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Alle frontiere dell’umano: i minori stranieri non accompagnati

copertinadi Cristina Siddiolo

Il tempo in cui c’era l’Altro è passato. L’Altro come mistero, l’Altro come seduzione, l’Altro come Eros, l’Altro come desiderio, l’Altro come inferno, l’Altro come dolore scompare [1]

Byung-Chul Han

Il tema della migrazione è, oggi, al centro del dibattito politico, culturale, sociale ed economico. Il motivo risiede nella grande mobilitazione che caratterizza sempre più, in termini di ampiezza ed entità, la storia dell’umanità. Le motivazioni che spingono gli esseri umani alla migrazione sono complesse, caratterizzate da potenti fattori espulsivi (push factor) e da imponenti forze attrattive (pull factor). Alle crisi economiche, alle ricorrenti forme di instabilità politica e alle transizioni culturali si combinano infatti le informazioni sulla ricchezza, spesso stereotipate, continuamente riproposte dai social media. I cambiamenti climatici, infine, agiscono in maniera trasversale influenzando, a livelli diversi, la vita di tutti: la deforestazione, i processi desertificazione in atto, lo scioglimento dei ghiacci perenni, le epidemie, le carestie, per non parlare della perdita di opportunità di risorse economiche ed alimentari, soprattutto in quei Paesi che hanno subito il peso della colonizzazione.

La compressione spazio-temporale della globalizzazione esercitata su scala planetaria, con la corrispondente velocizzazione dei sistemi di comunicazione e dei trasporti, impone spesso – come direzione prevalente, benché non esclusiva – la traiettoria Sud-Nord, lungo un asse tracciato dalle profonde disuguaglianze che contrassegnano la superficie terrestre. Uomini, donne e bambini viaggiano verso presunte mete di benessere e felicità, fra sogno e realtà. La realtà tuttavia, per sua natura, è sempre più complessa e meno lineare del sogno. Tale è il viaggio migratorio, spesso molto sofferto e difficile.

Fra le tante figure migratorie, particolare interesse riveste quella del minore straniero non accompagnato, ovvero quel minore straniero che si trova in Italia privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. Oltre ai minori completamente soli, dunque, rientrano in tale definizione anche i minori che vivono con adulti diversi dai genitori che non ne siano tutori o affidatari in base a un provvedimento formale. La maggior parte dei minori stranieri, attualmente presenti sul territorio italiano, emigra per ragioni di tipo personale e/o professionale, spesso congiunte. L’instabilità economica, politica e sociale del Paese di origine è per lo più alla base delle scelte migratorie, a volte concordate e/o organizzate dalla famiglia. Accanto alla dimensione economica, propellente importante anche fra i giovani, esiste una forma di povertà molto più insidiosa, la cosiddetta povertà educativa, definita come «la privazione da parte dei bambini e degli adolescenti della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni» (Save the Children, 2014: 4). È questa forma di deprivazione che, sovente, gioca un ruolo sostanziale, seppur inconscio o occultato, nelle scelte migratorie. Accanto agli aspetti di natura personale e sociale, agiscono infine le rappresentazioni diffuse nell’immaginario collettivo relativi all’Europa quale luogo in grado di offrire benessere e opportunità.

Lo scollamento fra gli orizzonti ideali e quelli reali, tratto tipico e trasversale dell’età adolescenziale (il cui range varia nel tempo e nello spazio al di là degli specifici imprinting culturali), diventa sempre più evidente nel corso del primo periodo di soggiorno sul nuovo territorio. È questo il periodo in cui si attiva in maniera naturale un processo di resilienza e di resistenza rispetto alle nuove forze di sistema con cui il soggetto entra in contatto. Si sviluppano fenomeni di grande apertura e collaborazione, nell’urgenza di trovare nuovi punti di riferimento, così come sentimenti di chiusura, di estraneità e talvolta di aggressività nei confronti del contesto di inserimento. Già il viaggio in sé rappresenta per molti di loro una prova ardua dagli esiti incerti, una sorta di “rito di passaggio” verso una vita adulta. E molti di loro si percepiscono come tali, sebbene questa forma di auto-rappresentazione può scontrarsi con quella vulnerabile e non autonoma del nuovo contesto di accoglienza.

