di Marcello Carlotti
In memoria di Marcelo Dascal (Sao Paulo, 1940 – Tel Aviv 19.04.2019)
Quando mi fu chiesto di pensare ad una ricerca per il Dipartimento di Filosofia della Tel Aviv University, pensai che sarebbe stato interessante proporre un’nvestigazione antropologica diversa da quelle cui, solitamente, gli antropologi sono abituati. Non si trattava, pertanto, di andare su un campo esotico ad osservare ed interpretare una popolazione remota alla ricerca del senso di qualche pratica parentale o cosmogonica, quanto piuttosto di definire un nuovo campo trasversale. Ritenni interessante, dato che nessun antropologo se ne era occupato, fare una ricerca su un tema che, per quanto concerne le scienze socioantropologiche, era per me di scottante attualità: chi sono (o possono esser definiti tali) gli intellettuali? Cosa fanno? Qual è la loro funzione sociale e culturale? Quale il loro impegno nelle società contemporanee e postmoderne? Il titolo della ricerca era Intellectuals, engagement and postmodern societies. Se già era difficile definire e comprendere cosa fossero le società postmoderne, ancora più complesso si rivelò definire chi fossero gli intellettuali e cosa facciano in realtà. Ricordo che Marcelo Dascal, il mio compianto mentore, mi disse che, per quanto ne capiva lui, il primo problema che dovevo affrontare da antropologo era quello di stabilire chi dovessi intervistare. Davanti a me si ponevano due strade. La prima, più sociologica e statistica, era quella di approntare un questionario da somministrare a centinaia di persone scelte a campione per trarne un dato il più oggettivo possibile. La seconda, più propriamente antropologica, era quella di preparare una serie di domande e scegliere un più ristretto numero di informatori rappresentativi. In entrambi i casi, tuttavia, si poneva uno dei noccioli critici della questione: chi sono gli intellettuali e chi può rappresentarli, ovvero parlare per loro. Una persona può essere definita un intellettuale perché la gente la percepisce come tale, o può essere definita intellettuale sulla base di ciò che fa? Come sempre, la verità non sta mai da una parte, ma tende ad annidarsi nel mezzo, pertanto per un verso un intellettuale è un individuo che fa qualcosa di speciale che lo connota come tale, ma se non è, in qualche modo, riconosciuto come tale da un gruppo significativo di persone, la sua azione intellettuale è pressoché nulla.
Nel concreto, come mi disse Carlos Thiebaut durante la nostra intervista a Madrid, un intellettuale è uno che passa il proprio tempo a leggere, pensare, scrivere, pubblicare e parlare e che, per questo, viene pagato e quindi riconosciuto dalla società. Tuttavia, un qualunque docente di una qualunque disciplina – gli dissi – fa esattamente queste cose e non per questo può essere definito un intellettuale. Sicuramente, quello dell’intellettuale è un ruolo socialmente riconosciuto, così come quello dello sciamano, dello stregone, dell’uomo medicina o del muratore, ma a differenza di questi, le categorie identificative sono più labili. Cerco di spiegarmi meglio. Ad esempio, quando uno sta male, va da un uomo medicina, quando vuole costruirsi una casa, chiama un muratore, ma nella pratica quando si ricorre ad un intellettuale? Nella carta di identità, alla voce professione, uno può far scrivere insegnante, medico, avvocato, notaio, sacerdote, etc. ma chi può pretendere di far scrivere “intellettuale”? Da un certo punto di vista, poi, bisogna distinguere il piano meramente cognitivo, da quello più sottilmente “intellettuale”, almeno per come concepiamo noi oggi quella funzione. Un fisico degli elementi, un chimico, un filosofo possono essere capacissimi come agenti cognitivi rispetto al loro campo di applicazione teorica, metodologica e pratica, ma non per questo sono necessariamente (riconosciuti come) intellettuali. Questo, come ebbi modo di appurare durante le interviste, rimanda ad un altro aspetto controverso e problematico: quello del carisma che si lega inestricabilmente col riconoscimento sociale. Nessun singolo, mi risulta, si reca da un intellettuale a porgli un problema o un quesito strettamente personale. Normalmente