L’antropologia culturale è una strana scienza. Una disciplina inquieta, ontologicamente fondata sulla tensione tra coinvolgimento e distacco scientifico, che non ha mai smesso di fare i conti col proprio passato e, molto più di altri saperi, sembra sempre ansiosa di allontanarne le ombre. A ragion veduta, va detto. «Che l’antropologia sia nata come ancella del colonialismo è cosa nota», scriveva Vittorio Lanternari nel 1974 riprendendo le critiche che denunciavano la compromissione degli scienziati sociali con le amministrazioni coloniali e gli apparati militari almeno fino alla guerra del Vietnam (cfr. Gough 1968; Asad 1973). L’imperialismo europeo, in effetti, è stato il terreno in cui il sapere antropologico è fiorito, l’ambiente in cui la disciplina ha costruito il proprio oggetto di studio specifico – la diversità culturale – e in cui ha consolidato il proprio statuto scientifico attraverso la pratica della ricerca sul campo:
«L’antropologia è stata interpretazione degli altri, ed interpretazione in condizioni storiche determinate. Le società primitive, tradizionali, ecc., sono state tutte società colonizzate, e spesso erano qualificate come primitive semplicemente perché erano soltanto adatte ad essere colonizzate» (Leclerc 1973).
Lo spazio militarizzato delle colonie è stato dunque il teatro nel quale la ricerca scientifica è riuscita a svilupparsi e ad affinare il proprio bagaglio concettuale. Lo stesso ideale di oggettività e neutralità che ha nutrito l’antropologia durante i primi passi si è potuto dispiegare, ed ergersi a principio extra-culturale, proprio grazie all’oggettività del predominio occidentale sul resto del mondo (Wolf, Jorgensen 1970). Si è presentato cioè possibile, e indiscutibile, perché un potentissimo dispositivo culturale e politico – il colonialismo come concreta applicazione del rapporto intrattenuto dagli europei con gli altri – ha contribuito a creare l’illusione che il campo fosse un laboratorio sociale in cui la cultura potesse emergere come entità concreta, osservabile e indagabile sperimentalmente (Clifford 1993; 2001). Come osservato da Lévi-Strauss:
«L’antropologia non è una scienza imparziale come l’astronomia, che prevede un’osservazione a distanza. È la conseguenza di un processo storico che ha reso la maggior parte dell’umanità sottomessa a un’altra parte e durante il quale milioni d’innocenti hanno visto le loro risorse depredate, le loro istituzioni e le loro fedi distrutte mentre loro stessi venivano uccisi senza pietà, ridotti in schiavitù, contaminati da malattie a cui non erano in grado di reagire. L’antropologia è figlia di quest’era di violenza: la sua capacità di valutare più oggettivamente le vicende che riguardano la condizione umana riflette, a livello epistemologico, uno stato di cose in cui una parte del genere umano trattava l’altra come un oggetto» (Lévi-Strauss 1966: 126).
L’osservazione dell’etnologo francese mette in luce l’inestricabile intreccio tra piano epistemologico e politico che sta al cuore dell’impresa antropologica e fa risaltare le radici tutte occidentali della stessa. Secondo Mondher Kilani (1993: 36), del resto, «il progetto antropologico è divenuto possibile solo a partire dal momento in cui la storia occidentale si è trovata impegnata di fronte a tutte le altre storie». Ragion per cui, continua l’antropologo tunisino, «non vi sono tante antropologie quante sono le culture» (Ivi: 37).
La particolare congiuntura storica che ha favorito la nascita dell’antropologia ha, altresì, determinato un’interessante convergenza: se il dominio militare occidentale offriva un ricco campionario di umanità da studiare sincronicamente, gli etnografi, da parte loro, andavano affinando una metodologia di ricerca che, vedendo le società come isole omeostatiche in perfetto equilibrio, strizzava l’occhio (più o meno volontariamente) agli interessi amministrativi. Molti etnografi, non a caso, diedero una base scientifica agli innovativi modelli di relazione che le amministrazioni europee d’oltremare sperimentavano con i nativi (Malighetti 2001: 23). Le politiche dell’indirect rule e del dual mandate – sovrapponibili al classico modo funzionalista di guardare alle società come fossero sistemi equilibrati di parti interrelate – erano per l’appunto basate sulla valorizzazione e la circoscrizione della cultura indigena e su un certo grado di autonomia concessa alle popolazioni soggette al controllo.
