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Heroic Imagination Project (HIP): educare all’eroismo attraverso la resilienza

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Palermo, L’esperienza di Giocherenda

di Cristina Siddiolo

«Quannu c’è suli e bunazza comu quercia fai fiurazza. / Ma si u tempu si fa scuru er è u ventu ca cumanna/ ti vo mettiri o sicuru./ Un cunsigghiu: fatti canna»[1].

Nell’epoca della velocità e della complessità, dell’interdipendenza e della globalizzazione, in discipline apparentemente slegate e in diverse parti del mondo, scienziati, intellettuali, politici, imprenditori, tecnologi e attivisti di tutto il mondo stanno cercando di comprendere le caratteristiche che permettono ad un sistema di adattarsi ai mutamenti mantenendo la propria integrità e il proprio fine originario. In un periodo storico caratterizzato da repentini e continui sconvolgimenti non sembra un caso il fatto che molte discipline si stiano interrogando su come le persone, le aziende, le comunità, la società e l’intero pianeta possano assorbire e integrare tali shock. Ci si interroga e si indaga la resilienza dei micro e dei macrosistemi, nonché la possibilità di educare singoli individui ed intere comunità ad una maggiore capacità di reggere gli urti della vita senza spezzarsi. Comprendere il significato del vocabolo “resilienza” non è semplice, in primo luogo perché la sua origine è tutt’altro che chiara, in secondo luogo perché è entrato a far parte del vocabolario della lingua parlata soltanto in tempi recenti e in terzo luogo perché è stato usato in campi diversi con significati non sempre sovrapponibili.

Etimologicamente resilienza potrebbe derivare dal latino salire, traducibile come “rimbalzare” o “saltare indietro”, oppure dal verbo latino insilire, che letteralmente significa “saltare su!”, “slanciarsi” o “risalire”. Secondo Andrea Laudadio e collaboratori (2017), il temine era già conosciuto e utilizzato nella letteratura medievale designando l’azione dei naufraghi di risalire sulle imbarcazioni rovesciate. Si ritiene che la prima applicazione del concetto appartenga all’ambito dell’ingegneria, riferendosi alla capacità di una struttura (ad esempio un ponte o un edificio) di resistere a un urto improvviso senza spezzarsi, e che successivamente, dal linguaggio ingegneristico, sia passato a quello psicologico indicando la capacità di un individuo di resistere a un evento traumatico senza danni o perdite, oppure di superare tale evento, riformandosi o rigenerandosi.

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Giocherenda ospite del Parlamento europeo

Negli ultimi decenni il termine resilienza è stato utilizzato in svariati ambiti con accezioni diverse tra loro. In biologia, ad esempio, è la capacità di un tessuto di ripararsi dopo avere subìto un danno. Nella gestione delle emergenze la rapidità con cui i sistemi critici possono essere ripristinati dopo un  terremoto o un’inondazione. Nel campo dell’ecologia la capacità di un ecosistema di sfuggire a un livello irreversibile di degrado. E ancora, in un sistema informativo, la capacità di adattamento di un sistema operativo alle condizioni d’uso, di resistenza e all’usura. In ambito sociale la capacità di controllare l’ambiente e perseguire con successo i propri progetti malgrado condizioni di stress presenti nel contesto. Nel mondo degli affari la capacità di predisporre sistemi di backup (di dati e risorse) al fine di proseguire nelle operazioni anche qualora accada un disastro (naturale o provocato dall’uomo). Nello sport la capacità di superare ostacoli e raggiungere traguardi mantenendo elasticità, vitalità, energia e buon umore. Infine, anche nel vasto ambito della geografia umana il termine è stato ultimamente utilizzato per designare, con specifico riferimento alla “resilienza urbana”, la capacità di un sistema urbano di costruire risposte sociali, economiche e ambientali nuove che le permettano di resistere nel lungo periodo alle sollecitazioni dell’ambiente e della storia.

