di Lisa Regina [*]
Blessing mi blocca sulla porta dell’ufficio alle 19.25 di un venerdì, mancano cinque minuti alla fine del turno. Giuro che se è per le pulizie della struttura questa volta me ne vado in orario. Invece mi dice che andrà dal suo fidanzato a Mantova per il fine settimana. Avvolto nel pagne in wax verde acido, Destiny dorme sulla sua schiena. La guardo. Sorride, è strumentale e so che non mi sta chiedendo il permesso, come so che probabilmente non andrà nemmeno a Mantova, ma una piccola comunicazione è meglio di quando sparisce staccando il telefono. I telefoni. Starà via tre giorni dice, li conta con le dita, partendo dal mignolo, anulare, medio. Nessun bagaglio, addosso ha solo Destiny, una parrucca posticcia in stile riccio afro di plastica, una maglietta e un paio di leggins leopardati di due taglie più piccoli.
Però è bella Blessing, profuma di talco e quando ride gorgoglia. A volte la osservo quando parla con altre ragazze nigeriane come lei. Sguaiate, mentre sono sedute a tavola in salotto guardando un film di Nollywood sul cellulare. Urlano, insultano il personaggio che ha tre fidanzate o la donna che tradisce il suo uomo come se loro potessero sentirle. Ridono con la bocca aperta. Origlio quando parlano tra di loro in pidgin, dopo tanti anni ho imparato qualche frase, ma più che i contenuti mi piace guardare i loro modi, come cambiano lo stile di interazione, sono molto diverse da come si relazionano con i vari “noi istituzionali”. Sembrano altre, sembrano più libere. No Wahala [1].
Di recente un collega insegnante di italiano mi ha spiegato che la struttura del pidgin nigeriano è simile all’italiano, anche se più semplificata, ma dato che nessuno lo sa continuiamo ad utilizzare l’inglese come lingua di insegnamento facilitando la comprensione ma complicando i meccanismi di apprendimento. Dice che finché continueremo così non riusciremo mai a metterle nella condizione più semplice per rendersi spendibili, adeguate al contesto di inserimento. Forse poco adeguate, ma che belle che sono, mentre mangiano l’egusi soup [2] con le mani e ballano Yemi Alade agitando i culi marmorei.
Ma l’atteggiamento di Blessing ora è molto diverso con me, sorride solo con la bocca, aspetta che io le dica che va bene e che non perderà il pocket money per i tre giorni contati sulle dita. Le guardo le mani e lo smalto sbeccato. Io lo so che sta andando a prostituirsi. A farsi prostituire. Perché deve 45 mila euro a Cinthya.
Cinthya è la sua maman, la sua sponsor, la donna che l’ha fatta trasferire da Caltanissetta verso il centro nord a seguito dello sbarco e che da allora la chiama in continuazione. A volte la contatta per darle appuntamenti, altre solo per controllarla. La sento urlare al telefono, non lo smartphone, quello piccolo che usa anche per le chiamate internazionali, non capisco cosa si dicano perché parlano Edo, ma non è che Blessing dica molto durante le telefonate, sì o no, più sì che no a dire il vero e poco altro. E forse non ha nemmeno un fidanzato, ma un Purray boy, o Centro boy [3] che spera che la sposi, alla fine di tutto. Come Blessing molte migliaia di ragazze hanno un fidanzato da sposare che le riabiliti socialmente e un debito da pagare che le liberi definitivamente.
Sono le donne vittime della tratta ai fini dello sfruttamento sessuale.
La tratta ai fini dello sfruttamento sessuale
Il tema delle migrazioni internazionali forzate verso l’Europa è da anni incandescente. In particolare nell’ultimo decennio una categoria specifica di migranti ha caratterizzato gli ingressi illegali dai confini italiani di terra e soprattutto di mare. Sono giovani ragazze di origine nigeriana, prevalentemente provenienti da una stessa area geografica, le vittime di tratta; donne trasportate come merci da un luogo all’altro del mondo con lo scopo di indurle alla prostituzione. Si tratta di un fenomeno antico, i primi flussi migratori riconducibili a questa specificità risalgono agli anni ’80, anche se con caratteristiche differenti.