si contatta una persona il cui pensiero e la cui personalità sono tanto carismatici ed esemplari da farlo ritenere un intellettuale per organizzare un incontro, un’intervista, un seminario, etc. dove “la società” lo/la interroga su temi sensibili, controversi e problematici, sperando che l’intellettuale, come una guida esperta, sappia individuare se non proprio la direzione giusta, almeno gli strumenti concettuali con cui affrontare il quid in discussione. Pertanto, se non proprio un essere dotato di risposte, l’intellettuale rappresenta in primis coloro che sono dotati degli strumenti di visione (paradigmatici), pensiero (epistemici) e potenziali azioni (morali) tali per cercare di dirimere quegli in sospeso sociali che circolano nell’aria generando criticità; in secundis coloro che, come gli aruspici e le cassandre, prevedono i problemi che, di lì a breve, la società dovrà fronteggiare. Ma allora cosa distingue l’intellettuale dal politico? Anche il politico deve avere un sufficiente carisma e la capacità di prevedere problemi e proporre soluzioni. Le principali differenze risiedono in due fatti banali, ovvero che il tipo di intellettuale “puro”, a differenza del politico “puro”, è libero da ideologie e, contrariamente a quest’ultimo, non agisce e parla pubblicamente per creare o ricercare il consenso utile a governare. Lo scopo dell’intellettuale non è l’amministrare (per) gli altri, ma la dialettica, la controversia e lo stimolo all’autogoverno implicito nel tentativo di risvegliare le coscienze individuali. Insomma, l’intellettuale è chi è in grado di pensare con la propria testa e fa di tutto affinché anche gli altri imparino a pensare con la loro o, per usare parole care a Gramsci, l’intellettuale è il primo agente antiegemonico e antisubalternità.
Questo fatto, tuttavia, pone in luce il paradosso che Gayatri C. Spivak evidenziò a proposito di voce e subalternità: la vera subalternità è priva di voce; pertanto, quando un gruppo sociale riesce a generare una voce capace di farsi ascoltare, può ancora essere definito subalterno? Il problema, in verità, era già stato affrontato dallo stesso Gramsci, che non a caso parlava di intellettuali organici, concetto che non va molto distante dal ruolo che gli intellettuali, salvo rare eccezioni, hanno sempre avuto nelle società complesse e stratificate e che, negli ultimi mille anni dell’Occidente, è stato per lo più rivestito dai chierici: essere integrati in e da un gruppo socialmente, culturalmente ed economicamente egemonico.
Ovviamente, anche fra i chierici si è spesso registrato il dissenso rispetto al pensiero dominante, e a favore di un libero esercizio dell’intelletto e della critica (come dimenticare, al riguardo, il caso di Giordano Bruno?), ma il vero momento di frizione e potenziale libertà ha cominciato a manifestarsi quando due istituzioni e/o classi egemoniche hanno battagliato fra loro per ottenere la supremazia sul resto della società, dando briglia ai loro intellettuali di riferimento, come avvenne, ad esempio, durante la lunga lotta che contrappose la crescente borghesia agli ordini di clero e nobiltà, o come, in tempi più recenti, è capitato durante la guerra fredda quando si contrapponevano gli intellettuali di destra, quelli di sinistra e quelli del centro cattolico, con le rispettive gemmazioni liberali, radicali e ortodosse. Tuttavia, quel che era valido e funzionale anche solo fino all’immediata caduta del muro di Berlino ed alla successiva Perestrojka, oggi, in una società plasmata dal capitalismo liberista e dalla pervasività della rete e dei social, risulta anacronistico ed al limite del disfunzionale: all’intellettuale otto-novecentesco, si sta sostituendo l’ospite da talkshow e l’influencer da socialmedia che posta su Facebook, Twitter e YouTube, in una spirale che si autoalimenta, trasformando l’influencer in opinionista e l’opinionista in personaggio socialmassmediatico. Non c’è, tuttavia da stupirsi di questa trasformazione, considerando che, almeno in Italia, viviamo in una società che legge sempre meno e che, con una media nazionale che sfiora il 40%, quando legge un testo elementare non lo comprende.
