Non è semplice fare un resoconto di questo bel volume uscito da poco per Donzelli e curato da Antonio De Rossi, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, perché è un testo denso, coraggioso e multidisciplinare, ricchissimo di dati e di informazioni su esperienze e politiche che rappresenta il primo progetto editoriale sulle aree interne voluto dall’editore Donzelli e sul quale è prevedibile che si investirà ancora nel futuro.
Sui rapporti tra la “polpa e l’osso” dell’Italia, come aveva posto la questione Manlio Rossi Doria negli anni Cinquanta [1], non è la prima volta che in Italia si riflette con inchieste e ricerche, che si indaga sulle relazioni tra le aree produttive e urbanizzate – la pianura-polpa – e le aree più interne; quelle aree che, paradossalmente, sul piano geografico esprimono invece proprio la spina dorsale interna dell’Italia, appunto quell’osso che a partire dagli anni Venti del Novecento inizia a prosciugarsi, a seccarsi con lento e continuo movimento fino ad oggi, con un’accelerazione negli anni del secondo dopoguerra, del boom economico. Negli anni Venti e Trenta del Novecento la grande inchiesta promossa dal Comitato per la Geografia del Consiglio Nazionale delle ricerche e dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria Lo spopolamento montano in Italia. Indagine geografico-economico-agraria, ha rappresentato un momento importante per la ricerca pubblica per la presa di coscienza del problema. Un’opera in più volumi ancora attuale e a tratti sorprendente per la continuità che mostra rispetto ai problemi che ancora oggi affliggono queste aree, rispetto ai quadri di sviluppo nazionale che hanno privilegiato le politiche industriali nella pianura e nelle grandi aree urbane rispetto alle vocazioni produttive dell’“osso” e all’agricoltura pedemontana e montana. E poi negli anni a seguire, ancora molte altre inchieste sono state fatte in tutta la penisola, piani, misure, azioni e politiche tra nord e sud che hanno cercato di studiare e contrastare lo svuotamento di quelle migliaia di piccoli e piccolissimi comuni conseguente a politiche che hanno marginalizzato i piccoli centri che non potevano adeguarsi al modello urbano, sottraendo servizi (scuole, presidi sanitari, etc.) e dove la riconversione al turismo ha fatto più vittime (abbandono delle antiche attività produttive) che vincitori.
Senza bisogno qui di entrare troppo nel merito dei dati relativi allo spopolamento, che sono dati noti ed inesorabili (un migliaio di paesi completamente abbandonati e una montagna che ha perso quasi un milione di abitanti), con alcune eccezioni (Trentino e Valle d’Aosta) [2], il volume si confronta soprattutto con la Strategia Nazionale per le Aree Interne, una azione promossa nel 2012 dall’allora Ministro per la Coesione, Fabrizio Barca con la costituzione di un Comitato Tecnico, che ha voluto affrontare per gli anni 2014-2020 la questione dello sviluppo del Paese a partire da una visione di insieme sul Paese che partisse da quel sessanta per cento di piccoli comuni italiani lontani dai servizi essenziali e in via di spopolamento demografico ma ricchi di valori, risorse e opportunità di vita diversi rispetto al modello urbano [3].
Il volume parte quindi da qui. Parte da una prospettiva diversa sulle aree interne che non guarda a queste come delle aree “ritardatarie”, da aiutare secondo una visione paternalistica o riformatrice, ma come luoghi dei quali cogliere le potenzialità proprie, ascoltandoli come territori nei loro sviluppi recenti e da dotare degli stessi diritti di cittadinanza del resto del Paese. Il risultato è un volume molto articolato e ricco di dati e vedute, che vuole affrontare la questione delle aree interne e dello spopolamento dei piccoli centri con un taglio chiaramente multidisciplinare, dove si esprimono i punti di vista di più competenze tra urbanisti, architetti, sociologi, economisti, geografi, antropologi, territorialisti, giornalisti. E che per questo porta il lettore ad un cambio di passo continuo nella scrittura, dove si passa dalla visione dall’alto delle mappe e dei grafici, al testo intimo e teso, emotivamente ed eticamente, dell’antropologia (Vito Teti che parla di “sentimento dei luoghi” e della nostalgia come valore rigenerativo), passando per la storia delle aree interne, i dati quantitativi, le politiche istituzionali, il punto di vista della progettazione degli spazi lasciati “vuoti” dall’abbandono, la società civile, la partecipazione. Nel suo complesso però il taglio predominante è quello socioeconomico su spazi e pratiche dove è sacrificata una visione dal basso, minuta e partecipata che ci faccia vedere da vicino casi, storie ed esperienze vissute di risignificazione dei luoghi attraverso le pratiche e dove prevale invece lo sguardo sulle politiche pubbliche e la progettazione degli spazi. È difficile dunque restituire una visione di insieme del volume, ma si può provare a riflettere su alcuni punti che paiono importanti ragionando sul messaggio finale che esce da queste pagine: qual è l’immaginazione sul futuro delle aree interne che emerge dai diversi punti di vista che si sono misurati con esse?
