo dei fiumi o sulla sabbia delle spiagge, costruzioni mai terminate, colline e montagne sventrate. La regione è la terra degli ecomostri; per meglio dire è un ecomostro con buona pace di quanti costruiscono retoriche della bellezza, che pure esiste, ma, è sempre più deturpata, violentata, devastata. C’è una sorta di tendenza suicida, a farsi male, a “rovinarsi”. È il segno di interessi economici illegali e non legittimi, ma è anche il riflesso di una patologia melanconica. La melanconia è una malattia del luogo, ma adombra una malattia del tempo. Il melanconico non ha un domani, è precario. Questa incompiutezza e questa attesa, questa sfiducia nell’oggi e l’ansia per il domani, non sono separabili da una storia di rovine e di catastrofi, che hanno trasformato in mentalità il sentimento dell’incertezza, della sfiducia, dell’incompiutezza. L’incompiutezza (come manifestazione melanconica) è una patologia antica, ma ha un’amplificazione recente e postmoderna. La tendenza a distruggere per poi rimpiangere e compiangere occulta del tutto l’idea che si possa intervenire prima, tutelare, salvagurdare. La natura, il paesaggio, i riti, le feste, i modi di dire non fanno altro che raccontare di catastrofi sempre imminenti e latenti, ma noi alimentiamo e amplifichiamo i rischi. Mancano voglia e capacità di guardare nella nostra storia e nel nostro passato, di scrutare ombre e “sotterranei”, di orientare le nostri azioni in maniera diversa. La memoria viene invocata retoricamente.
Una storia di abbandoni, fughe, precarietà può essere, certo, chiamata in causa per spiegare smemoratezze, distrazioni, la mentalità del rinvio e dell’incopiutezza. Ma non bisogna dimenticare la mancanza di regole e anche una sorta di anarchia nel rapporto con il territorio, le deregolazioni e le spe culazioni locali e globali. La violenza della natura continua altre violenze. Le recenti alluvioni di Crotone, Soverato, Bivona; che hanno provocato decine di morti, la frana di Cavallerizzo che ha determinato l’abbandono dell’antico sito e tante dispersioni e lacerazioni; le frani recenti che hanno isolato paesi, demolito l’autostrada, colpito abitati e cimiteri, strade ferrate e grandi arterie: tutti questi eventi ci mettono di fronte a un eterno presente di rovine. L’idea è che sia conveniente gestire l’emergenza e la ricostruzione anziché fare opere di prevenzione e di risanamento. Dai politicanti, che prosperano sulle rovine e sui pronti interventi, ai grandi speculatori, dai modesti comuni ai semplici cittadini che sognano una casa non sembra esserci rispetto per le regole, per le norme edilizie, quando esistono. Il non finito nasconde affari, interessi, ma anche la sfiducia nel futuro. Sarà per queste ragioni antiche e recenti che la nostra lingua non ha i verbi al futuro?
La politica ha le sue grandi responsabilità, ma popolazione, amministratori, imprenditori, tecnici, ingegneri, architetti, geometri, geologi non sono indenni da queste responsabilità. Chi presenta e firma progetti in luoghi ad alto rischio e in posti che scempiano e devastano le bellezze? Non bastano gli scongiuri, l’indifferenza, l’idea che tocchi sempre agli altri, occorrerebbe una seria politica per il territorio, una politica di tutela, difesa, recupero dei centri storici, la demolizione di edifici e case che prefigurano rischi. Il nostro territorio appare, a volte, un grande ammasso di rovine, anche a dispetto delle bellezze naturali, invocate in maniera retorica e quasi come una sorta di scongiuro e di paraocchi per non scorgere i rischi imminenti.
Occorrerebbero, da noi, in Calabria e in Italia, un diverso senso dei luoghi e anche un diverso senso delle rovine.