1La lingua è uno dei primi dispositivi che si cerca di potenziare affinché il minore straniero non accompagnato possa comunicare, dialogare e comprendere. Il percorso di alfabetizzazione linguistica del Paese ospitante è uno dei tratti caratteristici di ogni progetto educativo individualizzato (P.E.I.). L’italiano è, in una prima fase, la lingua della “sopravvivenza”, mentre nel medio e lungo periodo assolve a molteplici funzioni: l’italiano come lingua per lavorare, per aderire al “contratto di inclusione sociale”, come lingua da certificare (essenziale ai fini dell’ottenimento della titolarità per una regolare permanenza sul territorio nazionale) e come strumento di narrazione di sé. La competenza linguistica diventa quindi un elemento imprescindibile nel processo di  costruzione e definizione della propria identità all’interno del contesto di accoglienza e nel garantire la realizzazione di una nuova cittadinanza. La deprivazione linguistica è infatti uno dei principali indicatori di povertà che si manifesta in un contesto di emarginazione: un vero e proprio ostacolo al processo di inserimento in accoglienza (Roberta T. Di Rosa, 2019).

Negli ultimi anni, con l’arrivo non più sporadico di minori stranieri non accompagnati, la scuola si è dovuta adeguare a un’utenza inedita cercando di mettere in atto quei dispositivi che dovrebbero ormai essere prassi consolidata e strutturale per l’integrazione degli alunni stranieri. L’architettura del sistema scolastico e di accoglienza è stata messa a dura prova e non sempre si è riusciti a rispondere alle esigenze della nuova ed eterogenea utenza, portatrice di proiezioni, aspettative, desideri, paure e bisogni specifici. In mancanza di una risposta condivisa da parte delle istituzioni preposte all’educazione e all’inclusione, il rischio – già sperimentato e che continua ad essere presente – è quello dell’insuccesso e del collasso. Sono molti i ragazzi che hanno abbandonato la scuola, che non hanno proseguito gli studi al di fuori del ciclo dell’obbligo e che si sono allontanati dalle strutture di accoglienza senza lasciare traccia.

Essere adulti sufficientemente responsabili ed equipaggiati non basta. Non si può far fronte alle esigenze socio-educative dei minori stranieri non accompagnati da soli. Il rischio è un burnout del singolo individuo e/o dell’intera struttura. Serve dunque uno spazio di riflessione istituzionale e condivisa; serve un modello antropologico all’altezza dei tempi e della complessità dei funzionamenti psico-sociali dei minori stranieri non accompagnati; serve coinvolgere in maniera sempre più attiva le famiglie quali istituzioni per eccellenza preposte all’inclusione. L’affidamento familiare, promosso dalla Legge Zampa del 2017 [2], ad oggi rimane un’alternativa poco esplorata nella maggior parte del territorio nazionale ma che, a mio avviso, andrebbe implementata e sperimentata come strategia prioritaria rispetto a quella offerta dalle strutture pubbliche e private. Altra novità interessante promossa dalla Legge Zampa è l’introduzione del tutore volontario, una figura che incarna una nuovo modo di intendere la tutela legale: non solo rappresentanza legale, ma figura in grado di guidare e facilitare il processo di inclusione sociale, interprete privilegiato delle specifiche necessità della persona e garante dei suoi diritti.