Il primo apporto del volume, nel suo complesso e di là dei singoli testi, è quello a mio avviso di collocare in un dibattito nazionale e trasversale, quindi pubblico, una questione importante come quella del rapporto tra “l’osso e la polpa” dell’Italia, che poi è un osso non rappresentato solo dalle aree di montagna e propriamente interne, perché il volume mostra bene come la questione degli abbandoni sia molto più complessa e riguarda anche altre aree più prossime ai centri urbani, alcune aree della pianura e persino del litorale. Si parte quindi da una strategia politica nazionale (la Strategia Nazionale per le Aree Interne) e si ragiona su scala nazionale chiamando al dibattito le diverse forze intellettuali del paese. Anche l’antropologia – rappresentata qui da due contributi molto densi di Vito Teti e Pietro Clemente – può beneficiare di tale sguardo multiplo perché l’antropologia vive a stretto contatto con le aree interne; anzi una certa antropologia “italianistica” è stata spesso accusata di occuparsi solo di aree (e di fenomeni culturali considerati) marginali ed ha imparato a dover spesso spiegare il perché delle sue scelte nel tentativo di ribaltare i modelli consueti del centro e della periferia e ciò vale anche per i processi e le espressioni culturali.
In questo senso, il volume gioca a vantaggio di una visione antropologica contemporaneista perché queste aree cosiddette marginali ce le fa vedere dentro le politiche pubbliche, dentro le reti della cittadinanza attiva, nelle nuove forme di mobilità, l’immigrazione straniera, le innovazioni sociali, le nuove forme di imprenditoria, tutte realtà che l’antropologia incontra, partendo da una diversa prospettiva, quella dei vissuti locali, delle microstorie territoriali, delle pratiche culturali, del quotidiano, della memoria, la costruzione delle identità territoriali, le nuove narrazioni e le nuove pratiche sui luoghi in relazione al passato. Molto utile è del volume anche la sezione storica (Storia e Rappresentazioni) che ricostruisce la storia dello spopolamento di alcune aree interne a partire dagli anni Venti del Novecento, le inchieste che hanno posto il problema e la storia degli studi sulle aree interne, una letteratura che ci fa anche capire perché forse per certi versi dobbiamo anche accettare come inesorabile, che nella storia dell’umanità alcune aree ad un certo punto della loro storia si spopolano.
Ma il contributo maggiore del volume sta nell’approccio critico che propone nei confronti delle visioni che hanno storicamente caratterizzato le aree interne. La linea di fondo, la traccia che connota la stessa Strategia Nazionale per le Aree Interne è infatti il tentativo di uscire dalle dicotomie consuete, modernità/tradizione, città/campagna, sviluppo/marginalità, nord/sud, pianura/montagna, proponendo una visione sistemica delle relazioni tra osso e polpa nel tentativo di contrastare gli stereotipi che provengono da un immaginario urbano che hanno portato a vedere le aree interne in termini privativi, come aree che rincorrevano i territori più “sviluppati” del Paese, che dovevano in qualche modo adeguarsi a queste, in un continuo “dover essere” in termini di crescita e sviluppo, come le aree urbane, ma anche contro quegli stereotipi ancora molto radicati che vedono in questi territori il paradiso immobile della tradizione. Stereotipi e immaginari che hanno anche e soprattutto significato politiche pubbliche di lungo periodo a vantaggio della polpa (aree urbane, industriali, etc.).