Se il concetto di prostituzione è culturalmente determinato, lo sfruttamento è un fenomeno piuttosto semplice e omogeneo. È soprattutto a partire dalla fine degli anni ’90 che si inizia a ricondurre i movimenti di giovani donne irregolari dalla Nigeria all’Europa ad un’organizzazione strutturata e ramificata in tutta Europa ma soprattutto in Italia. Quella che viene definita mafia, o meglio, mafie nigeriane, spesso connesse a organizzazioni riconducibili al sistema delle confraternite o cultism [4], particolarmente diffuse in alcune zone del Paese.
Il tema della criminalità organizzata è estremamente complesso e aggrovigliato, in costante evoluzione e dotato di una notevole capacità di mutazione e adattamento al contesto migratorio. Si tratta tendenzialmente di un gruppo strutturato che fa capo ad una testa elitaria radicata in Nigeria, e ad una serie di cellule a struttura piramidale che occupano svariati compiti e ricoprono diversi ruoli, alcuni fissi e duraturi, altri brevi e veicolati da richieste specifiche o temporanee. In base alla posizione nella piramide si determina il potere, e soprattutto il guadagno. I tanto agognati big money.
La grande organicità e parcellizzazione del sistema rende estremamente difficile risalire ai vertici, e anche seguire, e quindi quantificare con esattezza, il flusso di denaro generato dai profitti è molto complicato, dato che per giungere a destinazione compie un infinito numero di passaggi; tutto ciò contribuisce al mancato focus del fenomeno nel complesso. Un gigante di cui intravediamo soltanto i piedi e che si differenzia dal traffico di persone perché il legame con lo sfruttatore non si interrompe una volta varcati i confini del Paese d’ingresso, ma continua, perpetrando un crimine transnazionale in grave violazione dei diritti umani fondamentali.
Come tutti i sistemi criminali ben strutturati si infila tra le maglie delle istituzioni, approfittando di ciò che può essergli utile; una sorta di parassitismo di alcuni servizi fondamentali e garantiti a persone in estrema difficoltà che ha contribuito a risolvere alcuni dei problemi più gravosi per l’organizzazione, i documenti delle vittime prima di tutto, i posti letto, il loro sostentamento e l’assistenza in generale. Ma pur essendo un buon piano presenta alcune imperfezioni che si sono rivelate un’arma a doppio taglio: trafficking e sistema di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo e rifugiati sviluppatosi negli ultimi anni, ad esempio, si sono intrecciati contribuendo all’emersione del fenomeno che ha assunto una portata notevole. Si stima infatti che circa l’80% (dati rapporto ActionAid 2018) delle giovani donne e ragazze provenienti dalle aree meridionali della Nigeria siano “trafficate” per essere immesse nei circuiti della prostituzione forzata, o lo siano state in passato. E rimane alto il rischio reale che possano nuovamente esserlo.
«La ‘tratta di persone’ implica […] il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o il raccogliere persone tramite l’impiego o la minaccia dell’impiego della forza o di altre forme di coercizione, rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di posizioni di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha l’autorità su un’altra a scopo di sfruttamento, ove quest’ultimo comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe e il prelievo di organi. Si specifica inoltre che nel caso di vittima di tratta, il consenso deve ritenersi irrilevanti laddove siano stati utilizzati i mezzi di cui sopra» [5].
Si è discusso molto della consapevolezza delle vittime rispetto ai rischi dello sfruttamento, in pochi in Europa conoscono le (inefficaci, o parzialmente efficaci) misure di informazione e contrasto allo sfruttamento della prostituzione messe in campo dal governo nigeriano, come la NAPTIP [6], ma ancora meno conoscono il contesto di provenienza delle ragazze, tassello fondamentale per avvicinarsi al tema. Molto ancora sembra sfuggire di un fenomeno di cui si parla molto senza tuttavia proporre analisi di senso che tengano conto dell’effettiva complessità sociale, culturale e politica del contesto.
Il contesto, un gigante dai piedi d’argilla
Nigeria. Più che uno Stato, un pianeta. 36 Stati federali più la capitale Abuja. Più di 196 milioni di abitanti [7], una crescita demografica costante e esplosiva che lo rende lo Stato più popolato del continente. 250 gruppi etnici riconosciuti, 519 lingue viventi più un numero indefinito (infinito?) di lingue parlate. La culla della civiltà, sede di un patrimonio culturale inestimabile e di una produzione artistica che non ha eguali nel mondo. Ma non solo. La Nigeria è diventato anche il Paese più ricco del continente superando nel 2017 il PIL Sud Africa.