Ciò che risulta particolarmente interessante è come il concetto di resilienza, da quando è presente sul piano della rappresentazione verbale (pur il fenomeno esistendo nel reale da sempre), abbia permesso di indagare ed esplorare nuovi modi di pensare nonché inedite modalità di organizzare le nostre istituzioni e le nostre risposte comportamentali. Il fatto stesso di nominare un fenomeno, seppur già esistente, ha contribuito a fare luce su una dimensione della vita poco esplorata la cui comprensione oggi si impone come priorità al fine di non rimanere travolti dai violenti e improvvisi tsunami del nostro tempo. A livello globale siamo chiamati a fronteggiare una crisi ambientale senza precedenti e a rispondere, si spera  con saggezza, alla sfida tecnologica, politica e sociale più impegnativa che l’umanità intera abbia mai conosciuto. Alla base di questa nuova comprensione vi è il concetto di interdipendenza. Nessuno vincerà da solo, lasciando indietro gli altri. Non oggi. Il modello maschile della lotta e la conseguente dicotomia vittoria-sconfitta non è più adatto a rispondere alle esigenze contemporanee. É necessario imparare a pensare in termini di umanità (intera) e di cooperazione transnazionale. Lo scioglimento dei ghiacciai in Groenlandia o la deforestazione in Amazzonia, ad esempio, sono problemi di tutti e non soltanto delle nazioni direttamente coinvolte ed interessate.

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Palermo, L’esperienza di Giocherenda

Il concetto di resilienza è maggiormente comprensibile se accostato a quello di resistenza. Nel linguaggio comune per resistente s’intende un sistema che non subisce cambiamenti rilevanti se esposto a un evento perturbativo, mentre resiliente, afferma Astori (2017), rinvia a un livello di complessità superiore: l’essere in grado di recuperare l’originaria integrità grazie ad un processo trasformativo. La resistenza implica uno sforzo, un’attività che si contrappone ad un’altra forza avversa e contraria; la resilienza, invece, implica un’accettazione totale e completa della forza perturbatrice che scuote il corpo nella sua dimensione fisica, mentale ed emotiva. La resilienza potrebbe anche essere intesa come una tecnica di resistenza e tuttavia come qualcosa di differente e di più. Si tratta di un diverso modo di approcciarsi all’esistenza, un differente modo di guardare e di rispondere agli stimoli provenienti dall’interno e dall’esterno. Elena Malaguti (2005) la definisce come la capacità o il processo di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante l’aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare a un esito negativo. Ma, osserva Boris Cyrulnik, è sorprendente constatare fino a che punto sia difficile definire la resilienza, poiché essa non opera secondo schemi lineari, ma in modo sistemico e dinamico.  Tant’è che in psicanalisi la nozione di resilienza differisce molto da quella di resistenza la quale è connessa al fenomeno della rimozione che a sua volta è definito un meccanismo di difesa. Al contrario, il soggetto resiliente accetta la realtà per quello che è e conserva il ricordo del proprio trauma il quale concorre alla costruzione della propria identità narrativa.

Partendo da tali presupposti e condividendo l’idea di Philip Zimbardo, ovvero che è possibile educare all’eroismo, si è deciso alcuni anni fa di portare il training ideato da quest’ultimo (Heroic Imagination Project) all’interno delle scuole siciliane per testarne i risultati. La storia del prof. Philip Zimbardo è legata a quella della Sicilia. I nonni furono degli emigrati e lui conobbe le sue origini siciliane soltanto poco più di una dozzina di anni fa. Fu la cosiddetta “psicologia del male” il fulcro della ricerca di Zimbardo per diversi decenni, così come egli stesso ha ricordato nell’ultimo convegno organizzato presso la Facoltà di giurisprudenza a Palermo il 31 maggio scorso. A partire dagli studi di S. Milgram, che cercò di comprendere le condizioni per le quali gli individui si conformano ad un’autorità ingiusta, e di Gustave Le Bon, in particolare attraverso la teoria della deindividuazione [2], Zimbardo sostenne che la trasformazione che avviene in un individuo e lo porta a commettere azioni violente e distruttive è il risultato di quello che egli chiama effetto Lucifero, il risultato della interazione tra fattori disposizionali (conformismo e scarso spirito critico), situazionali e sistemici (il sistema sociale influenza le due variabili precedenti e definisce le norme implicite o esplicite che prescrivono come agire, fornendo i ruoli cui gli individui devono attenersi supportandoli e legittimandoli).

Le sue ricerche partono da un quesito fondamentale: in che misura le forze situazionali e di sistema incidono sul comportamento lesivo nei confronti di sé e degli altri? Quali fattori spingono gli esseri umani a compiere azioni distruttive? Ancora adesso l’idea predominante in certi ambiti della cultura occidentale è che tali azioni siano l’esito della personalità di chi le compie, frutto di una innata predisposizione al bene o al male; ne consegue che l’individuo viene giudicato sganciandolo dal contesto di pertinenza dell’azione o che quest’ultimo viene chiamato in causa in maniera del tutto marginale. Chiaramente questa credenza è utile al sistema, che viene non soltanto alleggerito, ma completamente esonerato da qualsiasi responsabilità.