Il volume ci dice invece che bisogna guardare alla relazione delle parti con il tutto, in una visione più sistemica e olistica e che anche le “soluzioni” vanno viste nell’ottica ampia delle relazioni continue che nel corso della storia hanno interessato centri e periferie con le reciproche influenze. Non solo un centro mobile, vivace, in progressione e una periferia immobile sotto il peso della tradizione e dello svuotamento, ma una relazione più complessa, stratificata, diversificata che va studiata caso per caso. Il quadro complessivo che viene fuori da queste pagine è dunque quello di un’Italia che è diversificata anche nelle aree interne e che come Paese delle diversità territoriali e culturali anche la mappa degli abbandoni e delle aree in contrazione segue questo andamento fortemente discontinuo, complesso, stratificato.
La novità del volume è quindi il suo stesso filo conduttore, perché oggi la questione delle aree interne segna in realtà una novità rispetto al passato. Per la prima volta questi territori – sia nelle pratiche locali con esempi che vengono analizzati in alcuni articoli, ma anche a livello istituzionale – vengono percepiti non più solo come problema ma anche come opportunità. Luoghi dove si sta producendo una visione inedita, dovuta ad una crisi che oggi accompagna il modello urbano e la crisi di un vecchio modello di sviluppo univoco centrato su produzione industriale e vita urbana, un modello che sta letteralmente implodendo nella drammatica saldatura che si sta producendo tra crisi economica e crisi ambientale (e crisi umanitaria per molti versi). E così, società civile, alcune istituzioni e discorso pubblico iniziano ad invertire lo sguardo e ad attribuire a questi territori delle valenze simboliche e valori d’uso nuovi, trasformandoli in spazi di opportunità. Tra il vuoto e il pieno, oggi anche nelle aree interne inizia a mostrarsi il lato pieno della vita, ed è qui che nel volume si incontra forse una prospettiva che sentiamo più nostra, più vicina a quelle scienze umane attente – come è stata a volte l’antropologia – a non cadere nella modellistica sviluppista ma ad abbassare lo sguardo per guardare a terra e ascoltare il lento scorrere della vita nei piccoli centri.
Ci sono diversi saggi nel volume che riflettono su questo aspetto, c’è una sezione Persone e trasformazioni che presenta questi scenari in movimento, le periferie resilienti, un nuovo rapporto tra città e campagna che si va facendo strada, l’innovazione sociale che vediamo in queste aree (cooperative di comunità, le nuove migrazioni verso le aree interne, i nuovi montanari e i nuovi agricoltori, ma anche una presenza di cittadinanza attiva in queste aree che – dati ISTAT alla mano – supera la media nazionale). Non semplicemente azioni per uscire dalla marginalità, o politiche assistenziali, ma luoghi dell’innovazione, nuove economie.
L’Italia delle aree interne non è un’Italia residuale. È un’Italia che esprime e incontra anche un nuovo rapporto con la campagna e con l’agricoltura e qui non può non venire alla mente l’apporto che l’antropologia negli ultimi anni ha dato al ripensamento della campagna, non più come luogo marginale, ma come “luogo profetico” (per riprendere l’immagine di Benjamin), come luogo del ripensamento del rapporto uomo-natura, della riscoperta della biodiversità coltivata come valore. In un recente numero della rivista Antropologia Museale, ad esempio, dedicato ai temi delle nuove risignificazioni cui sta andando incontro il mondo agricolo, Vincenzo Padiglione definisce la campagna un «luogo profetico»[4] e l’attuale fase di ritorno alla campagna come «post-agricolo»[5].
Il volume, tuttavia, fin dalle sue prime battute mostra anche un uso di termini e concetti (sviluppo, innovazione, identità, tradizione, patrimonializzazione) molto presenti nel linguaggio delle scienze umane e sociali, ma che appare dissonante a volte rispetto ad una prospettiva critica e ad una certa cautela che ad esempio l’antropologia è solita esprimere con sguardo “strabico” tra il ritenere che abbiano un significato oggettivo o che siano il prodotto di pratiche storico-sociali e quindi da collocare entro dinamiche linguistiche. L’antropologia tende infatti a parlare di innovazione – il cui bisogno nel discorso pubblico viene spesso invocato come risolutorio e salvifico per questi territori – ma senza dare per scontato che sia componente necessaria per lo sviluppo dei territori (e anche sullo sviluppo-mantra l’antropologia ha operato decostruzioni critiche già tempo fa) o che ci debbano essere per forza entrambe – innovazione e sviluppo – perché le persone siano “felici” e propense a restare nei luoghi.