Eppure la Nigeria, chiamata affettuosamente Naija da molti dei suoi figli, è un colosso fragile, perché la sua situazione generale non ha ancora conosciuto un momento di reale stabilità politica e sociale. Dal giorno dell’indipendenza del 1960 lo scenario è stato costellato dai numerosi colpi di stato militari fino alla transizione democratica che nel 1999 ha portato alla stesura della nuova Costituzione. Altissimo anche il tasso di corruzione percepita, nell’analisi del 2017 i nigeriani collocano il Paese al posto n.148 su 180 Paesi – l’Italia occupa la posizione n.54 [8] – in connessione con il sistema del cosiddetto godfatherism [9]; per una fetta importante della popolazione sono i Big Man a costruire l’élite al potere e a governare l’andamento del Paese. Queste percezioni, unite ad un’enorme disparità nella distribuzione delle risorse tra le varie aree del territorio e i principali gruppi etnici che le abitano, contribuiscono a causare un clima di generalizzata ingiustizia sociale che conta il più alto numero di persone che nel mondo vivono sotto la soglia di povertà, ben il 62% [10].
Da un punto di vista etnico (o meglio, linguistico), la popolazione è estremamente eterogenea anche se i cosiddetti big three occupano un posto di rilievo nella struttura sociale. Gli Hausa/Fulani, principalmente radicati negli Stati più a nord del Paese, gli Yoruba, abitanti delle aree a sud ovest e discendenti da importanti imperi, e gli Igbo, che all’inizio degli anni ’70 sono stati protagonisti di un terribile conflitto al culmine di un processo di rivendicazione di indipendenza dell’area sud-orientale che abitano e che definiscono Repubblica del Biafra, tutt’oggi in corso.
In questa grande complessità, un’area geografica tra tutte pare essere centrale nel fenomeno della tratta ai fini dello sfruttamento sessuale delle donne nigeriane. Si tratta della zona “south south”, che da Lagos si allunga verso il Delta del Niger e che identifica il suo cuore pulsante nello Stato di Edo.
Edo State, grande all’incirca come la regione Veneto, ospita più di 4 milioni di abitanti ed è considerato un grande polo attrattivo da un punto di vista economico e culturale; a causa dello suo sviluppo industriale rapido sregolato degli ultimi decenni, purtroppo è anche un’area largamente compromessa dal punto di vista ambientale. L’impoverimento del suolo e la contaminazione delle acque hanno ridotto la possibilità di sfruttamento delle risorse da parte degli agricoltori e pescatori, contribuendo ad accendere profondi conflitti di rivendicazione territoriale. La guerra alle “sette sorelle” [11], e alle compagnie petrolifere colpevoli di avere espropriato e ammalato porzioni di territorio una volta destinate allo sfruttamento agricolo e ittico, conta oggi più di 48 gruppi di contrasto e sabotaggio, tra cui il conosciuto MEND (movimento per l’emancipazione del Delta del Niger) che con le sue azioni di sabotaggio non ha contribuito a ridurre i rischi di dispersione di petrolio e di inquinamento.
Ma è soprattutto Benin City, capitale dello Stato, ad attrarre flussi migratori interni provenienti dagli Stati circostanti. Numerosi nigeriani originari di Delta State o di Imo State si spostano verso ovest in cerca di opportunità. Nel corso degli ultimi dieci anni la città è stata protagonista di un’urbanizzazione selvaggia arrivando a registrare 1 milione e 500 mila abitanti nel 2014 a fronte dei 50 mila di inizio anni ’90. Un ritmo di crescita costante e rapidissimo a cui non si è accompagnata un’armonizzazione socio-economica degli abitanti; una fetta importante della popolazione vive infatti in condizioni di povertà estrema con solo 1,90 euro al giorno. Nelle aree periferiche si registra inoltre un forte tasso di criminalità e di insicurezza generale, rapimenti a fini estorsivi, rapine e furti.
Edo State in generale e Benin city in particolare rivestono ancora un’importanza storico-culturale fondamentale, essendo l’ultimo baluardo dell’antichissimo regno di Benin, governato dall’Oba, noto per la fortissima influenza politica del sovrano, la ricchezza culturale del regno, la produzione artistica degli artigiani e anche per essere stato al centro del commercio di schiavi fino al 1700. Successivamente il regno di Benin è stato protagonista del commercio di olio di palma fino alla distruzione e al saccheggio da parte degli inglesi di fine 1800 il cui bottino oggi si può ammirare nei principali musei europei che conservano elementi pregiatissimi dell’arte rituale e cerimoniale trafugata e mai restituita. Alcuni dei pregiati bronzi originari del Regno di Benin sono in esposizione fino a settembre a Bologna in occasione della mostra Ex Africa [12], testimonianza di una ricchezza culturale inestimabile quanto scarsamente conosciuta e soprattutto riconosciuta.