1Nel libro L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa, che racconta del famoso e tragico esperimento carcerario di Stanford, Zimbardo utilizza la metafora del cestino e delle mele marce per indurre i lettori alla sua stessa consapevolezza: ovvero, che la responsabilità non è soltanto dell’individuo che agisce il male (la mela), ma anche e soprattutto del sistema stesso (il cestino) il quale ha una responsabilità ancora più grande perché condiziona e induce gli individui, attraverso quelle che egli nel tempo chiamerà “forze situazionali”, ad agire nell’inconsapevolezza. La responsabilità di sistema non annulla quella individuale, ma costruisce un discorso più complesso sulla libertà dell’uomo e sulla sua vulnerabilità. La responsabilità, in sostanza, viene ridistribuita: oltre a quella oggettiva, c’è una responsabilità di chi ha costruito il sistema di potere. “L’effetto Lucifero” è dunque un richiamo all’impegno, alla responsabilità anche dentro l’istituzione.

2L’esperimento carcerario di Stanford inizia nell’agosto del 1971 e consisteva in una simulazione di vita carceraria condotta su 24 volontari che dovevano ricoprire i ruoli di prigionieri (12) e di guardie (12) per un periodo di due settimane. Il carcere venne allestito presso gli scantinati dell’Università di Stanford e Zimbardo fu assistito in tale opera e nella conduzione dell’esperimento da esperti del settore tra cui un ex detenuto. La selezione dei volontari avvenne con annunci sul giornale e l’offerta di 15 dollari al giorno. I volontari furono ulteriormente selezionati con la somministrazione di test psicoattitudinali per eliminare tutti coloro che potevano presentare problemi di personalità, comportamenti devianti e violenti. I ruoli di guardie e prigionieri vennero assegnati a sorte e Zimbardo impersonò il ruolo di direttore del carcere. Sebbene l’esperimento sarebbe dovuto durare due settimane, venne interrotto al sesto giorno per le gravi ripercussioni psichiche ed emotive che ebbe su tutti i partecipanti. E l’interruzione non avvenne per opera di P. Zimbardo ma di Christina Maslach, psicologa incaricata di intervistare i partecipanti all’esperimento durante il quinto giorno. Lei, che Zimbardo definisce la vera eroina dell’esperimento, non si era identificata con il ruolo ed era dunque riuscita a percepire quella realtà da un punto di vista differente. Il suo merito fu certamente quello di avere espressamente dissentito e disobbedito ad un’autorità ingiusta e di avere riportato Zimbardo ad una scomoda realtà: anche lui non era stato in grado di resistere ed era stato vittima della sua creazione.

Il caso della Stanford Prison destò sconcerto poiché mostrò il rapido rassegnarsi al ruolo di vittime e la trasformazione in persecutori di giovani sani, equilibrati ed intelligenti, consapevoli del gioco di ruolo e di potersene tirare fuori qualora avessero provato un eccessivo disagio. L’ingresso in un’istituzione totale come il carcere (seppur simulato) coincise con una metamorfosi dell’identità individuale imponendo una fortissima identificazione con il nuovo status di guardia o di detenuto. Le guardie rinforzarono tale identità grazie alla divisa, al manganello, al fischietto e alle manette (attraverso i simboli del potere). Viceversa, i detenuti rafforzarono la loro nuova identità di subalterni grazie alla divisa (una tunica lunga fino alle ginocchia che indossavano senza indumenti intimi), alla cuffietta che nascondeva i capelli e alla ‘perdita’ del nome il quale venne sostituito da un numero (tutti elementi distintivi della persona). In pochissimo tempo si attuò un processo di deindividuazione, di deumanizzazione [3] e di conformismo che trasformò l’iniziale durezza di atteggiamenti in condotta disumana.

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La costruzione dei giochi di Giocherenda

Si osservi come all’interno di un sistema in cui agiscono i fattori che innescano l’effetto Lucifero la differenza fra vittima e carnefice sfuma: tutti coloro che sono esposti alla sua influenza subiscono una qualche forma di condizionamento (Bocchiaro, 2009). Eppure non si tratta di un condizionamento deterministico, non è questa la trappola in cui si vuole cadere. Infatti, come osserva lo stesso Zimbardo, la ricerca sulla cosiddetta “psicologia del bene” inizia nel tentativo di individuare quei fattori che, invece, in una prospettiva diametralmente opposta, favoriscono l’empatia, la comprensione e il dialogo nel rispetto reciproco. Ed è proprio in questa seconda fase della sua vita professionale che nasce il progetto Heroic Imagination Project.