Al contrario, nel volume il tema dell’innovazione è molto presente nelle forme del linguaggio socioeconomico e dello sviluppo. E anche se ci si vuole sottrarre ad immagini stereotipiche di aree interne che devono adeguarsi al modello urbano, innovazione e sviluppo sono spesso invocati come una sorta di mantra capace di risolvere tutti i problemi. Prevale dunque, soprattutto nei testi introduttivi al volume il messaggio che crescita demografica ed economica siano l’obiettivo al quale tendere e che il benessere e la felicità delle persone (non si menziona mai questa categoria – la felicità – ma è sottointesa) si debba intersecare con queste “mediane”. Laddove deve esserci invece chiaro che ad uno sguardo critico anche quella dell’innovazione è una categoria da decostruire perché parte di un immaginario costruito intorno ad una idea di sviluppo “lineare” necessario.
Nonostante la visione nuova sulle aree interne che abbiamo detto (opportunità e non marginalità), il volume è quindi attraversato da una continua tensione tra problema e opportunità. Spesso prevale nei contributi un linguaggio che si rifà ad un’idea di luoghi “vuoti” che devono essere riempiti, dove bisogna portare innovazione e sviluppo nella prospettiva che si debbano trovare delle soluzioni. Prevale cioè l’idea (spesso portata da architetti e urbanisti) che queste aree rappresentino un’opportunità non perché c’è “qualcosa” di locale che le fa essere tali, ma perché sono luoghi dove si può sperimentare più liberamente, dove si può riempire il “vuoto” lasciato dagli abbandoni. Si insiste dunque sul “vuoto”, sia come problema che come opportunità di sperimentazione, ma poco si dice del “pieno”, di ciò che storicamente c’è, o c’è ancora, o che si è trasformato localmente da quel qualcosa che c’era. E laddove si vuole vedere il pieno (vedi la sezione Persone e Trasformazioni), si dimenticano i processi culturali più sedimentati, la partecipazione nelle forme più locali, ciò che connota il vivere in un piccolo e piccolissimo paese come valore, al di là delle questioni strutturali che affliggono come sappiamo il vivere nelle aree più interne.
C’è per esempio un interessante articolo sociologico di Giovanni Carossio, Giovanni Moro e Alessia Zabbatino, su cittadinanza attiva e partecipazione [6], che riporta i risultati di una ricerca quantitativa e qualitativa che è stata fatta su 16 delle 72 aree indicate nella Strategia Nazionale per le Aree Interne per individuare quali sono le risorse civiche presenti nelle aree interne. E ciò che a sorpresa viene fuori è che in queste aree considerate “vuote” c’è in realtà un grande fermento associativo; che qui – dati ISTAT alla mano – c’è più volontariato rispetto al resto del Paese, che c’è una maggiore densità associativa rispetto a tutto il territorio nazionale e che queste forze sono spesso giovani anche se la maggioranza della popolazione è anziana. Questo è un dato senz’altro positivo e forse inatteso che viene dai dati quantitativi. E tuttavia, quando nel saggio si tenta anche una analisi qualitativa di questo “pieno” e delle sue motivazioni, non si va oltre una vaga affermazione che queste aree particolarmente dense di organizzazioni di cittadinanza attiva si caratterizzano per «forti connotazioni identitarie». E quando si fa riferimento alla cultura (rispetto ad altri ambiti di intervento di queste organizzazioni civiche, come la sanità, i servizi o l’educazione, etc.) si parla solo di interventi sul patrimonio storico e artistico. Si dimentica, per esempio, quell’ambito che oggi chiamiamo “patrimonio culturale immateriale” [7] (o cultura immateriale), il ruolo che gioca ancora oggi una certa socialità nei piccoli paesi, le forme espressive, i saperi locali sui territori, il rapporto con l’ambiente; non si vede la “cultura” dei territori (nel senso più genericamente antropologico), o meglio si vede ma viene relegata all’universo delle “tradizioni” immutabili, il ritualismo ad esempio, come qualcosa che «c’è sempre stato» e che è in fondo accessorio rispetto alla società civile e non fa numero nelle ricerche quantitative.
