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Il paesaggio: una trama significativa. Emozioni, percezioni e categorizzazioni

 

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Van Gogh, Campo di grano con i corvi, 1890

di Linda Armano

«Il sentiero serpeggia attraverso un paesaggio bellissimo – la landa bruna, disseminata qua e là di pini e betulle con chiazze di sabbia gialla, e la montagna in lontananza, contro il sole. Più che di un quadro, si tratta di un’ispirazione» (Van Gogh, 26 agosto 1876).

Le parole di Vincent Van Gogh in una lettera al fratello Theo (Cescon, 2016), racchiudono alcuni tratti fondamentali di recenti riflessioni negli studi di antropologia dello spazio. La sensibile acutezza dell’artista coglie esattamente un aspetto essenziale che successivi approcci analitici hanno mostrato. Unendosi alla chiara visione di Van Gogh, gli antropologi hanno, nel corso del tempo, affermato che la natura dei luoghi è tale per cui una strada, una scuola, una città, un terreno coltivato, un bosco, non sono mai solo degli elementi spaziali che hanno effetti sociali, ma al contrario sono fatti sociali formati nello spazio. Le persone non si muovono fra luoghi concepiti come punti geometrici di uno spazio astratto, che rimane indefinito e neutro rispetto alle vicende felici e dolorose della loro vita.

In modi più o meno consapevoli, a volte effimeri e fugaci, a volte intensi e indimenticabili, ogni luogo che attraversiamo diventa un nodo significativo in quella rete complessa di microesperienze che è la nostra vita (Ligi, 2011). Come ha scritto Tim Ingold: «places do not locations, but histories» (Ingold 2000: 219). Infatti, gli elementi caratteristici di un paesaggio, come per esempio la vastità, il vento, il buio e la luce, vengono non solo percepiti dagli esseri umani ma anche raccontati e talvolta mitizzati. Inoltre, l’ambiente, il territorio, e più in generale lo spazio, possono entrare direttamente nelle retoriche politiche e religiose, oltre che essere usati come orientamenti etici, come rappresentazioni di valori, come concezioni del mondo e della natura. Al contempo, forme di vita e di cultura che hanno abitato e che abitano specifici luoghi, hanno concretamente inciso lo spazio, nel loro divenire storico, modificandolo e trasformandolo sulla base di orientamenti di valore, di credenze tradizionali e sistemi economici. Tutte queste complesse dinamiche culturali hanno sempre avuto un ruolo determinante nel costruire il senso dei luoghi (Ligi, 2016: 189).

Il termine “paesaggio” è una parola colta che nasce in epoca moderna e in terra fiamminga. Come afferma Gian Luigi Beccaria, la parola compare per la prima volta nella lingua olandese del Quattrocento con Landskap, poi in tedesco con Landschaft e in inglese landscape per significare una forma della terra, definizione letterale che mette in luce il nesso con il “formare”, il plasmare, il modificare, il lasciare tracce e segni di umanità sull’ambiente naturale. Le lingue neolatine attingono invece a “paese”. La prima attestazione del francese paysage è del 1493, mentre con la parola italiana paesaggio siamo in pieno Rinascimento con l’intestazione di Tiziano Vecellio nel 1552 (Bertone, 2000). Ed è proprio in questo periodo che si innesta la concezione estetica e pittorica di paesaggio legata anche alla nascita della prospettiva.

Intuitivamente il paesaggio, attraverso una concezione ormai entrata nell’uso comune, è una sorta di veduta, cioè un’immagine percepita di una porzione di ambiente naturale, di una superficie terrestre, che si può abbracciare con lo sguardo da parte di uno spettatore (Ligi, 2016: 190). Ciò implica che il sentimento dell’osservatore che percepisce l’immagine non è mai indifferente. Affiora pertanto, in questa prima concezione, il tema che l’ambiente diventa paesaggio soltanto quando riceve un’impressione emotiva.