Heroic Imagination Project (HIP) è un’organizzazione no-profit che sviluppa da anni programmi per la scuola volti ad avviare un cambiamento positivo non solo nel percorso di vita degli studenti, ma anche all’interno delle loro comunità. I programmi HIP si propongono di fornire strumenti psicologici che permettano agli studenti di gestire in maniera efficace situazioni di vita definibili come “impegnative”. Più nello specifico, HIP aiuta a sviluppare le competenze necessarie per comprendere e affrontare al meglio fenomeni che caratterizzano fortemente la nostra epoca come il conformismo negativo, il pregiudizio, la discriminazione e l’inerzia dinanzi a situazioni di emergenza. Gli allievi vengono gradualmente a conoscenza dei processi psicologici e sociali che agiscono in simili situazioni, facendo proprie al tempo stesso le strategie atte a fronteggiarle. Quello che si propone è dunque un percorso di apprendimento finalizzato a preparare l’individuo ad agire con integrità e responsabilità ─ eroicamente ─ laddove dovesse presentarsi l’occasione. Seppure ciascun modulo possieda una finalità specifica, i programmi HIP si caratterizzano per un denominatore comune: promuovere tra i giovani un nuovo concetto di eroismo. Lontano dall’essere appannaggio esclusivo di figure straordinarie o limitato a gesti che richiedono prestanza fisica, l’eroismo viene qui inteso come un’azione che sorge dalla consapevolezza della propria ed altrui umanità ed integrità.

Gli assunti di base sono i seguenti:

  • le persone ordinarie sono in grado di realizzare azioni straordinarie;
  • l’eroismo inizia nell’immaginazione.
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Palermo, L’esperienza di Giocherenda

L’obiettivo è quello di stimolare nello studente l’immaginazione eroica, la consapevolezza cioè di avere in sé il potere di rendersi protagonista di azioni nobili ─ ignorarlo, infatti, rappresenta il principale ostacolo alla messa in atto di simili azioni. A emergere è col tempo un nuovo stile di vita, i cui effetti benefici non si esauriscono a livello personale: come gli ampi cerchi d’acqua generati da un sasso lanciato nello stagno, l’azione del singolo giunge a influenzare il più ampio sistema di cui questi fa parte, stimolandone inevitabilmente la crescita.

Il metodo educativo utilizzato è centrato sull’approccio maieutico [4] attraverso il quale si favorisce la libera espressione delle idee e dei sentimenti, in un dialogo di gruppo che incoraggia la conoscenza, l’ascolto e il rispetto reciproco. Il focus è incentrato sulle dinamiche delle situazioni sociali quotidiane, piuttosto che sulle personalità e sui tratti caratteriali degli individui, e su quella che può essere definita la propensione “all’osservazione e all’attesa”, piuttosto che stigmatizzare i pregiudizi e le reazioni automatiche in situazioni difficili.

HIP nasce negli Stati Uniti, in California, e si diffonde in pochi anni in diversi Paesi del mondo: Australia, Germania, Ungheria, Iran, Qatar, Inghilterra, Portogallo, Polonia, Cina. In Italia HIP arriva nel 2014, anno in cui il progetto per la prima volta approdò negli istituti comprensivi superiori di Corleone e Bisaquino. Zimbardo infatti decise di partire dalle città simbolo della mafia per educare i giovani siciliani alla resistenza e alla resilienza. Successivamente il progetto venne testato anche in diversi istituti di Palermo coinvolgendo centinaia di studenti e decine di insegnanti, destando grande interesse da parte degli uni e degli altri. Questi sono gli “eori in formazione”, poiché si presume che l’eroismo così inteso possa essere per l’appunto trasmesso e insegnato.

Oltre agli eroi in formazione nel progetto HIP sono contemplate altre due tipologie di figure: gli educatori e i formatori. Gli educatori ricevono una formazione di base che consente loro di insegnare i moduli agli heroes in training. Uno degli esperimenti più interessanti ed illuminanti di questa esperienza è stato certamente quello di coinvolgere attivamente i ragazzi di Giocherenda formandoli come educatori HIP. Giocherenda è un progetto nato tra i banchi di un programma educativo sperimentale per minori stranieri non accompagnati noto come “Polipolis” ideato da alcune intraprendenti e creative insegnanti presso il “CPIA Palermo 1”.