Insomma, se nel 1927 J. Benda poteva scrivere un libro dove accusava i chierici di aver tradito la loro missione intellettuale universale, dopo quasi un secolo qualcuno potrebbe postare un’autovideointervista su Youtube per ammettere il fallimento della nostra intera categoria che non è stata in grado di farsi ascoltare e di propagare il principio di responsabilità e quello di speranza, lasciando campo libero al principio disperazione e a quello, nuovo e consumistico, di vacuità. Se le due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, o la guerra in Vietnam, fecero riflettere, dissentire, scioperare e reagire intere generazioni, le guerre attuali, i cataclismi, il cambiamento climatico, la desertificazione, l’inquinamento, lo sfruttamento insensato delle risorse, le migrazioni di massa, il precariato, la perdita di diritti sociali, civili ed economici, etc. non sembrano scalfire più di tanto la corazza amorale del disilluso cittadino medio contemporaneo, nonostante, mai come oggi, si sia costantemente connessi e dotati di titoli di studio superiori, universitari o post-accademici.
Venendo, infine, allo specifico del mio campo di appartenenza, mi chiedo, oggi ancor più che 15 anni fa, se gli antropologi siano ritenuti (e dotati del carisma di) intellettuali, in Italia, e se, così non fosse, quali responsabilità abbiamo tutti noi addetti ai lavori, dato che interculturalismo, multiculturalismo, integrazione, comprensione del diverso, dell’emarginato (di qualunque tipo e genere), controversie e conflitti culturali ed etnici, sono, fra gli altri, temi critici coi quali la nostra società e il nostro diritto devono quotidianamente fare i conti. Possibile che, a parlare di questi aspetti, siano chiamati tutti (da giornalisti ad opinionisti calcistici a storici dell’arte, scrittori e, qualsiasi cosa significhi, politologi e politici) eccetto coloro che hanno titoli e studi per farlo? Una prima, significativa risposta, in questo senso, viene da una visita in libreria, dove i testi di antropologia sono spesso appaiati a quelli di religione, misticismo e pensiero new age. Una seconda, dolorosa constatazione, avviene scorrendo i piani di studio accademici dove, sovente, i corsi antropologici sono tappabuchi semplici per chi vuole completare il monte crediti con un esame facile e divertente da preparare in una settimana e le cui lezioni, quando sono seguite, sono troppo spesso frequentate da studenti in cerca di esotismo eccentrico, ancora convinti che esistano popolazioni e culture pure da scoprire, e che ignorano che l’Africa, il Sud America, l’India, Bali o le Trobriand sono, nella migliore delle ipotesi, mete turistico-folkloriche, buenos retiros per pensionati nordeuropei o giapponesi, o luoghi più moderni dell’Italia, e, nella peggiore, le cui terre (ed il corrispettivo sottosuolo) sono preda dei nuovi imperialismi capitalistici di Stati e Multinazionali, con l’interessato consenso di governi collusi e corrotti.
L’etimologia del termine intellettuale è, tutto sommato, abbastanza semplice. Il lemma, usato solo in forma aggettivale fino al 1700, assume una funzione sostantivale durante l’Illuminismo francese, e deriva dal latino intellectualis, che a sua volta deriva da intéllectus che a sua volta deriva da intélligere, composto da inter- “fra, entro” e légere scegliere, raccogliere. Pertanto, almeno in origine, intellettuale identificava la facoltà dell’anima di formarsi delle idee generali, dopo averle criticate e distinte mediante il giudizio, andando oltre la sensibilità e l’esperienza che venivano considerate forme conoscitive di grado inferiore nel percorso di conoscenza che consentiva di raggiungere la verità. Detto in termini ancora più semplici, intellettuale era la capacità di scegliere (o raccogliere) fra varie opzioni.