In una seconda fase il concetto di paesaggio si libera dall’idea di veduta e diventa una sintesi coerente di vedute possibili. Quest’ultimo concetto di paesaggio, più complesso del precedente, è per esempio alla base di espressioni come “paesaggio dolomitico”, o “paesaggio lagunare” oppure “paesaggio della campagna romana” (Ligi, 2016: 190). In questi casi il riferimento è verso un’articolata sequenza di possibili immagini associate, parzialmente diverse le une dalle altre, in cui però si ripetono alcuni elementi fondamentali che ricorrono, legati in una costante e caratteristica coordinazione. Questo è il caso per esempio del concetto ampio di “paesaggio geografico”.

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Van Gogh, Salici al tramonto, 1888

La prima e la seconda concezione di paesaggio, le quali risultano essere interdipendenti, esprimono entrambe manifestazioni visibili dell’ambiente. Esistono però molti fenomeni non visibili e non avvertibili immediatamente dai sensi che tuttavia contribuiscono a determinare ciò che di un paesaggio si manifesta in seguito alla vista, come ad esempio i fenomeni climatici sul mantello vegetale, oppure l’idrologia sulle forme del suolo (Ligi, 2016: 191). Ancora più invisibili sono i fenomeni di tipo socio-economico che plasmano il visibile di un paesaggio, come la dispersione delle case rurali o il loro concentramento a costituire grossi agglomerati urbani, oppure miniere ed insediamenti minerari nelle parti più alte delle montagne in prossimità del giacimento che stanno comunque in rapporto con strutture differenti della società e con altre forme economiche.

Questi fattori devono essere ricompresi in una terza concezione di paesaggio, che è appunto quella utilizzata dalle scienze sociali e da alcune branche della geografia, in cui diventa fondamentale non soltanto il rapporto con l’osservatore senziente e con un’impressione emotiva del paesaggio, ma anche con una complessa serie di pratiche sociali, economiche, politiche che innestano direttamente l’azione antropica nell’ambiente. Studi importanti (uno di questi è per es. Vallerani, 2013), hanno infatti sostenuto che, dal primo dilatarsi delle culture urbane soprattutto in area mediterranea, è andata delineandosi una chiara dicotomia tra il vivere accentrato in siti particolarmente favoriti da posizione geografica e caratteristiche morfologiche ed il loro contorno ambientale, da sempre destinato al sostentamento dell’organismo cittadino (Vallerani, 2013: 252). A queste diverse vocazioni territoriali sono corrisposte specifiche competenze operative che a lungo andare hanno sedimentato non solo una proficua simbiosi tra urbano e rurale, ma anche il crescente diversificarsi di ambiti operativi e intersecazioni funzionali che hanno trovato ampio riscontro nell’evoluzione della storia della cultura e nella conseguente costruzione di processi di rappresentazione simbolica (Cosgrove, 1990).

Il paesaggio quindi non è semplicemente un luogo isolato dallo sguardo, ma è un ritaglio ricco di significato. Yi-Fu Tuan ha sottolineato così la differenza tra paesaggio e ambiente: «l’ambiente è un dato, un frammento di realtà che è semplicemente là, opposto al paesaggio, che è invece un prodotto della cognizione umana, una conquista della mente matura» (Tuan, 1974: 90).

Le conoscenze e le pratiche legate alla percezione del paesaggio, derivano da una secolare codificazione di quella che Ingold ha definito «enviromental situated experience». Questo particolare genere di esperienza dello spazio e di tutti i suoi elementi, come il tempo atmosferico ed i mutamenti stagionali del paesaggio, ma anche lo spazio esperito da determinate professioni (come per esempio i lavoratori nelle miniere o negli offshore petroliferi), vengono quindi incorporati attraverso altri tipi di esperienze individuali più profonde, in cui giocano fattori di genere, di età e di expertise che riemergono in storie di vita, in memorie infantili o in aneddoti personali. Alcune di queste storie vengono raccontate e circolano nella comunità, prestandosi anche ad essere condivise, plasmate e tramandate come prodotti socialmente costruiti. Un esempio di questo genere può essere rintracciato nel ricco patrimonio di saperi legati alla percezione del paesaggio, tramandati e trasformati in un corpus di canti e di leggende come quelli della “cultura di miniera” nelle Alpi.