Lavorando da dieci anni con minori stranieri non accompagnati mi sono resa conto di quanto la presenza di una relazione significativa con un adulto – interno o esterno alla struttura di accoglienza – abbia influito sulla crescita, sull’autostima e sulla costruzione positiva di una rappresentazione di sé indispensabile ai fini dell’inclusione sociale. È importante che la comunità intera si prenda cura di questi soggetti, vulnerabili ma ricchi di potenziale umano che l’attuale politica rischia di sprecare, escludere e più spesso criminalizzare. Il fenomeno migratorio, attraverso il quale si sono sempre formate le diverse generazioni, è diventato oggi un fenomeno da temere poiché la figura del migrante è diventata illegale. È la prima volta che storicamente si assiste a una vera e propria criminalizzazione del fenomeno migratorio di queste proporzioni. Da sempre, i migranti sono stati oggetto di discriminazione ed esclusione sociale; di più, oggigiorno, si assiste al fenomeno dell’esclusione giuridica di un diritto fondamentale della nostra Costituzione: quello di migrare.

Il diritto di migrare è il più antico diritto naturale teorizzato dalla cultura occidentale, ben prima del diritto alla vita. Nel 1539 il teologo spagnolo Francisco De Vitoria teorizzò lo ius migrandi (il diritto di migrare) come diritto fondamentale e universale della persona, ponendolo entro un orizzonte cosmopolitico e di fratellanza. Come ricostruisce il giurista Luigi Ferrajoli nel secondo tomo di Principia iuris, De Vitoria teorizzò il diritto alla libera circolazione delle persone come diritto universale sostenendo il fatto che tutti abbiamo il diritto di trasferirci in qualunque parte del mondo. Di fatto, esso servì invece da pretesto per giustificare la conquista spagnola del Nuovo Mondo in un periodo in cui si riteneva che gli indigeni non fossero neanche persone (Ferrajoli, 2012).

2Il diritto di emigrare è rimasto come norma del diritto consuetudinario internazionale fino ad oggi perché è stato utilizzato come fonte di legittimazione delle colonizzazioni degli occidentali che, è bene ricordare, hanno conquistato il mondo attraverso la forza delle idee e degli armamenti. Ed esso, successivamente, per merito del pensiero liberale, è stato consacrato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948[3] e nei Patti internazionali del 1966 (entrati in vigore nel 1976). È nel momento in cui l’asimmetria si è ribaltata – e le popolazioni del resto del mondo (soprattutto dell’Africa e del Medio Oriente) si sono spostate verso le aree più ricche – che l’esercizio di questo diritto si è trasformato in reato. È bene sottolineare, infatti, che il reato di immigrazione clandestina (entrato in vigore con la legge Bossi-Fini del 2002) è un reato di Stato, un reato consistente nell’essere uno straniero, una persona non riconosciuta dal nostro ordinamento. Questo è un primo aspetto della migrazione che è di importanza cruciale ai fini dell’educazione morale ed etica cui è soggetto, volente o nolente, attraverso la legge, il popolo.

La legge, nella sua funzione regolatrice della società attraverso la dinamica dialogica di diritti e doveri, ha un ruolo altresì importantissimo nella regolazione del “sentire comune”. Essa è in grado di forgiare il linguaggio e le menti così da renderle mansuete e servili; se la legge è dunque il frutto di una pratica discrezionale e politica volta al raggiungimento di scopi utili a una piccola élite, essa può ben portare a quello che è stato definito “razzismo istituzionale”, ovvero quel complesso di leggi, costumi e pratiche vigenti che sistematicamente riflettono e producono le disuguaglianze nella società (rapporto MacPherson, 1999). Ciò significa che il criterio di identificazione delle istituzioni discriminatorie riguarda gli effetti prodotti, non l’intenzione dell’ente o dei suoi funzionari (Bartoli, 2012). Tuttavia, riconoscere e comprendere le cause della sua formazione è un dovere per coloro che intendono non solo parlarne ma anche contribuire a ristrutturarle e a risanarle.