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Giocherenda si costituisce come un collettivo artistico di giovani rifugiati che inventa, costruisce e anima giochi che stimolano la fantasia, le narrazioni e la solidarietà. L’obiettivo è promuovere e difendere la “giocherenda”, termine pular formato dalle parole “giuntura” e “linfa vitale”. Come ben esplicita Clelia Bartoli, l’ideatrice e sostenitrice principale del progetto, la giocherenda è paragonabile al fluido che, scorrendo nelle articolazioni, le tiene insieme e ne permette il movimento, combinando dunque l’idea di “unire” con quella di “vivificare” [5]. La metafora più utilizzata dal gruppo per spiegare questo concetto è quella della mano: in quanto formazione complessa di più dita essa è in grado di realizzare molte più azioni di un semplice dito. Ciò significa che la consapevolezza dell’interdipendenza e la collaborazione sinergica per scopi comuni è fondamentale per realizzare la pace e l’uguaglianza. Non a caso i ragazzi sono arrivati a tradurre il termine “giocherenda” con le espressioni: “forza che scaturisce dall’unione”, “consapevolezza dell’interdipendenza” e “gusto della condivisione”.

L’obiettivo di Giocherenda è quello di promuovere la solidarietà attraverso la fruizione di giochi cooperativi e narrativi in cui si costruiscono storie comuni. L’assunto è che l’attività di story-telling crei comunità, aiuti a gestire eventi traumatici, fabbrichi un rifugio immateriale dove trovare ristoro anche in tempi di precarietà e di conflitto. Nessuno vince, nessuno perde: la logica duale della lotta, della contrapposizione dicotomica viene qui spezzata e risignificata. Tutti vinciamo insieme, questa è l’unica strada possibile. E questo messaggio portato dai giovani rifugiati ha una portata dirompente sui nostri pregiudizi. Unire i moduli HIP ai giochi di narrazione costruiti dai ragazzi e promossi dagli stessi ha prodotto effetti importanti nella costruzione di nuovi immaginari sui migranti e sulla pacifica convivenza nella valorizzazione delle differenze. Quello di Giocherenda è dunque un esperimento riuscito nonostante le difficoltà sopraggiunte negli ultimi anni a causa di una politica insensibile alle esigenze dei più vulnerabili. La promozione dello sviluppo umano dovrebbe essere lo scopo di ogni politica che aspiri alla costruzione della pace. Se dall’alto gli esempi che emergono non sono adeguati allora l’idea è quella di partire dal basso e di diffondere la giocherenda come un antidoto alla solitudine e all’angoscia che tanto caratterizzano il nostro tempo.

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Bandiougou Diawara, uno dei giovani rifugiati fondatori di Giocherenda, afferma: «Vogliamo portare gioia, fantasia e condivisione e trasmettere con la nostra esperienza che ci si può rialzare nonostante tutto, essendo liberi e uniti. Il mio sogno è creare un’azienda per dare lavoro ai giovani italiani disoccupati. Voglio fare qualcosa per il Paese che mi ha accolto»[6].

È stato emozionante sentire i ragazzi ringraziare personalmente Philip Zimbardo e chiamarlo maestro, così come è stato commovente sentire il prof. Zimbardo ringraziare loro per l’importante lavoro svolto. Creare ponti e connessioni è un gioco tutt’altro che facile, ma possibile. E soprattuto ne vale la pena. Philip Zimbardo nei suoi libri e nelle sue conferenze utilizza spesso il concetto di resistenza per designare il tipo di azione che la figura eroica deve mettere in atto per contrastare le forze di sistema. Nelle sue parole: «Nell’esperimento citato e nei nostri esempi tratti dal mondo reale ci sono sempre singoli individui che hanno resistito, che non hanno ceduto alla tentazione. A liberarli dal male non è stata una magica bontà intrinseca ma, più probabilmente, una comprensione sia pure intuitiva, delle tattiche mentali e sociali di resistenza». E ancora, proseguendo il discorso appena citato, in relazione al concetto di eroismo: «Quando la maggioranza si arrende e pochi resistono, i ribelli possono essere considerati eroi per aver resistito alle potenti forze che inducono all’adeguamento, al conformismo e all’obbedienza» [7] (Zimbardo 2008: XXX).