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Van Gogh, Paesaggio sotto la pioggia ad Auvers, 1890

Come ho avuto modo di osservare e di analizzare personalmente, la percezione che il minatore ha del suo ambiente lavorativo, fa in modo che la miniera corrisponda sia al contesto in cui avviene la trasmissione e la negoziazione dei saperi pratici, sia ad un paesaggio sacro, accessibile solo ai minatori (nelle Alpi, per esempio, era vietata l’entrata in miniera delle donne in quanto si raccontava portasse sfortuna), in cui dimorano figure protettrici alle quali solo i lavoratori possono rivolgersi. La miniera quindi, com’è tramandato anche nei testi dei canti e delle leggende, diventa per i lavoratori il luogo privilegiato di accostamento tra gli uomini ed una particolare forma poietica del divino legata esclusivamente a tale categoria professionale. In particolare, in molti canti, diffusi un tempo nell’intero arco alpino, è presente la bramosia di riconciliazione tra il minatore e la miniera, in quanto per lui il paesaggio esterno non rappresenta il suo mondo simbolico e valoriale (Armano, 2018: 175).

Quanto detto vale anche per i paesaggi urbani, ossia i paesaggi fortemente umanizzati. Peter Berger, in The Homeless Mind, un classico degli studi sulla post modernità, mette in luce quanto sia talvolta alienante vivere l’esperienza dello spazio urbano nelle metropoli occidentali fatte di strutture anonime e svincoli, malls, tangenziali, stazioni e motel. Il soggetto moderno, sostiene Berger, possiede un qualcosa di nomade percorrendo questi non-luoghi (Augé, 1993) in modo frenetico e provando un crescente spaesamento. Nel tempo prestissimo della post-modernità, in cui tutto è molteplice, fluido, incerto, il senso dei luoghi non si sedimenta, il vissuto è frammentato. Sostiene infatti Jedlowski: «Differenti momenti giacciono gli uni a fianco agli altri senza che sia possibile (o per lo meno facile) collegarli fra loro» (Jedlowski, 2009: 22). Compaiono così segni di disorientamento e di solitudine, si atrofizza la capacità di riconoscere nella propria vita una trama significativa (Ligi, 2016: 203). Tuttavia il paesaggio urbano è sempre ambivalente; all’indubbia anomia dei luoghi spersonalizzati e inospitali, si accostano spazi di relazione umana, magmatici e creativi.

Nel 1915, per esempio, in un celebre saggio apparso nell’American Journal of Sociology, Robert Park che fu, com’è noto, fra i padri ispiratori dell’antropologia urbana, con The City (il volume fondativo scritto nel 1925 con Burgess e McKenzie) parlando di Chicago, che all’epoca era considerata il prototipo della nuova città americana, l’autore affermava:

«Dal nostro punto di vista, la città è qualcosa di più di una congerie di singoli uomini e di servizi sociali, come strade, edifici, lampioni e via dicendo: essa è qualcosa di più di una semplice costellazione di istituzioni e di strumenti amministrativi, come tribunali, ospedali, scuole, polizia e funzionari di vario tipo. La città è piuttosto uno stato d’animo, un corpo di costumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti organizzati entro questi costumi e trasmessi mediante questa tradizione. In altre parole, la città non è semplicemente un meccanismo fisico e una costruzione artificiale: essa è coinvolta nei processi vitali della gente che la compone» (Park, Burgess, McKenzie, 1999).

Le città possono inoltre essere considerate come contesti in cui prendono forma e si enfatizzano particolari pratiche di percezione sensoriale da cui scaturiscono speranze ed utopie di città alternative in contrapposizione a quelle esistenti. Italo Calvino per esempio così scrive in Le città invisibili:

«Credo che non sia solo un’idea atemporale di città quello che il libro evoca, ma che vi si voglia, ora implicita ora esplicita, una discussione sulla città moderna. […] Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e “Le città invisibili” sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. […] Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi» (Calvino, 2016: IX-X).
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Van Gogh, Paesaggio con covoni di grano e luna che sorge, 1889