Il problema per Byung-Chul Han va ricercato nella politica neoliberista che ha espulso la categoria dell’Altro (dell’Altro come mistero, come seduzione, come eros, come desiderio, come dolore, come inferno), costruendo una società dell’Uguale profondamente iniqua e ingiusta sul piano globale, mettendo inevitabilmente in moto un processo altamente autodistruttivo e disgregante del corpo sociale. Sfruttamento ed esclusione sono elementi costitutivi del neoliberismo ed erano già stati compresi persino dal suo inventore Alexander Rustow il quale, non a caso, aveva per primo affermato l’importanza di integrare alla legge neoliberista del mercato una “politica vitale” capace di creare solidarietà e senso civico. «In mancanza della correzione del neoliberismo prodotta dalla ‘politica vitale’, sorge una massa resa insicura e guidata dall’angoscia, che facilmente si fa monopolizzare dalle forze nazionaliste e razziste»[4]. Infatti, un secondo aspetto più sistemico è legato alle enormi disuguaglianze che sono in crescita esponenziale. È aumentato il benessere generale e si è ridotta la povertà, ma il divario fra le disuguaglianze è cresciuto, anche all’interno del prospero Occidente. Questa ineguaglianza è all’origine delle diaspore e dei milioni di morti nel mondo.

Un terzo aspetto è costituito dal carattere criminogeno del cosiddetto decreto Salvini su immigrazione e sicurezza (entrato in vigore il 24 settembre del 2018), con specifico riferimento alla norma che ha soppresso il permesso di soggiorno per motivi umanitari e che ha messo sulla strada migliaia di persone consegnandole all’illegalità. I soggetti esclusi, infatti, sono maggiormente esposti alle organizzazioni criminali. L’incertezza e la discriminazione che produce la legge ha fortissime ripercussioni su tutte le categorie di migranti, ma è particolarmente destabilizzante sui minori stranieri non accompagnati in quanto privi di punti di riferimenti parentali. Le motivazioni economiche infatti continuano ad avere un peso significativo nelle scelte migratorie, anche fra i minori stranieri non accompagnati, e sebbene il migrante economico sia sempre stato presente storicamente senza che questo costituisse di per sé un problema, oggi si assiste ad un mutamento senza precedenti nella sua rappresentazione. Il migrante economico è percepito, nel comune sentire, come un individuo residuale da scartare, “non meritevole” di risiedere sul territorio prescelto in quanto arriva in Europa “solo” per trovare un lavoro migliore che gli garantisca una più alta qualità della vita. Questa categoria di migrante non può più ottenere la protezione umanitaria ed è soggetto all’espulsione, al rimpatrio, e alla clandestinità.

3I minori stranieri non accompagnati, invece, anche se migrano principalmente per ragioni economiche, sono soggetti a una protezione internazionale che li tutela fino alla maggiore età. Ne consegue che molti, una volta giunti in Europa, dichiarano di essere minorenni per potere usufruire della protezione internazionale riconosciuta dalla Convenzione di New York sul fanciullo del 1989, ratificata in Italia e resa esecutiva con legge n. 176/91, e dalla Costituzione italiana. I minorenni, infatti, nel nostro ordinamento giuridico sono soggetti ad una protezione speciale da parte dello Stato. A coloro che non hanno diritto di asilo la legge concede un permesso di soggiorno per minore età, estensibile fino al 21esimo anno di età qualora sia a sua volta concessa dalla magistratura la prosecuzione amministrativa. Tuttavia, il proseguo è dato soltanto a coloro i quali affrontano un percorso di crescita e d’inclusione all’interno di una struttura di prima o seconda accoglienza in grado di supportare e di guidare il giovane verso una dimensione di autonomia.

Un altro aspetto ancora è l’ostentazione, ovvero quell’atteggiamento diretto a sottolineare con compiacimento le proprie idee, i propri sentimenti e le proprie azioni: l’ostentazione che emerge nell’attuale politica italiana si ripercuote su tutti i piani e sta producendo un abbassamento delle cosiddette “difese umanitarie”, del senso morale. L’illegalità e il razzismo istituzionale, attraverso l’esibizione ostentata dell’immoralità, hanno un evidente ruolo performativo in quanto producono conformismo. Ed è quello che sta accadendo oggi. Le migliaia di morti innocenti in mare gravano sulla coscienza dell’Europa. L’omissione di soccorso viene resa accettabile e auspicabile con il decreto sicurezza violando le norme del Testo Unico del 1998 che impediscono il respingimento delle donne incinte, dei rifugiati, dei minori non accompagnati. Queste politiche sono illegali, oltre che immorali, e violano i princìpi elementari del diritto del mare che impongono il salvataggio.