La monarchia venne infine restaurata nel 1914, dopo 17 anni di esilio del sovrano, e anche se il suo potere non è più stato decisivo come un tempo, la figura dell’Oba rimane ampiamente riconosciuta dalla popolazione maggioritaria, Edo/Bini. Centrale nel 1700 durante il commercio degli schiavi verso il nuovo mondo, oggi protagonista di una nuova forma di traffico. È infatti da questa terra che sono partite le più di 11 mila donne sbarcate sulle nostre coste tra il 2016 e il 2017, portando ad un aumento del 633% dalle stime del 2014 (dati Openmigration.org); di queste, l’80% di loro presenta indicatori riconducibili alla tratta e la maggior parte è di origine Edo/Bini.
Ma cos’è la tratta, come nasce e come si ramifica e chi sono i protagonisti?
Il ciclo della tratta, tra tradizione e innovazione
Nonostante le migliaia di ragazze coinvolte nel sistema di sfruttamento rappresentino un gruppo eterogeneo in termini di contesto socio-culturale di provenienza e condizioni di vita pre-partenza, è possibile tracciare un profilo generale partendo da alcuni tratti comuni.
Sono principalmente ragazze giovani (18-27 anni, anche se le età dichiarate difficilmente sono quelle reali e sono coinvolte molte minorenni), per la maggior parte provenienti da Benin City o dalle campagne circostanti, anche se non necessariamente originarie di Edo State. Emergono da contesti sociali caratterizzati da condizioni economicamente precarie, e presentano uno scarso livello di istruzione. Molte sono analfabete. Tra i tratti in comune rilevati ci sono inoltre situazioni famigliari instabili con molti componenti in condizione di vulnerabilità e in cui le figure di riferimento sono disoccupate o sottoccupate, numerosi anche i casi di violenza domestica e di genere o presenza di eventi critici che hanno portato ad un netto peggioramento delle condizioni di vita, come l’abbandono o la morte da parte di un membro forte della famiglia (generalmente un genitore o un parente di riferimento) o l’espulsione dal nucleo a seguito di eventi particolari (gravidanze indesiderate, rottura di legami).
Le vittime si trovano quindi generalmente in una condizione di forte vulnerabilità dove la possibilità di migrazione, anche se illegale, rappresenta un’effettiva possibilità di migliorare le condizioni di vita per sé e per la famiglia di riferimento di cui diviene responsabile. Il reclutamento generalmente avviene nei contesti più frequentati da queste donne, ad esempio nei mercati, dove l’aggancio parte quasi sempre da una figura femminile di rilievo, una donna adulta, ben vestita, spesso appartenente alla cerchia famigliare, una zia o una vicina che dopo avere avuto successo in un precedente percorso migratorio è tornata in patria e ha deciso di prendere a cuore la situazione della ragazza. La futura maman, o meglio, la sponsor esprime il desiderio di offrire alla giovane le stesse opportunità ricevute e si offre così di investire sul suo progetto occupandosi del trasferimento e di tutto ciò che concerne il viaggio, dai documenti alle spese economiche. Le famiglie delle vittime generalmente sono coinvolte in questa decisione e sovente sono loro stesse a supportare (e a spingere) le ragazze nella decisione di partire.
Le ragazze rimangono affascinate dalla ricchezza e dal successo delle maman, spesso chiamate anche Italo, termine che identifica donne trafficate in passato che una vota estinto il debito si sono a loro volta arricchite con il sistema della tratta. Le Italo, alimentando il concetto della tratta come «un sistema che si auto-riproduce» (Carling 2005), hanno fatto ritorno in Nigeria ricche, sposate con altri trafficanti o membri della rete, aggirando così il rischio dello stigma sociale. Poco importa quindi l’origine del loro successo. Non solo hanno evitato l’esclusione data dal comportamento anti-sociale che non hanno avuto bisogno di nascondere, ma anzi, proprio grazie ad esso sono arrivate ad occupare un ruolo di prestigio. Questo modello illude le vittime di poter aspirare allo stesso successo e le convince ad accettare univocamente le condizioni del contratto. Secondo i recenti rapporti (EASO 2018) è quindi ormai sdoganata la concreta possibilità che né le famiglie, né le giovani siano all’oscuro dell’attività che sarà loro richiesta una volta arrivate in Europa, e che la possibilità di prostituirsi non sia considerata un tabù assoluto. Tuttavia l’inganno fonda la sua potenza su questa consapevolezza che porta all’accettazione e che in realtà è fasulla e parziale.