Le città possono essere immagini di un immaginario (riprendendo il titolo del libro di Ilaria Serra, 1997), di un luogo lontano da raggiungere per sfuggire, a sua volta, da un altro luogo percepito ormai inospitale, con valori culturali desueti e privo di speranze. I paesaggi in questo caso implicano anche l’importanza simbolica dello spostamento. Afferma Serra, a proposito della massiccia emigrazione italiana verso gli Stati Uniti avvenuta tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo:

«L’America, proprio per il suo essere sogno più che realtà, immagine variegata e sfumata, non è esclusivamente né Inferno né Paradiso, ma in parte entrambi. […] La partenza è caratterizzata dalla spinta del sogno e dalla speranza nel futuro, ma è bagnata di lacrime di dolore. Il viaggio viene a volte rimosso da ricordi più importanti, a volte presente come trauma iniziatico. […] L’America è insieme sofferenza e fortuna, dolore e felicità, che sono aspetti inscindibili, di volta in volta più o meno evidenziati» (Serra, 1997: 16).

Contemporaneamente nello spostamento da un luogo ad un altro, il valore simbolico del viaggio crea autorappresentazioni ed eterorappresentazioni di persone. Nel caso della figura dell’emigrante italiano negli Stati Uniti nei primi anni del 1900, chi rimane in patria costruisce l’immagine di un individuo emigrato che, assorbito dalle pulsioni e dagli stili di vita di città lontane che risultano addirittura misteriose e fantastiche agli occhi di chi resta, si trasforma da figlio ad estraneo:

«Gli emigrati han dimenticato la patria, perché nel turbine dei grandi centri, han perduto il sentimento di famiglia; son divenuti figli degeneri di questa terra benedetta, ove i loro cuori erano cresciuti all’aura de’ più sacri affetti! […] L’attraversamento dell’oceano – liquido amniotico – diviene un rito di passaggio a nuova vita, lasciando alle spalle il vecchio e portando solo ciò che sta nella valigia e nella memoria. […] L’America è una terra che conquista, una sirena che con il suo canto attira gli uomini per ucciderli al passato, sottraendoli alla vita precedente e alle loro famiglie» (Serra, 1997: 180).

In altre parole è come se per l’emigrato valessero le parole di Franz Kafka secondo cui: «I primi giorni di un europeo in America si possono paragonare alla nascita di un uomo» (Kafka, 1974: 70). In generale comunque, quanto detto mostra chiaramente come l’organizzazione dello spazio abitato e le modalità di conferire un senso ai luoghi, rappresentino un’espressione simbolica di un comportamento costitutivamente umano. Come ci ricordano le ben note riflessioni di Ernesto De Martino sull’appaesamento, ossia il “rendere paese” un luogo fino ad allora estraneo, significarlo per mezzo di conoscenze e di valori al fine di includerlo nel proprio orizzonte culturale, il nesso uomo-luogo costituisce la radice di ogni forma di umanità. In particolare, rifacendosi alla filosofia esistenzialista di Martin Heidegger, De Martino indaga la spazialità dell’esserci, ossia di un soggetto che mentre è nel mondo, pensa al mondo, sé stesso nel mondo e all’angoscia propria e altrui di fronte al rischio di non esserci in nessun mondo culturale possibile. L’essere di un uomo spaziale, nel senso che ha sempre a che fare con dei luoghi, è espresso chiaramente da De Martino nel suo famoso esempio de “il campanile di Marcellinara”:

«Ricordo un tramonto percorrendo in auto una strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e chiedemmo le notizie che desideravamo e, poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che chiare, gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo accompagnato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse un’insidia e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per qual campanile scomparso il povero vecchio si sentiva completamente spaesato e solo a fatica potemmo ricondurlo al bivio giusto ed ottenere ciò che ci occorreva sapere. Lo riportammo, poi, indietro in fretta secondo l’accordo e sempre stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l’orizzonte per vedere riapparire il campanile di Marcellinara finché, quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista della “patria perduta”. Giunti al punto dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma e scomparendo completamente senza salutarci, ormai fuori dalla tragica avventura che lo aveva strappato allo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara» (De Martino, 2002: 613-614).
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Van Gogh, Campi di grano in un paesaggio collinare, 1889

Attraverso le parole di De Martino si coglie lo smarrimento del vecchio pastore legato allo sconfinamento in luoghi a lui estranei e alla perdita di punti di riferimento noti che causano la momentanea perdita della presenza.