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Il progetto HIP promuove questo tipo di consapevolezza (come avviene ad esempio in tutti i casi di disobbedienza civile), promuovendo anche in maniera attiva il concetto di resilienza, che rinvia ad una totale accettazione della forza perturbatrice che scuote il corpo nella sua dimensione fisica, psichica ed emotiva e si avvale dell’elasticità mentale, dello spirito di adattamento e dell’ironia per fronteggiarla. C’è una linea di continuità fra i due concetti, e l’uno non esclude l’altro. Resistenza e resilienza sono rispettivamente i due concetti che a mio parere, nell’epoca della contemporaneità, rispecchiano i due approcci fondamentali all’esistenza: quello maschile e femminile (yang e yin, per utilizzare il simbolismo taoista). Nello specifico la resilienza, intesa come la capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi, implica un’accettazione totale del fatto di essere implicitamente influenzati da quelle forze di sistema di cui l’individuo cerca di liberarsi pur continuando, inevitabilmente, a farne parte. La liberazione dalle catene del conformismo sociale che implicano un ottundimento della coscienza non equivale ad una negazione delle stesse e del modo in cui, inevitabilmente, ci influenzano, ma una coscienza di fare parte di un sistema che può essere modificato soltanto nella consapevolezza di questa interdipendenza. E a partire da questa l’azione può essere declinata anche nella sua forma di resistenza.

La figura eroica, dunque, non è soltanto chi resiste alle forze di sistema, ma anche chi, pur cadendo ed essendone irretito, ha il coraggio di affrontare un processo trasformativo nella consapevolezza della propria vulnerabilità, senza rimozioni o negazionismi, con fiducia autentica nelle proprie capacità e nella vita. Il progetto HIP, in questa prospettiva, getta i suoi semi nella fiducia che qualcosa, in mezzo alle tempeste del nostro tempo, fiorirà.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note

[1] «Quando c’è il sole e fa bonaccia come una quercia fai bella figura, ma se il tempo si fa scuro ed è il vento che comanda ti vuoi mettere al riparo. Un consiglio: fatti canna» (Pietro Siddiolo).
[2] La deindividuazione  si verifica quando le persone sono percepite come numeri o categoria, misconoscendo la singolarità e la specificità di ciascuno. Il soggetto, in una condizione di anonimato, omologazione o invisibilità, tende a perdere la consapevolezza di sé e l’autonomia, si lascia eterodirigere e può dar libero sfogo a pulsioni socialmente condannate, crudeli o autolesioniste (Bartoli, 2012: 113 ed. orig.).
[3] La deumanizzazione è il processo cognitivo che conduce a percepire come non-persone i membri del gruppo considerato il “nemico” o “l’altro”. Essa è favorita dall’etichettamento, cioè da rappresentazioni stereotipate del gruppo stigmatizzato, diffuse da autorità, media e comune sentire (Bartoli, 2012: 112-113 ed. orig.).
[4] La maieutica non è l’arte di insegnare ma l’arte di aiutare, di guidare alla scoperta delle proprie consapevolezze. E contribuisce alla costruzione della fiducia e dell’autostima.
[5] https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2018/07/20/giocherenda-quando-lafrica-aiuta-leuropa/
[6] http://rolemodel.erasmusplus.it/bandiougoudiawara/
[7] P. Zimbardo, L’effetto Lucifero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008.
Riferimenti bibliografici
Aime, M. a cura di (2016), Contro il razzismo. Quattro ragionamenti, Einaudi, Torino.
Astori S. (2017), Resilienza. Andare oltre: trovare nuove rotte senza farsi spezzare dalle prove della vita, San Paolo, Milano.
Bartoli C. (2012), Razzisti per legge. L’Italia che discrimina, Laterza, Roma-Bari.
Bocchiaro P. (2009), Psicologia del male, Il Sole 24 ORE, Milano.
Cyrulnik B. E Malaguti E, a cura di (2005) Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi, Erickson, Trento.
Malaguti E. (2005), Educarsi alla resilienza. Come fronteggiare crisi e difficoltà e migliorarsi, Erickson, Trento.
Zimbardo P. (2008). L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? Raffaello Cortina, Milano.
Sitografia
Volere la luna: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2018/07/20/giocherenda-quando-lafrica-aiuta-leuropa/
Erasmus plus: http://rolemodel.erasmusplus.it/bandiougoudiawara/

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Cristina Siddiolo, laureata presso l’Università degli Studi di Palermo in antropologa, è formatrice, educatrice e insegnante certificata di yoga. Da dieci anni lavora con minori stranieri non accompagnati presso il Gruppo Appartamento “La Vela Grande” fondato dall’associazione Apriti Cuore onlus, diretto dal 2018 dall’Istituto Don Calabria.
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