È necessario allora chiamare in causa il senso di vergogna nel dibattito pubblico. Nessuno infatti potrà dire di non sapere. Oggi sappiamo tutto: sappiamo il numero dei morti (inferiore rispetto ai dati reali), sappiamo tutto sulle motivazione delle immigrazioni massicce, sappiamo tutto sulle condizioni disumane in cui vivono le persone nei lager libici. Dire mai più a questo orrore è un dovere etico e morale.

Il diritto di migrare è un diritto costituzionale, fondamentale; il fatto che nessun politico abbia il coraggio di dire che è un diritto è grave. Almeno i giuristi e i ricercatori dovrebbero dirlo, prendere parola, posizione. Non è certamente un caso che proprio in Sicilia, uno dei principali teatri della migrazione alle porte dell’Europa, al termine di un convegno intitolato “Migrare”, realizzato il 23 maggio del 2019, l’Università degli Studi di Palermo (hanno partecipato tutti i dipartimenti) abbia lanciato un appello all’Europa della Conoscenza in cui si chiede con urgenza di costruire insieme uno spazio di riflessione che ponga al centro i temi dei diritti e dell’uguaglianza, con specifico riferimento ai migranti  in quanto categoria particolarmente esposta alla violazione dei diritti fondamentali [5].

In sostanza, la questione della migrazione è oggi il banco di prova della credibilità di tutti i nostri princìpi costituzionali (Ferrajoli, 2019). Bisogna imparare, nuovamente, a prendere parola e a chiamare le cose con il loro nome. Essere adulti – sul piano psicologico ma non solo – significa imparare a confrontarsi con la realtà per quella che è, senza abbellimenti o abbruttimenti discrezionali. Diventare adulti è una sfida dei nostri tempi, più che in altre situazioni passate, poiché le sfide globali odierne (la crisi ambientale, economica, tecnologica, politica e culturale) stanno seriamente e irrimediabilmente mettendo a repentaglio l’equilibrio dell’ecosistema chiamato Terra. Dare un nome ai fenomeni implica già una conoscenza della loro natura, una comprensione delle leggi che sottendono al loro funzionamento, preludio fondamentale per la ricerca di un’eventuale risoluzione in caso di necessità. E se chi occupa posizioni di responsabilità e di potere non si adopera con umiltà per cercare soluzioni adeguate ed efficaci ai fini del benessere collettivo (di tutti gli esseri viventi, non solo degli esseri umani), allora si continua a mancare il nucleo fondante della politica che nasce, per l’appunto, come arte nel governare le società per la costruzione del bene comune. Già Aristotele aveva riconosciuto il carattere sociale della polis che «esiste per far vivere bene gli uomini» (Governa e Memoli, 2011).

4Affermare che l’attuale politica italiana è fondata sulla paura e sull’insicurezza significa nominare con chiarezza un fenomeno senza il timore di prendere posizione. Affermare che alcune leggi promulgate negli ultimi anni siano razziste significa chiamare le cose con il loro nome. Infine, chiamare le cose con il loro nome significa concepire non solo il diritto di migrare come un diritto fondamentale ma anche come un vero potere costituente (Ferrajoli, 2019): un nuovo ordine mondiale fondato sull’uguaglianza, sulle pari opportunità e sul dialogo. E il popolo dei migranti, in quanto popolo meticcio, può essere un popolo costituente, a partire dal potenziale umano rappresentato dai minori stranieri non accompagnati. La vera utopia è che il mondo possa andare così com’è, senza andare incontro a catastrofi, senza affrontare tutte le sfide globali che stanno mettendo in crisi tutti i nostri valori. La sfida della migrazione è il banco di prova della nostra resistenza e resilienza dinanzi alla capacità di discriminare ciò che è umano da ciò che umano non è.