Chi oggi invece si occupa di temi legati alla cultura immateriale sa bene che ad esempio le forme aggregative, i soggetti collettivi che “si prestano” per la collettività nei piccoli paesi (la società civile) agiscono in forme spesso sinergiche con altre forme collettive più antiche, ma continuamente rifondate e riattualizzate, come sono ad esempio le confraternite – delle quali è molto ricco il tessuto sociale e culturale dei piccoli paesi – che non sono affatto il luogo della tradizione immutabile e si muovono nel loro territorio come una forma di cittadinanza attiva molto interessante [8]. C’è dunque ancora una certa postura degli sguardi socio-economici che tende a vedere una netta separazione tra la “tradizione” (quindi ciò che ha a che fare con le feste, i riti, ma anche con alcune pratiche agricole come l’autoconsumo presente in molti piccoli centri, o il rapporto con la spazio circostante), come fatta di realtà immobili e luogo dell’immutabilità che non fa statistica, e una modernità invece nella quale stanno la società civile e l’associazionismo (e lo sviluppo, l’innovazione, etc.) come un portato recente. E non riescono a vedere nel mezzo la dinamica della vita sociale dei piccoli centri (il pieno) che è fatta di reciprocità, ma anche di conflittualità costitutive della vita locale, di un agire locale nello spazio pubblico e di leadership legate alla costituzione di forme di consenso. Che sono il collante che tiene insieme il tutto. Quando infatti gli autori del saggio, dai dati ISTAT passano ad una conoscenza sul campo di alcune di queste realtà si trovano di fronte al conflitto presente in queste forme di cittadinanza attiva e a ciò che essi chiamano «l’assenza di una visione condivisa», ma lo interpretano come una forma di “personalismo” che fa problema rispetto all’ideale della partecipazione civica che si presume generarsi da un rapporto paritetico e da una partecipazione impersonale al “bene comune”:
«Come dovrebbe essere chiaramente emerso in questo capitolo, le aree interne sono tutt’altro che un deserto dal punto di vista dell’impegno civico [...]. Un’altra importante criticità è legata al fatto che molte forme di organizzazioni, in particolare quelle attive da più tempo, sono così fortemente associate alle persone (o alla persona) che le hanno fondate e che le animano da rendere arduo, specie in centri di piccole dimensioni, lo sviluppo di forme efficaci di collaborazione»[9].
Molto densi e rivolti al “pieno” i due contributi antropologici che – da prospettive diverse – partono dal basso dei luoghi e degli spazi mostrandone la pienezza locale, spesso invisibile, o non visibile agli sguardi da mainstream, il lento lavorìo della vita locale che eredita, assorbe e trasforma confrontandosi sempre con il territorio e i suoi spazi. Vito Teti, ad esempio (Il sentimento dei luoghi, tra nostalgia e futuro), che da molti anni ragiona sul “senso dei luoghi” dei paesi abbandonati tra abbandono e “restanza”[10] esprime una densa intima riflessione sui luoghi come costruzioni sociali e culturali, luoghi di relazioni, di emozioni, di produzione da parte di chi li abita o di chi li ricorda e quindi sui paesi come luoghi di pienezza. Perché se ogni sguardo sui luoghi abbandonati è uno sguardo contemporaneo ed i paesi nel tempo non sono mai gli stessi, anche la nostalgia diventa un sentimento morale e rigenerativo di presenza, diventa un termine positivo e non regressivo.
Pietro Clemente (Ibridazioni e riappropriazioni. Indigeni del XXI secolo) mostra invece come la questione delle aree interne vada vista in relazione alle rivitalizzazioni delle culture locali dal basso, che non è un fenomeno degli ultimi anni e la stessa “tradizione” è un elemento della modernità nelle ibridazioni e reinvenzioni della località. Queste reinvenzioni – che ci danno oggi la cifra creativa e partecipativa della vita locale nelle aree interne – possono essere viste come forme di democrazia partecipata e ci portano a vedere quindi «il progresso non nell’unificazione ma nella diversificazione e in una articolazione aderente alla storia dei luoghi». Scrive infatti ancora Clemente: «Questi piccoli e capillari processi di aggregazione culturale inventata, costruita, ibridata su modelli spesso arcaici, di fatto aprono spiragli di vita sociale inediti, entrano a far parte dell’articolazione della società civile contemporanea»[11].