Il ritorno “religioso” e “pedagogico” alle rovine
Di fronte alle dolenti e drammatiche immagini del presente come rovina, che sembra avere in Calabria una terra di elezione, si resta sgomenti e storditi. Con un senso di impotenza e di indignazione. Forse bisognerebbe auspicare e inventare nuovi modelli di sviluppo che passino anche attraverso un altro senso della rovina. Dalla “terra dei sismi” e degli abbandoni, delle incompiutezze e delle precarietà – che è anche la terra delle bellezze e delle mille risorse – talora arrivano piccoli, modesti, confusi segnali che sembrano voler contrastare un destino di rovina. Forse bisogna guardare diversamen te il colore e il calore delle rovine.
I ruderi come i defunti, come i cadaveri, hanno un carattere perturbante: sono morti, ma non si rassegnano alla morte, riemergono, continuano a parlare. Attraggono e respingono. I vivi possono trattarli come “cari estinti”, come sede di ricordi e di memoria, come antenati o viceversa possono tenerli lontani, ignorarli, come figure ostili. Nella nostra tradizione locale il culto per i ruderi e le rovine, si è coniugato con pratiche di cancellazione o di distruzione. Allo stesso modo in cui il culto dei defunti è stato accompagnato da ricordo o da dimenticanza. I ruderi, come i defunti, suscitano inquietudine, possono tornare quasi come pericolosi vampiri, qualcosa che non solo ci ricorda la nostra finitudine, ma che ad essi ci accomuna. Le rovine come le reliquie, reliquie esse stesse, possono essere venerate o svendute, devotamente trattate o enfaticamente esaltate. Esiste un legame delle popolazioni con le rovine, che prescinde dalle speculazioni e dagli interventi calati dall’alto. I locali non sono estranei alle devastazioni del paesaggio e dei borghi, alla sepoltura e alla cancellazioni definitive dei ruderi, ma hanno elaborato anche un diverso senso del luogo, anche di quello abbandonato.
L’attenzione locale alle rovine va legata a una cultura e a una sensibilità diffuse dagli studi di storia patria, dalle ricerche archeologiche, dalle riflessioni storiche e antropologiche sulle culture, le tradizioni, i culti dei luoghi, sull’organizzazione dello spazio e sulla storia degli insediamenti. Un’attenzione che si afferma in rapporto alla riscoperta della propria storia e delle proprie tradizioni. In questo contesto anche resti prima trascurati e ignorati, anche rovine di paesi abbandonati e dimenticati continuano ad affiorare come una sorta di rimorso e di rimosso collettivi.
C’è una grande compassione nei cercatori e custodi dei ruderi che ho incontrato nei miei viaggi tra i luoghi dell’abbandono. Ho visto una sorta di legame affettuoso come davanti ai resti di un caro estinto. I ruderi, le pietre, i muri, i mattoni vengono raccolti, accarezzati, ripuliti dai cercatori di rovine e di ruderi, dai custodi locali di memorie. Il fascino della rovina, scriveva Simmel, è massimo dove permane la tendenza verso l’alto. La colonna di Hera Lacinia, la Colonna, quasi per la sua solitaria maestosità, ha probabilmente un fascino maggiore di quello che avrebbe avuto l’intero tempio, è quasi una carta d’identità, una cartolina, della regione. E anche complessi religiosi come S. Maria di Tridetti, S. Giovanni Theristi, sembrano affidare alla loro altezza un fascino che altri monumenti non hanno.
Per Simmel la rovina mostra una sintesi fra natura (intesa soprattutto come forza distruttiva) e opera d’arte. Il fascino della rovina sta, in ultima analisi, nel fatto che un’opera dell’uomo possa essere percepita come un prodotto della natura. Nel caso delle esperienze e delle percezioni popolari i criteri di valutazione e di apprezzamento non sembrano essere prevalentemente estetici, non sono esclusivamente estetici. Le rovine e, diversamente, i paesi abbandonati di Calabria si collocano in un contesto emozionale-affettivo e hanno una valenza sentimentale-identitaria che porta lontano dal carattere perturbante della fruizione estetizzante/sublime.