Se ricostruire l’etimologia del termine è, tutto sommato, semplice, molto più arduo risulta ripercorrere la storia della funzione e del ruolo di chi, oggi, consideriamo e chiamiamo intellettuale. Anzitutto, dovremmo chiederci se un omologo o un analogo esista in tutte le culture e le società del mondo: filosofi, guru, sciamani, sacerdoti, profeti, scriba, mandarini, stregoni, consiglio degli anziani, sachem, bramini, etc. possono essere considerati, rispettivamente alle loro culture e comunità, degli intellettuali? O svolgono funzioni in parti sovrapponibili e in parte diverse? Lasciando in sospeso, qui, l’aspetto culturale e comparativo, mi limiterò a seguire una linea che ritengo, almeno in Europa, difficilmente contestabile: sicuramente se indico in Socrate un precursore ed ispiratore dell’intellettuale contemporaneo, dovrei riuscire a conseguire un ampio consenso.
Restaurato il governo democratico ad Atene per opera di Trasibulo (403 a. C.), Socrate venne accusato di empietà (asébeia) e d’illegalità (paranomía). L’atto di accusa venne scritto da Meleto, ma il vero promotore del processo era stato Anito, un autorevole esponente del partito democratico che, per la sua attività di mercante, era stato più volte biasimato da Socrate. Poiché parlava spesso di un “demone” che lo avrebbe consigliato nei momenti importanti della sua vita, Socrate fu accusato d’introdurre divinità nuove rispetto al culto religioso tradizionale e di corrompere i giovani. Molto probabilmente, il demone socratico era una semplice figura retorica, sotto cui si celava la coscienza morale dell’uomo giusto, volto alla rigenerazione morale della società greca, straziata dalla crisi sociopolitica conseguente alle lotte fratricide e all’arbitrio dei detentori del potere politico. Con tutta probabilità, gli avversari di Socrate vedevano in lui un pericoloso rivoluzionario, che istigava gli altri, e sopratutto i giovani, alla critica sovversiva nei confronti delle istituzioni ritarando nelle loro coscienze i paradigmi di legge, giustizia e moralità. L’accusa di empietà rivolta al filosofo era, dunque, un classico strumento di distrazione, o un’ipocrisia che celava il vero fine dei suoi accusatori, un fine politico più che religioso, in quanto si riteneva Socrate reo di un delitto pubblico che ledeva il culto sacro della pólis, mirando a sconvolgere lo status quo in virtù di un insegnamento sulla verità e sulla giustizia che minava le fondamenta stesse dello Stato conservatore. I nemici politici di Socrate temevano, infatti, le conseguenze politiche del suo insegnamento, secondo cui il governo non spettava né a chi fosse ricco o nobile per diritto di nascita, né a chi fosse eletto dal popolo, ma ai veramente meritevoli per sapere e virtù. L’urto fra conservazione e rinnovamento fu così inevitabile e il processo e la morte di Socrate ne furono la logica conseguenza. Egli invitava l’uomo a “conoscere se stesso”, a non aver paura a porsi e a porre continuamente domande su ciò che lo circonda, senza, tuttavia, la pretesa di arrivare sempre alla risposta incontrovertibile. Occorre essere fastidiosi come “tafani”, per evitare “l’incantesimo” delle apparenze, spesso comodo per chi ha paura di attraversare “il mare della vita” da solo e da uomo libero. Ma ecco le precise parole di Socrate:
«Ché se voi ucciderete me, non sarà facile troviate un altro al pari di me il quale – non vi sembri risibile il paragone – realmente sia stato posto dal dio ai fianchi della città come ai fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la sua stessa grandezza un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tàfano. Così appunto mi pare che il dio abbia posto me ai fianchi della città; né mai io cesso di stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi, uno per uno, standovi addosso tutto il giorno, dovunque».
La figura di Socrate e il suo processo, così come la tragedia Antigone di Sofocle, prefigurano il destino di altri processi e figure storiche come, ad esempio, il già citato monaco filosofo Giordano Bruno o il caso che coinvolse il capitano francese di origine ebraica Alfred Dreyfus.