C’è infine un tema che ci chiama ad una riflessione e ad una risposta. Si tratta di una critica che troviamo nel saggio scritto dal curatore del volume Antonio De Rossi insieme a Laura Mascino (Progetto e pratiche di rigenerazione: l’altra Italia e la forma delle cose) dove si parla di spazi fisici e di progettazione degli spazi “vuoti” delle aree interne per una rinascita – è uno dei filoni forti del volume – non solo simbolica ma anche progettuale e produttiva, che limiti la dilagante politica di terziarizzazione per non relegare queste ad una vocazione solo turistica. Dunque le aree interne come vita e non solo come economia, intendendo la vocazione produttiva e progettuale di questi territori come una pratica non sganciata dalle altre dimensioni della vita sociale. Un punto di vista più che condivisibile, se non fosse che gli autori ad un certo momento ci chiamano in causa nel dibattito sui patrimoni culturali, intitolando un paragrafo del loro scritto: “Critica a un’idea di territorio fondata sul paradigma della patrimonializzazione”, in cui si sostiene l’importanza della sperimentazione e dell’innovazione nella progettazione degli spazi in queste aree, contro un modello conservativo promosso dalle amministrazioni locali e dalle comunità, che avrebbe insistito su patrimonio, cultura, tradizioni e identità. L’uso esplicito del termine “patrimonializzazione”, presentato come una pratica negativa per le aree interne che invece chiederebbero innovazione, ovviamente ci sollecita ad una riflessione, essendo un termine che nel dibattito antropologico sul patrimonio è molto presente e denso di implicazioni epistemologiche, critiche e di pratiche di engagement. La tesi dei due autori su questo punto è chiara:
«Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, soprattutto nei territori cosiddetti marginali ha prevalso una visione culturale in cui lo sviluppo locale è stato essenzialmente pensato in termini di valorizzazione e patrimonializzazione dei beni e delle risorse storiche dei territori, e dove un ruolo di primo piano è stato giocato dai temi dell’identità e della tradizione. Questo paradigma ha fortemente segnato l’agire e l’immaginario delle amministrazioni e comunità locali, delle filiere di finanziamento europee declinate regionalmente (Prs, Interreg, Alcotra), dei Gal, e anche di diverse fondazioni bancarie, portando a concentrare risorse e progettualità intorno ad alcuni temi ricorrenti: piccoli musei ed ecomusei, cultura materiale e prodotti tipici, memorie e tradizioni, sentieri e percorsi tematici, paesaggi e manufatti storici e rurali, quasi sempre finalizzati alla valorizzazione turistica»[12].
È una critica che si rivolge soprattutto al patrimonio storico, artistico, architettonico, alla conservazione, ma che tocca anche come abbiamo visto le culture locali nei termini di ciò che chiamiamo, citando il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio [13], i “beni demoetnoantropologici”. Viene un po’ da sorridere sentendo parlare di filiere di finanziamento a piccoli musei, ecomusei e ad aspetti delle culture locali di interesse demoetnoantropologico, conoscendo la perenne scarsezza di risorse che affligge l’ambito demoetnoantropologico dei beni culturali (la cenerentola dei BC) rispetto al potere di architetti e storici dell’arte. Secondo gli autori questo modello conservativo sui BC ha prodotto tanta banalità finalizzata al turismo, un’Italia dei borghi da cartolina, un’omologazione sui temi dell’identità e un congelamento del paesaggio. Una visione tutta estetica finalizzata ad una fruizione turistica che gli autori chiamano, con efficace espressione, una «retrotopia contemporanea», citando Bauman [14], che ha espulso la radice produttiva di questi territori. Il messaggio finale è che non bisogna rimanere prigionieri del paradigma della patrimonializzazione, ma produrre nuove istanze, nuove economie, più smart e di sperimentazione e vedere per le aree interne le opportunità endogene che queste offrono, in termini di progettazione e produttive.