Le rovine non sono soltanto, come suggerisce tanta letteratura rovinologa, decadenza di costruzioni artistiche. Non tutte le costruzioni hanno un’intenzionalità artistica (anche se le funzioni artistiche e pratiche si confondono nella società tradizionale), ma prevalentemente pratica e non tutte le costruzioni esercitano violenza sulla natura, ma sono rapporti dell’uomo, anche lui essere naturale, con il proprio ambiente. Il legame con i ruderi, per come ho potuto osservarlo in Calabria, è legame fisico e affettivo con il mondo perduto dei padri, di cui si commemora la bellezza e la fatica. Non è l’altezza e l’imponenza o l’antichità del rudere a trasmettere sensazioni sublimi, è se mai l’orizzontalità, la bassezza, a sollecitare sentimenti di pietas. «I ruderi piangono», mi hanno detto quanti mi hanno accompagnato nella Cerenzia vecchia e nella Mileto vecchia, a Precacore e a Bruzzano. Il pianto dei ruderi svela il planctus di chi è rimasto.
I ruderi sono reliquie di corpi spezzati, separati, divisi, frammentati. Coloro che sono rimasti si riconoscono nei ruderi e con la loro nostalgia quasi mettono in atto strategie di risarcimento nei confronti dei paesi abbandonati. I ruderi stabiliscono collegamenti tra coloro che sono rimasti e coloro che sono partiti. Spesso i “partiti” non ritrovano più il paese popolato che hanno abbandonato, ma un paese che si è svuotato anche per la loro partenza. Gli emigrati hanno lasciato per loro uno spazio vuoto nelle tombe di famiglia per immaginarsi “presenti”.
Onde di nostalgie, di rimpianti, di risentimenti attraversano le pietre, le rocce, le grotte, i ruderi, le erbe che nascondono o proteggono le rovine, le piante di fico che accompagnano, come numi tutelari, le case abbandonate. Da un lato i ruderi ingenerano un senso di impotenza rispetto alla forza devastante della natura e appaiono in una sorta di inevitabilità (senza le rovine non ci sarebbero svolgimento, storia, successione), dall’altro essi restano i segni, le ferite, le metafore di ciò che il tempo non ha del tutto cancellato. Co stituiscono vie ed itinerari che ci legano al passato. Molte persone vivono ancora tenacemente nei paesi che si vanno giorno per giorno spopolando, e sognano una rinascita, una nuova vita per la propria comunità.
La rovina oggi viene «messa in scena» e, anche da noi, le rovine sono spesso un sipario dove si organizzano manifestazioni culturali, concerti musicali, esposizioni artistiche. Parchi archeologici, siti, castelli, centri storici vengono rivitalizzati grazie a iniziative che, anche quando pensate e calate dall’alto, trovano grande interesse e curiosità tra gli abitanti di quei luoghi.
Sono i locali però a mettere in scena le loro rovine, a riguadagnare i luoghi dell’abbandono, a riusare i centri storici, spesso cadenti e abbandonati. I “presepi viventi” vengono organizzati in paesi vuoti, in centri storici cadenti e quasi spopolati. Il presepe vivente rivela una sorta di nostalgia del “paese presepe”, di un luogo antropologico compatto, organizzato, vissuto. Se esiste come scena geografica, il paese presepe non esiste più come luogo antropologico. E tuttavia è la messa in scena di questo luogo vuoto che rivela un sogno di fondare nuova vita nel presente. Le rovine diventano lo «scenario» in cui le persone rappresentano la loro vita idea del passato e quella del presente. La rappresentazione del presepe vivente in paesi che non sono più presepe, se non urbanisticamente. C’è probabilmente la nostalgia di un paese che non c’è più.