Il primo assurto a simbolo della strenua e radicale difesa della libertà della ricerca filosofica di contro alla passiva accettazione dei dogmi e della cultura egemonica; il secondo famoso più che per il caso in sé, per la reazione in sua difesa (ufficialmente era stato accusato di Alto Tradimento, in verità fu vittima di un eclatante caso di antisemitismo) che, grazie alla pubblicazione del J’accuse… di E. Zola e al susseguente Manifeste des intellectuels di G. Clemenceau, sancì l’importanza della stampa nella formazione dell’opinione pubblica e nella pressione che questa poteva svolgere a livello politico. Che si tratti di indurre Socrate a bere la cicuta, Dante all’esilio, Bruno al rogo, Galileo a ritrattare, o Gramsci a morire in carcere, è evidente che, da sempre, gli intellettuali mossi dalla libera ricerca della verità e dalla radicalità della loro critica sono coloro che hanno sfidato l’egemonia culturale, le istituzioni e i portatori di interesse al momento al potere, mostrando che l’essere umano, per essere pienamente tale, non può che trascendere i limiti del paradigma e della forma di vita che l’ideologia ed i dogmi dominanti impongono alle masse, per asservirle ai loro interessi ed addomesticarle mediante i meccanismi di inculturazione e acculturazione.
Pertanto, di contro ai retori e ai chierici organici o, per usare l’espressione di Umberto Eco, integrati, ovvero paladini di una delle squadre in campo (normalmente della più forte), che agiscono per partito preso, gli intellettuali radicali regolano la propria attività di pensiero, opere e azioni rispondendo unicamente alla libertà del proprio giudizio e ad un’idea più ampia ed universale di giustizia ed uguaglianza cercando, come nel mito della caverna di Platone, di liberare gli altri prigionieri per condividere le loro scoperte, sebbene questo tentativo sia inutile, in quanto i prigionieri, non potendo e non volendo vedere oltre le rassicuranti ombre, finiscano per attaccare il portatore della verità. I termini chiave, quindi, risultano: libertà, giustizia, verità, uguaglianza, conoscenza, dignità, critica, virtù e sapienza.
Ora, che l’intellettuale libero fosse anche dissidente, era ed è praticamente scontato in società tiranniche o in Stati teocratici dove non esiste libertà di espressione, possibilità di democrazia, uno Stato di diritto, libertà di pensiero e manifestazione, diritto all’istruzione, repressione dei costumi, libertà di stampa, censura, restrizione dei diritti politici, civili, economici, mobilità sociale, etc. ma contro chi o cosa può dissentire l’intellettuale contemporaneo dato che, almeno in teoria e a livello Costituzionale, la nostra società sancisce e tutela il diritto unico e uguale per tutti, il diritto alla tutela e alla salvaguardia delle minoranze, l’uguaglianza di genere, la possibilità di fondare un partito e proporre un proprio programma politico, la contribuzione progressiva, il diritto (e fino ai 16 anni addirittura l’obbligo) all’istruzione mediante l’erogazione di borse di studio per i meno abbienti fino al livello accademico e post-accademico, la libertà di culto, pensiero, espressione, stampa, manifestazione, il diritto all’informazione, ad un lavoro ed una retribuzione dignitosi, la possibilità di accedere gratuitamente alla numerose biblioteche pubbliche, di poter cambiare canale (Tv o radiofonico), di andare al cinema, di organizzare manifestazioni politiche o culturali, di comunicare con chiunque in tempo reale, di viaggiare in quasi ogni angolo del pianeta, di navigare in internet non solo in modalità di fruitore passivo di contenuti altrui ma, mediante siti, blog, social di diventare un produttore attivo di contenuti, etc.?