Il punto di vista espresso da questa critica ci costringe ad una risposta che non può esaurirsi in queste pagine, ma richiede forse altri tempi e altri modi di confronto e di discussione dedicati. In antropologia il paradigma della patrimonializzazione – nello specifico quello relativo ai beni demoetnoantropolgici – non ha vita pacifica ed è oggetto di forti dibattiti che spesso, ma non sempre interessano – geograficamente parlando – le aree interne che sono quelle storicamente più studiate dalle varie correnti di pensiero che nel corso della storia degli studi si sono occupate di culture locali e “tradizioni”. Il lavoro di Berardino Palumbo rappresenta per noi il filone più critico nei confronti di quello che lo stesso Palumbo chiama la prospettiva “interna” ai BC [15], intesa come un approccio al patrimonio che riproduce e asseconda le politiche nazionali/ste accusate di piegare lo studioso (ora storico dell’arte, ora archeologo, ma anche demoetnoantropologo) facendolo diventare megafono delle retoriche nazionaliste (dunque il funzionario che lavora dentro il patrimonio come emanazione dello Stato). Retoriche che ricadono a livello locale producendo politiche che su piccola scala costruiscono culture e identità “pure”, utilizzate strategicamente per drenare risorse economiche e ottenere visibilità politica. Di contro un approccio “critico” antropologico sarebbe l’unico capace di decostruire tali dinamiche senza cadere nell’illusione di credere nell’imbroglio del paradigma patrimoniale il quale, seppur animato dalle migliori intenzioni, di fatto finisce per sottostare alle “leggi” del mercato globale e delle sue spinte liberiste riducendo culture e identità ad un mercato delle identità e delle differenze culturali a fini turistici.
Per quanto arrivi più meno alle stesse conclusioni, la critica del saggio che qui si discute non tocca in realtà questioni critico-epistemologiche, ma si rivolge soprattutto ad un presunto modello conservativo sui Beni Culturali che non nega la dimensione economico-politica del patrimonio, ma contrappone ad un approccio storico-antropologico centrato su memoria e identità una prospettiva che vuole intervenire nello spazio fisico portando progettualità, sperimentazione e innovazione (la contemporaneità), senza negare le persistenze storiche e la storia dei territori. Questa critica al modello “conservativo” in realtà risente di una visione tutta interna al dibattito su altre tipologie di Beni Culturali (storico-artistici, archeologici) perché quando dalle opere d’arte passiamo alla cultura in senso antropologico (beni demoetnoantropologici e patrimonio immateriale) vediamo che un modello conservativo non ha ragione di esistere in quanto l’idea che cultura e tradizioni siano ferme ed immobili è da tempo superata.
Infatti a queste critiche – soprattutto a quelle che vengono dall’interno del dibattito antropologico – si è già risposto da più parti e da tempo, sottolineando come il patrimonio culturale, nella sua veste di tradizioni e identità, per quanto possa apparire dall’esterno come nuovo imperativo globale, funziona all’interno delle comunità come potente strumento di risignificazione dello spazio (sociale, culturale, fisico, affettivo, etc.) e dunque dotato di un forte dinamismo (gli “indigeni del XXI secolo” dei quali parla Pietro Clemente nel suo saggio citando James Clifford) [16]. La retrotopia contemporanea è dunque un fatto appunto “contemporaneo” e funziona né più né meno seguendo i meccanismi che regolano la “tradizione”, della quale già trent’anni fa Gérard Lenclud sottolineava la sua natura di essere “filiazione inversa” [17] e cioè un passato scelto e costruito dai figli di oggi che in questo modo reinventano e riconoscono i loro padri, e non un semplice lascito del passato che si vuole fare rivivere in modo banale e automatico. È in questa dinamica che si gioca l’attualità del patrimonio culturale, con le sue strategie, le sue forme di creatività, le sue manipolazioni, le sue presunte (e inventate) fissità, i suoi “oggetti d’affezione”, i musei, gli ecomusei e tutte le altre forme di immaginazione del patrimonio (inclusa quella portata dall’UNESCO con la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003), una “ragione patrimoniale” come qualcuno l’ha definita, un “imperativo globale” [18], a volte manipolato e stravolto, per il quale forse a volte non si ammette contraddittorio e per il quale siamo chiamati a vigilare criticamente, ma che tuttavia funziona – anche e forse soprattutto nelle aree interne – per dare un senso all’oggi riannodando i fili con un passato e con forme di vita che forse troppo bruscamente sono state stravolte e cancellate negli ultimi cinquant’anni dall’accelerazione imposta dall’Antropocene [19].