Ho osservato, nell’ultimo decennio, i pellegrinaggi religiosi nei ruderi di Pentedattilo e di Africo, di Precacore (Samo) e di Brancaleone antica, di Cerenzia e di Nicastrello, di Soverato vecchia e di piccoli villaggi vuoti nell’Aspromonte e nella Sila (Teti 2006). Si tratta di un ritorno religioso nel senso che le persone cercano di stabilire un legame tra passato e presente, tra paese uno e paese due, tra luoghi separati, tra coloro che sono rimasti e coloro che sono partiti, tra antenati e cittadini del mondo globale. Il ritorno rituale tra le rovine attua una sorta di legame tra passato e presente, segnala la necessità di una continuità, a dispetto delle fratture catastrofiche.
Le feste tra i ruderi, tra i paesi abbandonati o a rischio di abbandono, ci ricordano anche che i luoghi non muoiono, nemmeno quando le persone se ne sono andate. I luoghi continuano a vivere fino a quando suscitano legami, fino a quando qualcuno avrà ricordo. Il paese morto è una prefigurazione di rischio e possibilità della fine dei nuovi paesi. Il paese morto diventa memoria che assilla, opprime, interroga il nuovo paese. I paesi morti della Calabria sono dunque testimonianza della caducità e lo specchio delle dispersioni e degli abbandoni odierni.
I ruderi mettono di fronte al passato, ma rivelano i sentimenti del presente. Sono defunti da dimenticare, o defunti da interrogare, da custodire. Come i defunti possono essere oggetto di oblio, di memoria, di continuità. Non si pensi ad atteggiamenti arcaici o tradizionali, siamo in presenza di comportamenti postmoderni, in cui la tradizione torna come negazione della tradizione o invenzione della tradizione, e i luoghi vengono ricostituiti, riabilitati, richiamati dopo essere stati abbandonati. I luoghi dell’abbandono conoscono una nuova sacralità. I luoghi dove si sono consumate esperienze di morte rivivono, in qualche modo rinascono e così si rifondano i nuovi luoghi, fuori e dentro la Calabria. I discendenti delle persone fuggite dai luoghi indicano nuove strade per la vita interna e dell’interno. Non sempre, quasi mai sono ascoltati da chi decide.
Ruderi e rovine non custodiscono soltanto tracce e memorie di un passato glorioso, conosciuto nelle sue linee essenziali. Nascondono o mostrano anche segni di una storia poco nota, rinviano a paesi cancellati dalla geografia, attestano eventi ed episodi poco noti, non per questo meno importanti per la costruzione critica di una identità plurale, controversa, delle popolazioni. La bellezza del paesaggio è fortemente segnata dalla natura, è anch’essa, in maniera a volte decisiva, una costruzione storica e culturale dell’uomo. Anche le rovine che evocano distruzione della natura e della storia – non bisogna dimenticarlo – sono state primariamente costruzioni degli uomini. I ruderi che segnalano abbandoni rivelano anche insediamenti e scelte abitative delle persone. Le rovine sono i segni della storia.
Custodire le rovine può apparire un non senso, ma è più terribile “rovinare le rovine”, abbatterle, ignorarle, nasconderle, aggiungere abbandono ad abbandono, cancellare i segni di altre dimenticanze e di una storia di catastrofi, annunciare e disegnare altre rovine. Le rovine possono rappresentare memoria, ma anche vita, diventare elementi di un diverso sentimento dei luoghi. Bisogna fare i conti con le nostre rovine, con gli oggetti delle nostra melanconia e dei nostri rimorsi. Bisogna riconoscere le rovine come le nostre ombre, trasformarle in itinerari di vita, inserirle in percorsi di bellezza e di rinascita. È una lezione e un messaggio che ci arriva dalle popolazioni che, con i loro riti, i loro discorsi, le loro memorie, intrattengono un legame con le rovine del passato.