Per contrastare la tendenza alla “deumanizzazione”[6] e alla “disumanizzazione”[7] in atto è fondamentale prendere coscienza dello status quo e partire dal dato di realtà per costruire insieme una visione in grado di mobilitare in maniera inedita e creativa nuove forme di aggregazione e cooperazione in grado di non farci sentire soli e impotenti dinanzi agli tsunami dei nostri tempi. La presa di coscienza del reale implica necessariamente una dose di dolore senza la quale non è possibile nessuna trasformazione interiore ed esteriore. Viviamo in un mondo intriso di dolore, la vita stessa lo è. La sofferenza è sempre stata parte della vita stessa e, nel mondo, gli uomini hanno sempre cercato di mitigarla al fine di renderla sopportabile e dunque utilizzabile come propellente evolutivo. Ma non è ammissibile che i governi non si facciano carico delle sofferenze generate dagli squilibri di sistema. Come ricorda Michel Foucault: «La sofferenza degli esseri umani non deve mai essere un residuo muto della politica» (2009). Ed è dovere della cittadinanza internazionale rivendicare sempre ai governi le sofferenze degli esseri umani, poiché è falso che non ne siano responsabili (Guarrasi, 2019).

Il dolore è in grado di farci entrare pienamente nel corpo, di sentirlo profondamente e quindi di essere potenziale fonte di comprensione del proprio “essere umani”. Riconoscere e sentire il proprio dolore è il primo passo per poter comprendere quello degli altri così da abbattere i muri dell’anestesia emotiva che tanto caratterizzano il nostro tempo. Ed è proprio l’alterità a costituire il perno su cui si fonda il concetto di esperienza in senso enfatico e di trasformazione. Byungh-Chul Han, ricordando le parole di Martin Heidegger, afferma che fare esperienza di qualcosa significa «che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge, e trasforma»[8], e che la sua essenza è il dolore. Come ricorda David Richo il vero sforzo eroico è l’attraversamento del dolore e la spontanea trasformazione che avviene grazie a questo. Allora la paura di oltrepassare quel confine che porta a sentire la sofferenza, propria ed altrui, è la frontiera dell’umano per la quale vale la pena scrivere, riflettere e dialogare. Affinché questo nome possa ancora essere usato con dignità, cura e consapevolezza. Affinché la politica della paura venga meno e si faccia strada la politica della mitezza e della bellezza, fondata sull’ospitalità incondizionata dell’alterità.

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Note

[1] Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, nottetempo, Milano, 2017: 7
[2] Legge 7 aprile 2017, n. 47 “Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati” (cd. Legge Zampa)
[3] L’art. 13 recita: «Ogni persona ha diritto di abbandonare qualsiasi paese, compreso il proprio, e di rientrare nel proprio paese»
[4] Byung-Chul Han, op. cit.: 22
[5] https://www.ageiweb.it/eventi-e-info-per-newsletter/appello-alleuropa-della-conoscenza-dalluniversita-di-palermo/?fbclid=IwAR1o45QAaCbBWZsRIbVuMosG-mZa_nwXCxMoSJLiKLkg72ZsJlXZ4cThkoc
[6] La deumanizzazione è il processo cognitivo che conduce a percepire come non-persone i membri del gruppo considerato il “nemico” o “l’altro”. Essa è favorita dall’etichettamento, cioè da rappresentazioni stereotipate del gruppo stigmatizzato, diffuse da autorità, media e comune sentire (Bartoli, 2012: 112-113 ed. orig.).
[7] La disumanizzazione è il processo di contrazione della liberà umana, di svuotamento della vita da ogni spiritualità e senso morale e quindi da ogni dignità.
[8] Byung-Chul Han, op. cit.: 10
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Cristina Siddiolo, laureata presso l’Università degli Studi di Palermo in antropologa, è formatrice, educatrice e insegnante certificata di yoga. Da dieci anni lavora con minori stranieri non accompagnati presso il Gruppo Appartamento “La Vela Grande” fondato dall’associazione Apriti Cuore onlus, diretto dal 2018 dall’Istituto Don Calabria.

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