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Note
[1] M. Rossi Doria, La polpa e l’osso: scritti su agricoltura, risorse naturali e ambiente, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2005; cfr. P. Bevilacqua, L’”osso”, in Meridiana, n. 44, 2002: 7-13.
[2] Cerea e Marcantoni (2016) La montagna perduta. Come la pianura ha condizionato lo sviluppo italiano (https://www.tsm.tn.it/interne/il_rapporto_%27%27la_montagna_perduta%27%27_interna2.ashx?ID=24769&IDNewsletter=3334).
[3] http://www.programmazioneeconomica.gov.it/2019/05/23/strategia-nazionale-delle-aree-interne/ (giugno 2019).
[4] V. Padiglione, “Luogo profetico”, in Antropologia Museale, n. 34-36, 2015: 101-103.
[5] V. Padiglione, “Il post-agricolo e l’antropologia”, Antropologia Museale n. 34-36: 3-4.
[6] G. Carossio, G. Moro, A. Zabatino, “Cittadinanza attiva e partecipazione”, in A. De Rossi (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli, 2018: 435-456.
[7] P. Clemente, “Ibridazioni e riappropriazioni. Indigeni del XXI secolo”, in A. De Rossi (a cura di), op. cit.: 365-380.
[8] Per esempio per l’area reatina: A. Broccolini, “Festaroli: norma e creatività in un sistema festivo di area”, in A. Broccolini e E. Migliorini (a cura di), Santi Pantasime e Signori. Feste della Bassa Sabina, Roma, Espera, 2013: 219-224.
[9] G. Carossio, G. Moro, A. Zabattino, “Cittadinanza attiva e partecipazione”, in A. De Rossi (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli, 2018:. 455.
[10] V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004; V. Teti, Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Macerata, Quodlibet, 2011.
[11] P. Clemente, op. cit.: 370-371.
[12] A. De Rossi, L. Mascino, “Progetto e pratiche di rigenerazione: l’altra Italia e la forma delle cose”, in A. De Rossi (a cura), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli, 2018: 502.
[13] Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.L. 42/2004)
[14] Z. Bauman, Retrotopia, Roma-Bari, Laterza, 2017, cit. in A. De Rossi, L. Mascino, op. cit: 503.
[15] B. Palumbo, “Patrimonializzare”, in Antropologia Museale, 2009: XXXVIII-XL; cfr. B. Palumbo, “Patrimoni-identità. Lo sguardo di un etnografo”, in Antropologia Museale, n. 1, 2002: 14-19; B. Palumbo, L’UNESCO e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale, Roma, Meltemi, 2003.
[16] J. Clifford, Returns. Becoming Indigenous in the Twenty-first Century, Harvard University Press, Cambridge-London, 2013.
[17] G. Lenclud, “La tradizione non è più quella di un tempo”, in P. Clemente, F. Mugnaini (a cura di), Oltre il folclore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Roma, Carocci, 2001: 123-133.
[18] D. Poulot, “Elementi in vista di un’analisi della ragione patrimoniale in Europa, secoli XVIII-XX”, in I. Maffi, Il Patrimonio Culturale, in Antropologia, Roma, Meltemi, 2006: 129-154.
[19] J. R. McNeill, P. Engelke, La grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945, Roma, Einaudi, 2018 (ed. or. 2013); cfr. M. Pellicciari, S. Flamini, “Antropologia e Antropocene = Anthropology and Anthropocene”, in Sistema Salute, 60, 4, 2016: 36-49.
___________________________________________________________________________
Alessandra Broccolini, antropologa, docente di Antropologia Culturale presso la facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza di Roma”. Ha collaborato con l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, con la Regione Lazio e con altri Enti in materia di catalogazione del patrimonio etnografico materiale e immateriale e per alcune candidature Unesco per la Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale. Attualmente è presidente di Simbdea (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici) e membro della redazione della rivista Antropologia Museale. Si occupa di politiche dell’identità, città, migrazioni, feste e rituali, artigianato, patrimonio culturale immateriale, saperi tradizionali e politiche Unesco (Lazio, Campania, Napoli, Roma). Ha pubblicato diversi saggi sui temi dell’antropologia del patrimonio culturale e un lavoro monografico sull’artigianato del presepe a Napoli: Scena e retroscena di un patrimonio. Turismo, artigianato e cultura popolare a Napoli, Verona 2008.
_______________________________________________________________