I paesi morti, in particolare, appaiono segni di una fine che l’Occidente continuamente si preannuncia fin dall’“origine”. Metafora dell’impossibilità d’uscire dalla coscienza storiografica, ma anche di quella di uscire dalla storia. I paesi morti, i ruderi, le rovine alimentano la coscienza storiografica, segnalano la possibilità e il rischio della fine, ma provocano smarrimento nell’uomo moderno per cui la morte è svuotata di senso religioso.
Minute rovine, pietre, ferite della natura anche nei luoghi più appartati e periferici del nostro Occidente, quelle che sfuggono all’occhio di chi rinnova continuamente i centri storici, quasi auspicando un eterno presente e costruendo però in maniera uguale in tutte le città del mondo, si collocano come segni di una vicenda di una più vasta storia occidentale e mondiale, ma anche nella loro peculiarità, nel loro senso locale. È forse dalle esperienze locali che possono arrivare spie per individuare nuovi percorsi.
Le rovine della Calabria hanno un loro senso anche in rapporto alle rovine di altre parti del mondo. I “crolli” dei nostri paesi, delle strade, delle case, non possono essere ormai considerati separatemente dai crolli delle torri, dalle distruzioni belliche. Dicono che i familiari delle vittime si aggirino a Ground Zero per trovare oggetti e resti degli scomparsi, che vanno ad acquistare oggetti nella speranza che siano appartenuti ai loro cari, che comprano pugni di terra del luogo che sostituisce la sepoltura. La paura e il rischio della fine portano verso quella sacralità che sta scomparendo. Sappiamo che gli emigrati tornano per visitare i resti dei paesi abbandonati dove sono nati i loro antenati, i loro padri. Partecipano alle feste, ai pellegrinaggi. Rimpastano e rielaborano i ruderi. Gli conferiscono nuovo senso.
Tutti i discorsi sulla fine della storia (fine della rovine o trionfo assoluto delle rovine) non cancella, ma anzi accentua, il rapporto affettivo delle persone con quello che hanno smarrito o abbandonato e anche con quello che temono di perdere. E ciò è talmente vero che, nei luoghi della modernità, si assiste alla costruzione postmoderna di finte rovine per oggettivare un sentimento che, in quanto uomini, forse abbiamo bisogno di provare. È talmente vero che nella Calabria, luogo diversamente moderno, si assiste alla ricerca postmoderna di rovine da curare, da visitare e paesi abbandonati diventano luogo di culto e di ritorno. Le rovine in un certo senso, pure vere, vengono anche qui reinventate, riorganizzate, “ricostruite” per affermare una diversa presenza. Questo senso “religioso” delle rovine convive assieme alla pratica di devastare e di costruire nuove rovine, di creare un presente di rovine. Quale atteggiamento prevarrà? Ci sono segni che sembrano dare ragione alle visioni più apocalittiche e segni che alimentano speranze. Difficile prevedere. Ma forse da un nuovo senso, “sacro” e “religioso”, di esserci e di rapportarci al passato e al mondo occorre ripartire per poter almeno riconoscere e controllare il terrore della storia e lo sgomento della fine.
Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
[*] Lo scritto qui proposto costituisce revisione e approfondimento di tematiche trattate dall’autore in altri volumi, saggi, articoli pubblicata da inizio anni Novanta e che, del resto, si lega a contributi apparsi, nel tempo, su Dialoghi Mediterranei.
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Zanotti Bianco U., “La Magna Grecia”, in «Il Ponte», anno VI, n. 9-10, settembre-ottobre 1950.
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Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003); Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017). È componente di numerosi organismi scientifici, italiani e stranieri, e membro di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere. È tra l’altro responsabile dell’Icaf, la sezione italiana dell’Associazione Europea di Antropologia dell’Alimentazione. Fa parte della Deputazione di Storia Patria per la Calabria ed è nel Comitato Scientifico della Rivista “Rogerius”.
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