Tra gli studiosi che seppero meglio cogliere la città come uno stato d’animo c’è certamente Walter Benjamin. Per chi si è lasciato smarrire almeno una volta fra le annotazioni, i commenti, i rimandi, di quel prodigioso volume incompiuto che è Parigi capitale del XIX secolo, troverà indimenticabili i luoghi e altri passages, precursori del mall post-moderno, fra cui «sovente sobrio al mattino, più lieto a sera, quando brillano le lampade a gas» passeggia il flâneur, catturato da quella città di specchi, incroci di spazi aperti fra la strada e l’interno infinito dei caffè (Ligi, 2011: 121). Ma forse troverà ancor di più indimenticabili:

«Quelle piccole piazze senza tempo, che sorgono all’improvviso e non hanno un nome vero e proprio: nessuno le ha progettate in anticipo, con la place Vendôme o la place des Grèves e la storia universale non le tiene sotto il suo patronato, ma esse sorgono come dimore, che lentamente e in ritardo per un resto di sonno, si riuniscono per l’appello del secolo» (Benjamin, 1986: 666).

In queste piazze, scrive Benjamin nella sezione del volume dedicata alle strade di Parigi:

«Gli alberi hanno la parola, persino i più piccoli gettano un’ombra fitta. A tarda ora le loro foglie stanno davanti ai lampioni come un vetro appannato color verde scuro, e a notte il loro primo verde splendore è il segnale automatico dell’arrivo della primavera nella grande città» (Benjamin, 1986: 667).

Anche in Immagini di città, Benjamin evoca in modo incisivo l’atmosfera in cui è immersa la città norvegese di Bergen, consentendo ai lettori di concepire precisamente i nessi percettivi tra persone e luoghi e l’incorporazione, nei soggetti, del contesto culturale, sociale e fisico in cui vivono:

«Il giardino che certe case borghesi hanno sul davanti, è coltivato così fitto che a nessuno viene l’estro di intrattenervisi. Forse è per questo che qui le ragazze hanno un modo di starsene sulla soglia di casa, di appoggiarsi all’arco della porta, che nel sud è pressoché sconosciuto. La casa ha ancora confini ben precisi. Una donna, per sedersi davanti alla porta, aveva messo la sedia non perpendicolare ma parallela alla facciata di casa, dentro una nicchia della porta: in ciò figlia di una razza che fino a duecento anni fa ancora dormiva in armadi. […] Gli alberi qui si fanno schivi e si riparano dietro a recinti, i fiori invece mostrano una tempra inaspettata» (Benjamin, 2007: 84).

L’idea di incorporare i luoghi da parte delle persone pone il problema di interpretare i significati simbolici conferiti allo spazio dalle culture umane, di spiegare la funzione che essi svolgono nello strutturare i rapporti interpersonali dell’individuo, all’interno e all’esterno delle abitazioni (mediante per esempio l’analisi delle componenti socio-culturali dell’architettura), nel processo di acquisizione della cultura, nella percezione e nell’organizzazione culturale del territorio, nell’appropriazione e gestione delle risorse (corsi d’acqua, pascoli, vie di comunicazione) e in generale in ogni processo di azione sociale (Ligi 2009).