La mia modesta, e forse confusa, sensazione è che la società sia cambiata più rapidamente della politica e del ruolo tradizionale che l’intellettuale rivestiva in un mondo ancora otto-novecentesco, dominato dalla stampa cartacea, dalla radio, dalla televisione e dal cinema, e che oggi l’intellettuale non abbia saputo adattarsi alle profonde trasformazioni che la digitalizzazione e la caduta del dualismo capitalismo-comunismo, destra vs. sinistra, ci hanno imposto. Parlare in un’aula accademica, scrivere un saggio, tenere un discorso in un seminario o in una piazza, firmare un film d’autore o un’opera teatrale, o fare un reportage documentaristico di denuncia, oggi sono strumenti che non bastano più, perché vengono subito saturati e superati dalla produzione costante di altri contenuti che impattano maggiormente e che sono più invasivi e pervasivi. Fare una ricerca, oggi, per i più significa avere una buona connessione e cercare in internet quanto scritto da qualcun altro, copiarlo e incollarlo, magari ascoltando qualche tutorial o qualche lezione postati su YouTube. La società contemporanea e postmoderna è fatta di velocità, memoria a breve termine, costante aggiornamento, appiattimento, uniformismo culturale e scarsa attitudine alla concentrazione ed all’approfondimento critico, tutti elementi, passatemi il termine, anti-intellettuali, laddove il lavoro dell’intellettuale è volto alla riflessione, all’abnegazione della ricerca e al mettere in discussione ogni paradigma culturale dominante, contestando la logica top-down. Oggi, specie in rete, l’utente percepisce la possibilità di implementare una logica bottom-up, che ne soddisfa molti bisogni primari, e, poiché costantemente saturato dalla continua generazione di contenuti nuovi costantemente in divenire, non ha il tempo e lo spazio di determinare i limiti del recinto paradigmatico, un vero e proprio framework algoritmico, che lo rendono, come nel mito di Platone, nuovamente prigioniero. In questo mondo, così decostruito e perennemente ricostruito, i cui frammenti si scompongono e ricompongono freneticamente, e in cui le aspirazioni sono schiacciate nel presente, nell’immediato, nel consumo e nell’acquisto (della novità tecnologica o di moda, del pacchetto vacanze, del titolo di studio, etc.), quale ruolo, quale luogo e sopratutto quali strumenti restano all’intellettuale?
Un intellettuale, oltre agli strumenti tradizionali, può aprire un sito, un canale YouTube, ambire ad essere ospitato in una trasmissione televisiva, ma in tutti i casi, a dominare sono i tempi di comunicazione e le soglie attentive ad essere profondamente cambiati. Un qualunque pensiero critico, come ricordava qualche tempo fa Noam Chomsky, richiede il tempo di potersi estrinsecare, sopratutto se, in quanto radicale ed eccentrico, deve andare contro il discorso sostenuto dalla versione ufficiale e mainstream. Servono almeno 30/40 minuti di predisposizione propedeutica perché un simile atteggiamento possa esplicarsi senza ridursi ad una banalizzazione dei contenuti tramite slogan, ma quale trasmissione televisiva può permettersi questo lusso? E perché dovrebbe farlo, soprattutto considerato che il fine odierno dei programmi non è formare o informare, quanto piuttosto quello di raccogliere ascolti per vendere spazi pubblicitari? E non è forse vero che questa dinamica sta prendendo sempre più piede anche in internet, dove i video cominciano ad essere inframmezzati da pubblicità?
Resta, incorporato a quanto appena detto, il problema del riconoscimento delle competenze, e, in modo sottile ma non meno importante, quello del carisma personale. Quali sono oggi gli strumenti che ci permettono di riconoscere, o perlomeno supporre, le competenze reali di una persona? Come si è evoluto il carisma?
Sicuramente, oggi si è innescato un cortocircuito in base al quale il carisma e le competenze (la capacità di fare qualcosa sapendo utilizzare gli strumenti e le strategie opportune) sono confusi, in via di implosione, col successo sociale che, sempre più, si sovrappone ed identifica col successo social. Essere realizzati tende sempre più spesso a coincidere con l’essere visibili, virali e di successo. Se fino alla prima decade del 2000, il principale mezzo di comunicazione era ancora costituito dalla televisione, dal 2012, secondo fonti del Bloomberg Business del 2014, è iniziato un trend che ha portato lo smartphone a superare in soli due anni il tempo che l’utente medio dedica alla Tv. Se nel 2012, infatti, l’utente medio dedicava quotidianamente 168 minuti alla Tv e 109 allo smartphone, nel 2014 i minuti dedicati allo smartphone sono passati a 177 al giorno, contro i 168 costanti della Tv, con una ulteriore, interessante distinzione: i minuti “televisivi” sono in larga parte passivi, si accende la Tv mentre si fa altro (incluso smanettare sul touchscreen del telefono), mentre i minuti passati davanti allo smartphone sono quasi tutti attivi. D’altra parte, oltre il 50% dei navigatori online non dedica più di 15 secondi alle pagine che visita, iperesasperando il concetto televisivo di zapping.