La ragazza sa bene che si dovrà prostituire, ma ne ignora le condizioni. E proprio sull’inganno delle conseguenze si stabilisce la relazione di potere che di fatto contribuirà a renderle schiave. La sponsor, coadiuvata dai masters che spesso fanno riferimento ad altre forme di associazionismo para-sociale, come le confraternite afferenti al sistema del cultism, organizza il viaggio e stabilisce le regole. Tutto ciò ha un costo che necessita di garanzie rispetto al saldo. Dove la parola non basta si ricorre al giuramento al cospetto delle divinità tradizionali attraverso il rituale juju, che lega inesorabilmente sfruttatrice e sfruttata in un matrimonio dai tratti confusi.
Il rituale juju si fonda su meccanismi ampiamente conosciuti e riconosciuti dalle vittime, che anche se non sono legate ai credo religiosi tradizionali ne riconoscono l’efficacia e l’autenticità perché patrimonio della propria cultura tradizionale. Il rito juju, aggrappandosi al sistema di significati condivisi con le vittime, spezza le credenze di riferimento, e approfittando della loro convinzione di muoversi in un terreno conosciuto e dalle regole condivise, strumentalizza la tradizione sbilanciando l’equilibrio di energie e di potere a favore dei trafficanti, al fine di creare una dipendenza fisica e psicologica della vittima nei confronti della maman. Durante il rituale celebrato da un native doctor in templi rituali (shrines) lontani dai contesti abitati, viene costruito un ebo, un’offerta composta da elementi rituali come erbe e pozioni e componenti biologiche della vittima considerati identificativi, ad esempio capelli, unghie, saliva e sangue. L’ebo così composto viene successivamente diviso e spartito tra il native doctor che ha officiato il rito e i trafficanti che di fatto si impossessano di una parte dell’identità della persona. La parte destinata alle ragazze viene invece fatta loro ingerire, trasformandole allo stesso tempo da ingredienti del rito a tempio del juju stesso. Da quel momento il corpo e l’identità della persona non appartengono più totalmente a lei ma risultano scisse e sparpagliate.
Di fatto a garanzia del debito la donna impegna l’unica cosa di valore che possiede, se stessa. Solo una volta pagato quanto dovuto potrà riavere le sue componenti mancanti e ricostruire la propria unicità identitaria. Quando inizia il lungo viaggio, Blessing e le altre sono già state svuotate della loro libertà, ma ancora non lo sanno. Sono a conoscenza di avere contratto un “matrimonio” attraverso il juju, che la loro ricca e generosa aunty ha anticipato i soldi del viaggio e del passaporto. Cinthya ha parlato di euro, Blessing conosce solo naira e kobo, ma ci penserà una volta arrivata in Europa a restituire quanto dovuto. Le donne passano di mano in mano ai pusher, ai trolley, ai boga [13], che le spediscono come merci verso il Nord Africa. Viaggiano in piccoli gruppi, in auto, a volte in moto-taxi e per la prima parte del viaggio nessuno chiede loro nulla.
La Libia e la sua instabilità hanno messo a dura prova le organizzazioni criminali di stampo mafioso che vedono la prostituzione non come obbiettivo finale dei loro traffici, ma come mezzo fondamentale attraverso cui ottenere denaro liquido necessario per i loro investimenti. Mezzo quindi da proteggere il più possibile affinché non si rovini. Di necessità virtù, l’intensificarsi degli scontri e la presenza di gruppi armati hanno oscurato per quella parte di viaggio il ruolo delle maman, più a rischio e meno autorevoli in quanto donne in un contesto fortemente caratterizzato dalla presenza islamica, così da favorire l’ingresso di nuove reclute, giovani uomini, spesso membri di confraternite che hanno iniziato a partecipare al sistema dovendo mettere alla prova la loro fedeltà occupandosi del trasporto della merce preziosa: i trolley, o boga, dalla contrazione di burger sia per i locali dove si ritrovano per reclutare nuove giovani, sia perché ricalcano la velocità di consegna del cibo nei fast-food. A questi ragazzi, induriti e gonfiati, è richiesta fedeltà cieca, ottenuta con un vero e proprio sistema di affiliazione ed è loro affidato il controllo delle ragazze, durante il viaggio e anche una volta arrivate in Libia, quando vengono stipate nelle connection houses, dove devono essere addomesticate.