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Van Gogh, Campo di frumento con cipressi a Saint Remy, 1889

L’antropologa Setha M. Low mette chiaramente in luce la non neutralità dei luoghi, utilizzando l’espressione “spatializing culture”. Low afferma che: «Per spazializzare, intendo collocare, sia fisicamente sia concettualmente, le pratiche e le relazioni sociali nello spazio sociale» (Low 1986: 861). Ciò significa considerare la rilevanza che l’organizzazione sociale dello spazio (il nesso uomo-luogo) assume nella vita quotidiana e dunque nella ricerca antropologica, focalizzando le indagini sulla connessione fra le componenti spaziali del comportamento umano, i processi mentali e le concezioni del sé; sulle modalità con le quali la società produce determinate forme costruite (abitazioni, strade, villaggi, città) che a loro volta manifestano e riproducono determinati valori sociali; sul ruolo svolto dalla storia locale e dalle istituzioni sociali nel generare e plasmare gli ambienti naturali e quelli costruiti; e sulle relazioni fra spazio e potere. Questo approccio ecologico-relazionale, utilizzato attualmente in antropologia e in geografia, ridefinisce il luogo come prodotto della sintesi fra un dato naturale e una percezione sensoriale (Ligi 2009: 49).

Tra gli studiosi che forse sintetizza meglio il rapporto tra essere umano e ambiente fisico è senza dubbio Tim Ingold, secondo cui l’idea di abitare un luogo (dwelling) viene usata per indicare come un organismo sia imbricato (embedded) nell’esperienza di essere un corpo specifico in un ambiente specifico. Nel linguaggio di senso comune il concetto di “ambiente” è usato per lo più per indicare il luogo bio-fisico non umano, mentre per Ingold l’ambiente è sia “ciò che è intorno” all’unità d’analisi prescelta, sia l’insieme delle dimensioni socio-culturali e delle tecniche. Questo perché l’abitare un luogo non può esistere senza l’agire, inteso come modalità primaria di relazione con il mondo. Tale presa di posizione, che rappresenta il fulcro del pensiero di Ingold, consente di superare il dualismo storico tra mente e corpo della psicologia e dell’antropologia cognitivista emerso soprattutto tra il 1960 e il 1980; in questo periodo, la scienza cognitiva assume infatti l’assetto intellettuale e istituzionale che costituisce la sua forma “classica”, basata sulle ricerche intorno all’intelligenza artificiale e simbolica. In tale contesto il calcolatore diventa il modello a cui si ispira lo studio della cognizione, incentivando lo sviluppo di una teoria computazionale della mente. Questa è modellizzata appunto come una macchina che elabora informazioni, immagazzinando e manipolando rappresentazioni simboliche in un linguaggio del pensiero sulla base di un programma che ne costituisce le regole sintattiche.

Ingold sottolinea invece come l’individuo si radichi nel suo ambiente attraverso pratiche locali, in quanto “matrici” concrete di un insieme di abilità specifiche, intese come un saper fare tacito ed incorporato, che non si codifica in regole, ma dà luogo ad un agire situato che consiste nel saper effettuare un certo ciclo di azioni calibrando la propria passata esperienza rispetto a contesti e situazioni specifiche (Ingold, 2016: 14). La forza teorica di tale argomentazione, utile anche nell’osservazione etnografica in contesti specifici, mostra come l’agire umano contestualizzato in un luogo non rappresenti una mera capacità di eseguire sequenze di azioni, anche complicate, che possono essere analizzate e scomposte in una serie di compiti elementari, e di cui si potrebbe dare un’esauriente computazione, ma si tratta piuttosto di una proprietà dell’intero sistema di relazioni costituito dalla presenza dell’agente umano o non umano in un ambiente riccamente strutturato.

All’idea di azione situata e di sapere incorporato, Ingold associa inoltre una nozione di persona in quanto locus dell’attenzione, dell’apprendimento e del coinvolgimento nel mondo. Tale nozione non denota né un nucleo innato e privato che ogni persona universalmente possiede, né la rappresentazione che ci facciamo di noi in quanto membri di una collettività sociale. Ad essere focalizzato è piuttosto l’individuo come nodo in continua crescita esperienziale all’interno di un campo di relazioni in cui, nel corso del tempo, emergono e si evolvono le sue qualità, le sue proprietà e le sue conformazioni. Per Ingold: «il processo di diventare persona è integrale al processo del diventare organismo» (Ingold 2016: 15), concetto che ricorda l’azione plasmatrice della cultura sull’essere umano elaborata, in vari modi, da Clifford Geertz e da Francesco Remotti.