Se a questi dati, aggiungiamo l’allarmante risultato dei test Invalsi del 2019 che ci fotografano una società di studenti che, per il 30% di media nazionale, non è in grado, al 5° anno di scuola superiore, di comprendere un testo semplice in italiano, o quelli ancora più deprimenti dell’analfabetismo di ritorno che, congiuntamente all’analfabetismo funzionale, sfiora il 50%, abbiamo delineato davanti a noi un quadro rispetto al quale ogni intellettuale, oltre che disarmato, è sicuramente responsabile di non aver saputo fare al meglio il proprio lavoro, di non aver saputo prevedere e adeguarsi all’evoluzione dei tempi, degli strumenti e dei linguaggi, di non aver saputo creare un giusto ricambio generazionale e di non aver saputo comprendere gli esiti cui ora assiste impotente, sia che sopravviva in trincea, sia che viva chiuso nella sua torre d’avorio, o ricordi nostalgico l’età dell’oro mentre prende polvere in qualche dipartimento accademico.
Come si può parlare, infatti, di animare il dissenso in una società democratica dove il diritto al voto è garantito a tutti ma dove oltre un terzo del corpo elettorale non sente l’esigenza di esercitarlo? Come si può parlare di formazione in un Paese dove, secondo i dati Istat del 2016, sono circa 33 milioni le persone con più di 6 anni che dichiarano di non aver letto neanche un libro di carta in un anno, quindi il 57,6% della popolazione italiana?
Volutamente, finora, non ho parlato di intellettuali organici di destra e sinistra, anche perché oggi sarebbe quasi inutile fare questa distinzione, dato che questi concetti risultano alle nuove generazioni obsoleti. Tuttavia, tutti gli intellettuali, organici, integrati, apocalittici e dissenzienti, di destra, di sinistra, cattolici, atei, etc. sono partecipi di un declino di cui, a chi scrive, non è facile vedere la fine. In un simile contesto, di fatto, concetti cari alla tradizione come popolo, nazione, classe, sono stati pervertiti in pubblico, razza e tifoseria, più sfuggenti, acritici e assoggettabili alla narrazione per slogan da dare in pasto alla massa.
Questo è capitato e capita perché, per tendenza, il ruolo dell’intellettuale viene assorbito da quello dell’influencer e quest’ultimo è tanto più efficace tanti più sono i suoi followers che condividono e interagiscono con likes, emoticon, ritwit. Alla controversia, che richiede l’uso dell’argomentazione e il dominio della retorica e della controargomentazione, si sostituiscono l’insulto, il bannare (moderna scomunica), e la bullizzazione del diverso. Nihil sub sole novum, dirà qualcuno. Forse sì. Ma ad osservare i dati sulla sostenibilità ambientale della nostra società, sulla superficialità con cui si affrontano problemi come la desertificazione, l’inquinamento, la migrazione, e le guerre (per l’approvvigionamento energetico, le terre rare, il controllo dell’acqua, etc.), a riflettere per qualche istante sugli strumenti di distruzione in nostro possesso e sulla statura morale di coloro che siedono nelle stanze dei bottoni, rischiamo presto di dover ridurre l’adagio dell’Ecclesiaste nella forma sincopata “Niente sotto il sole” e, con buona pace di tutti, anche noi addetti ai lavori dovremmo imparare ad assumerci la responsabilità di aver perso la capacità di interessare gli altri e, risvegliandone le coscienze, contribuire al miglioramento delle cose del mondo, laddove non sempre migliorare il mondo significa cambiarlo.
Dialoghi Mediterranei, n.39, settembre 2019
_______________________________________________________________
Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.
_______________________________________________________________