L’inganno assume vividezza nel caldo e nella polvere. Nell’odore di sporco e sudore, nel sangue delle botte e negli stupri continui che da un lato hanno l’obbiettivo di piegare le ragazze più reticenti e fare sì che una volta giunte a destinazione siano totalmente asservite, dall’altro a educare i giovani boga a non avere pietà. Quando Blessing sale sulla barca non ha ancora versato un euro per pagare il suo debito ma è già stata venduta a centinaia di uomini, è già stata stuprata e picchiata, ha perfettamente compreso che l’unica strada è quella che ha davanti a sé. Per tornare indietro è troppo tardi. In alcuni casi i boga o i trolley viaggiano con le ragazze a piccoli gruppi anche lungo la traversata, raramente è presente una maman o una piccola maman, più di sovente ricompare in Italia a seguito dello sbarco quando la ragazza deve iniziare ad andare in strada per restituire quanto dovuto.
Le procedure di identificazione allo sbarco sono brevi e sommarie. Alle ragazze è stato insegnato come mentire e spesso di vero non c’è né il nome, né ancora meno l’età. A seguito dello smistamento nei vari centri di prima accoglienza viene spiegato loro come saranno ricontattate, o chi chiamare, o ancora dove dovranno dirigersi. È difficilissimo sfuggire a un controllo così ramificato. I boga sono ovunque e le ragazze non possono fidarsi di nessuno perché ci sono occhi e orecchie anche nei centri d’accoglienza. Il clima di sospetto è il mezzo di controllo più efficace.
Il debito infine emerge ed appare evidentemente inaffrontabile, anche se l’enorme offerta ha con gli anni ridotto la cifra che dieci anni fa si aggirava intorno ai 70 mila euro, oggi oscilla tra i 40 mila e i 25 mila. Tre anni di prostituzione, stimati in circa 4000 rapporti. A cui si aggiungono multe, sanzioni, affitti, costo per la piazza, per i vestiti e per il cibo. Qualcuna inizia a ripensarci.
Nella reticenza del pentimento, nel pensiero di avere fatto un errore, prende forma la paura del giuramento. Un patto di sangue a cui le giovani donne hanno partecipato attivamente con il loro corpo, che ora pensano con terrore che non le appartenga più. Il trauma migratorio esplode, al calare della necessità di tenersi in vita, e la sintomatologia traumatica soffoca le vittime. Il corpo fa male, la pancia brucia e i pensieri sbattono furiosamente nella testa. Non riescono a concentrarsi, sentono le estremità andare in fiamme. Vivono orrendi flashback e di notte non dormono per non essere tormentate da sogni intrusivi. La medicina occidentale non aiuta, non c’è nulla di patologico, eppure Blessing e le altre sentono di stare male. Il juju attraversa la mente e insinua il dubbio che il tradimento sia una condizione persino peggiore dello sfruttamento.
Generalmente è a questo punto della loro storia che il sistema istituzionale o del terzo settore le incontra. Si tratta di un rapporto difficile, perché la scarsa conoscenza del fenomeno e del contesto alimenta una serie di ingenui stereotipi a cui a volte ci si aggrappa per giustificare il fallimento degli infiniti interventi progettuali volti all’emersione. Le nigeriane sono bellicose, sono violente, sono sciatte. Stanno solo tra di loro, fanno branco. Non imparano l’italiano, parlano con un tono di voce sempre oltre il limite della decenza. Come se la migrazione intercettata dalle accoglienze rappresentasse l’intera complessità del Paese e non la specificità di un fenomeno circoscritto, per quanto complesso.