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Van Gogh, Campo di grano sotto la tempesta, 1890

In generale, interpretando i sistemi nativi di significato che conferiscono senso ad un luogo, non è possibile non affermare che, mediante un processo sociale profondo ed ininterrotto, ad ogni struttura fisica, ecologica, di un luogo le persone proiettano e saldano sempre una particolare struttura di sentimento. Un paesaggio non è mai un frammento di realtà esterna che giace semplicemente là al di fuori del soggetto. Dal punto di vista antropologico non esiste il paesaggio in senso oggettivo ed indipendente dall’osservatore che lo considera tale. L’ambiente naturale può essere oggettivamente dato, ma diventa paesaggio e lo spazio diventa luogo in quanto sottoposti all’opera creativa della cognizione umana e della plasmazione affettiva. Un esempio estremamente significativo di questa opera ricostruttiva, affettiva e simbolica a cui i gruppi umani sottopongono il loro contesto-ambiente, è assolutamente riscontrabile in moltissime ricerche etnografiche.

Valentina Simeoni, per esempio, mostra chiaramente come i Navajo possiedano un sistema di credenze secondo cui non vi è luogo nel Sud-Ovest che non sia carico di significato:

«Lo spazio territoriale locale (Dinetah, ossia la “casa del popolo”; Navajo significa appunto, come per moltissime popolazioni, “Il Popolo”) ospita una vera e propria geografia sacra, rintracciabile innanzitutto nel valore attribuito alle quattro montagne e ai quattro fiumi che lo circondano e poi quotidianamente, nella conoscenza esperta dei siti in cui raccogliere le erbe per le cerimonie, nell’utilizzo degli hogan quali spazi cerimoniali, nel vincolo esistenziale al luogo in cui è stato seppellito il proprio cordone ombelicale e che fa di quel punto la propria casa» (Simeoni, 2016: 32).

Sottolinea Simeoni che, in riferimento a quanto detto, vi è un vero e proprio passaggio dallo “spazio” al “luogo”, il quale rappresenta il primo passo verso la generazione di un paesaggio culturale come rete di luoghi significativi per le comunità native. Il legame al territorio viene ribadito in ogni cerimonia di guarigione dove, per il paziente, viene realizzata una pittura su sabbia fatta con polvere di roccia prelevata dalle montagne sacre su cui poi si applicano erbe ed altri materiali che hanno a loro volta una provenienza territoriale precisa (Simeoni, 2016: 32). Ugualmente il riconoscimento e la simbologia dei luoghi presso altre popolazioni americane come i Tłı̨chǫ dei territori del Nord Ovest del Canada, sono utili per fare predizioni riguardo a fenomeni naturali determinati oppure per narrare, attraverso una particolare categorizzazione nativa, la biodiversità di un luogo e, di conseguenza, la simbologia che, ciascun animale, riveste nel sistema cerimoniale Tłı̨chǫ (Tłı˛cho˛Traditional Knowledge Reports, 2014: 11).

Numerosi sono gli esempi in cui dal significato di un luogo scaturisce una sorta di sacralità, un mana, percepita in rapporto a monumentali elementi del paesaggio. Il mana lo possono avere luoghi e cose (spesso una pietra o una roccia), lo hanno le entità sovraumane e può essere acquisito anche dagli esseri umani. Ad esempio, era diffusa un tempo la credenza tradizionale che gli sciamani Saami della Lapponia alla loro morte si trasformassero in pietre o in montagne sacre. In questo quadro, un minuzioso lavoro compiuto in ambito italiano, è quello di Gianna Chiesa Isnardi, che ha catalogato e descritto i nessi simbolici fra l’intero corpus della mitologia norrena e il paesaggio. Afferma Chiesa Isnardi che la concezione simbolica della terra, là dove si innalza, rende le colline e le montagne paradigmi del potere divino che le distingue dalla piana sconfinata delle origini. Esse vivono per la presenza di esseri sovrannaturali, nani e giganti, che vi trovano dimora come per esempio i bergrisar (giganti delle montagne).