La vera domanda che chi lavora in progetti di sostegno per questa tipologia di donne, migranti, vittime di estrema violenza fisica, psicologica e culturale si deve porre, è: qual è l’obbiettivo che muove queste donne? Cosa le spinge a partire nella consapevolezza seppur parziale di quello che potrebbe accadere loro? E una volta arrivate, che cosa sono disposte a fare e a sopportare pur di raggiungerlo? Solo partendo da questi interrogativi è possibile individuare una metodologia reale con cui i progetti di integrazione possano sostenere queste donne a costruire un futuro per il tempo che decideranno rimanere. Breve o lunghissimo che sia.
Destiny inizia a russare e Blessing mi fissa ancora interrogativa. Mi verrebbe voglia di dirle che, essendo in grado di andare a Mantova da sola, lunedì a sistemare il codice fiscale all’agenzia delle entrate potrebbe andarci per conto suo. Ma è nelle lunghe attese che mi confida le cose più interessanti e più intense di lei. Come quando mi ha raccontato che a un certo punto del viaggio mentre era nel mezzo del Mediterraneo pochi minuti dopo il tramonto, improvvisamente è diventato tutto blu scuro. Blu sopra e blu sotto, attorno alla barca c’era solo il blu, e non sapeva più se stesse galleggiando o volando.
Così ricaccio indietro il pensiero e le chiedo solo – torni, si? Lei ride, questa volta con tutta la faccia e anche un pezzo di capelli posticci, annuisce decisa, I go come back. I dey fine. [14]
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
[*] Le fotografie presenti nell’articolo sono state realizzate da Anna Vinciguerra, fotografa e operatrice dell’accoglienza e sono state raccolte e presentate nella mostra “Home sweet home”, a cura di Associazione MondoDonna Onlus (http://www.mondodonna-onlus.it/)
Note
[1] Nessun problema- NPE Nigerian pidgin english
[2] Piatto tipico nigeriano molto diffuso.
[3] Figure maschili che ruotano nel circuito del trafficking, spesso hanno ruoli di connessione con la maman, in altre occasioni fungono da accompagnatori delle ragazzo, oppure hanno ruoli di monitoraggio delle piazze.
[4] Vikings, Black Axe Eiye sono alcuni dei gruppi più numerosi e conosciuti che hanno sviluppato cellule anche in Europa.
[5]UN, The Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children, supplementing the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, 15 November 2000-Protocollo di Palermo.
[6] National Agency for the Prohibition of Trafficking in Persons-Agenzia antitraffico nigeriana fondata dal governo nigeriano nel 2003, fa capo al ministero federale della giustizia. https://www.naptip.gov.ng/
[7] https://www.populationpyramid.net/it/nigeria/2018/
[8] CPI-trasparency International 2017
[9] Forma di squilibrio politico dove un membro influente favorisce politicamente un conoscente/amico/richiedente e influisce sull’andamento delle decisioni in termini di elezioni, concessioni ecc…
[10] Action Aid, rapporto 2018
[11] Raggruppamento delle principali compagnie petrolifere più influenti.
[12] https://www.mostrafrica.it/
[13] Figure maschili connesse con il sistema del trafficking
[14] Torno, va tutto bene (sto bene) NPE Nigerian pidgin english.
Riferimenti bibliografici
Action aid, mondi connessi, la migrazione femminile dalla Nigeria all’Italia e le sorti delle donne rimpatriate, Rapporto 2018.
Braimah, T. S., Sex Trafficking in Edo State, Nigeria: Causes and Solutions, 1 June 2013, in: Global Journal Of Human Social Science, Vol. 13, Issue 3.: 17-29.
Carling, J., Trafficking in Women from Nigeria to Europe, Migration Policy Institute, 1 July 2005.
EASO, Informazioni sui Paesi d’origine- Nigeria, giugno 2017.
EASO, Nigeria la Tratta di donne a fini sessuali, 2015.
Omoregie P. I., The economy of international prostitution in Benin and the place of Purray boys, Ifra Nigeria n. 34, 2017.
https://www.nigerdeltabudget.org/new/index.php/overview-of-edo-state
https://italy.iom.int/sites/default/files/news-documents/IOMReport_Trafficking.pdf
https://www.naptip.gov.ng/
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Lisa Regina Nicoli, antropologa e ricercatrice esperta di religioni afro-brasiliane e afro-caraibiche, si occupa dello studio delle culture e tradizioni di matrice africana, con focus specifico sulle religioni Vodoun. Da dieci anni si occupa di migrazioni internazionali, della tratta ai fini dello sfruttamento sessuale e dei sistemi di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati.
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