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Van Gogh, Paesaggio con tempesta, 1891

Similitudini ai bergrisar li ho riscontrati personalmente anche nel corpus di leggende nelle Alpi, in special modo in riferimento alla categoria professionale dei minatori. In tali leggende, trasmesse un po’ ovunque nel territorio alpino, compaiono presenze sovrannaturali abitanti le montagne le quali rivelavano ai minatori la presenza dei giacimenti soprattutto argentiferi. In particolare, in Val del Fersina (Trento), si raccontava della presenza, nelle miniere, dello Sperkmandel. Si dice che egli indossasse un mantello rosso, che fosse munito di lampada ed avesse la barba lunga fino ai piedi, tanto che, per praticità, doveva avvolgersela attorno alla vita. Egli svelava ai minatori dove scavare il minerale ma, quando gli uomini volevano catturarlo, scompariva improvvisamente. Le presenze sovrannaturali delle miniere alpine erano dotati sia di mana che di tabu. Un esempio è dato dal Bergmännlein, piccolo nano minerario presente nelle leggende tirolesi che si prendeva la libertà di sparpagliare il minerale una volta raccolto dai minatori alla fine del loro turno di lavoro. Molte leggende narrano che un giorno un minatore, stanco di raccogliere il minerale sparso per la miniera, ingiuriò contro il Bergmännlein il quale, per vendetta, girò la testa dell’uomo all’indietro verso la schiena. L’uomo non morì subito, ma visse in quelle condizioni per molti anni con lo scopo di dimostrare quale punizione spettasse a chi non rispettava gli spiriti della miniera (Armano, 2018: 147).

Attraverso l’analisi di canti, di leggende, di proverbi si possono quindi produrre dense riflessioni che consentono di tentare di catturare la percezione emica del vento, dell’acqua, della roccia, di colline e di montagne, del paesaggio nel suo insieme e dell’interazione culturalmente multidimensionale plasmata dagli aspetti cognitivi, simbolici e dalla varietà di pratiche connessi ai processi di significazione del territorio. Affiora quindi un terreno molto fertile ed affascinante, ancorché complesso, per sviluppare ulteriori ricerche sulla fitta rete di significati simbolici che la cultura conferisce agli elementi del paesaggio.

Per concludere vorrei riprendere le parole di Clifford Geertz, che, nel suo classico lavoro Interpretazione di culture afferma:

«Il pensiero umano è fondamentalmente sia sociale sia pubblico – il suo habitat naturale è il cortile di casa, il mercato, e la piazza principale della città. Il pensare non consiste in “avvenimenti nella testa” (benché gli avvenimenti lì e altrove siano necessari perché il pensare abbia luogo), ma nel traffico di quelli che sono stati chiamati simboli significativi» (Geertz, 1987: 65).

Semplificando molto si può dire che la cultura in senso antropologico è costituita da sistemi nativi di significato variamente organizzati in corpi di conoscenze (miti, dottrine, precetti morali, credenze, terminologie di parentela ecc.) che trasmettono la visione del mondo propria di un gruppo sociale. In particolare, in relazione all’antropologia del paesaggio, il complesso di studi finora prodotto ha mostrato essenzialmente l’importanza dei dispositivi culturali (rappresentazioni, memoria, linguaggio) mediante i quali una comunità percepisce e ordina il proprio ambiente naturale.

In ogni epoca, i processi percettivi sono sempre stati anche simbolici. Gli esseri umani non si sono mai limitati a «registrare» il loro ambiente secondo una visione riduzionistica della meccanica biologica dei sensi: essi lo interpretano, lo sognano, lo giudicano, lo immaginano, lo raccontano, e si impegnano in ulteriori forme di conoscenza (Ligi, 2013: 68-69). In molte culture, i tratti fisici dell’ambiente diventano a loro volta elementi concreti per cristallizzare e lessicalizzare in forma metaforica esperienze sociali complesse e concetti astratti.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Riferimenti bibliografici
L. Armano, La cultura di miniera nelle Alpi. Autorappresentazione della categoria professionale dei minatori, Aracne, Roma, 2018.
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.

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