Certamente non è questa la sede opportuna per discutere il rapporto tra etnografi e governi coloniali e non seguirò oltre, dunque, l’evoluzione della riflessione disciplinare in merito. Ciò che mi preme mostrare (almeno per sommi capi), piuttosto, è il filo rosso che lega questioni epistemologiche, politiche ed etiche in antropologia e che spiega, almeno in certa misura, il mai sopito bisogno di scendere a patti col proprio passato e la conseguente inquietudine disciplinare. In un certo senso, credo si possa sostenere che il discorso antropologico abbia incessantemente cercato di affinare le proprie griglie conoscitive non solo per ragioni metodologiche di approssimazione alla realtà delle cose; ma anche per fare i conti con la propria storia (e, in particolare, con la propria genesi) al fine di predisporre nel modo, mi sia concessa la semplificazione, più democratico e rispettoso possibile l’incontro con l’altro. La crisi che ha colto l’antropologia col processo di decolonizzazione (cui, non dobbiamo dimenticarlo, nonostante tutto essa ha grandemente contribuito), allora, non è dipesa solo dalla possibilità che il proprio oggetto (il nativo) scomparisse. È stata, in primis, una crisi di coscienza: il culmine di quel «rimorso» di cui parlava Lévi-Strauss (1960: 333) nel momento in cui milioni di ex sudditi facevano, demartinianamente, «irruzione nella storia» (de Martino 1949) e, geertzianemente, toglievano via via agli antropologi il diritto acquisito di essere i padroni intellettuali della situazione mettendo in discussione «il diritto stesso di scrivere, di scrivere di etnografia» (Geertz, 1990: 142).
L’antropologia ha così avviato un lento e salutare processo di reinvenzione e problematizzazione del proprio sguardo. E gli antropologi hanno iniziato a cambiare paradigmi lavorando criticamente sulle categorie (per cercare di evitare ogni scivolata reificante da concetti quali cultura, etnia, comunità, identità che potesse alimentare retoriche razziste e differenzialiste); sulle rappresentazioni (per provare a restituire la dimensione dialogica dell’incontro di campo e l’emersione intersoggettiva del dato etnografico); sulla propria presenza lì (per non dipingersi come asessuate e asettiche voci fuori campo bensì come esseri umani in carne ed ossa tra esseri umani in carne ed ossa); sul proprio ruolo e sulla valenza politica del fare ricerca (per evidenziare l’inevitabile posizionamento di ogni etnografo e per dar voce a chi per troppo tempo è stato costretto ai margini).
Ciononostante, l’inquietudine è rimasta in agguato e questo movimento non ha traghettato l’antropologia in una sorta di età dell’oro in cui la disciplina, mondata dagli errori commessi nella sua fase aurorale, si è fatta gli anticorpi con robuste dosi di consapevolezza politica e sensibilità etica. Non soltanto perché, come ha scritto Roberto Malighetti (2001: 18), l’esercizio del disvelamento di un passato esecrabile (come fosse un blocco monolitico), a fronte di un irreprensibile presente (come fosse, anch’esso, un blocco monolitico), è sospetto e sostanzialmente disonesto. Nel passato, infatti, convivevano più posizioni e gli antropologi, lavorando oltremare, non sono stati solo grigi consulenti dei funzionari coloniali ma hanno altresì sostenuto attivamente le rivendicazioni indigene. Mentre ancora oggi, al contrario, assistiamo a usi odiosi dell’expertise antropologica (si veda, giusto a titolo d’esempio, il recente impiego di etnografi al seguito delle truppe americane in Afghanistan e Iraq). Ma anche perché, da tutt’altro versante, lo sviluppo di una cosiddetta “antropologia critica”, tutta votata a cogliere, legittimamente, il politico nel culturale e a smascherare le logiche di dominio e sopraffazione della nostra società in rapporto alle altre, rischia – come si dice in questi casi – di gettar via il bambino con l’acqua sporca. Essa, infatti, dimentica spesso di indagare il culturale nel politico minando alla radice la stessa legittimità del messaggio antropologico e comunque uniformandosi a filosofie politiche (e della storia) che ne depotenziano la portata. Fabio Dei l’ha rilevato più volte (2005; 2017): unendo in matrimonio il decostruzionismo più spinto a una rigida visione marxista delle dinamiche sociali, la critical anthropology è, nonostante la postura radicale, acriticamente realista perché concepisce la ricerca come smascheramento delle vere logiche di Potere nascoste sotto la coltre della cultura. Legittima cioè, in collaborazione con i post-colonial studies, un pensiero pre-antropologico che si concilia a fatica, nonostante i condivisibili propositi, con la densità dell’incontro etnografico e la fluidità dei terreni di ricerca. Così facendo, l’antropologia è, per il suo bene, esplicitamente trascinata sul terreno della militanza (come invitava a fare nel 1995 Nancy Scheper-Hughes) ed è spinta a liberarsi della “cultura” in nome della scandalosa e liberatoria rivelazione della reale natura del Potere (come teorizzava Lila Abu-Lughod nel celebre saggio Writing against Culture del 1991).
Ma l’analisi critica – sacrosanta – delle condizioni storiche in cui è nata l’antropologia (e delle inevitabili asimmetrie tra chi conosce e chi è conosciuto) può trasformare la sua genesi in una sorta di marchio d’infamia perenne [1]? In inveramento di un inesorabile segno di violenza epistemica al quale, come affermano certi critici radicali, sfuggire solo seguendo la via militante e abbandonando senza troppi rimpianti la compromessa categoria di “cultura”? Così facendo, però, non si rischia di svuotare di senso l’impresa antropologica cedendo a soluzioni preconfezionate e poco etnografiche?
Carla Pasquinelli, nel corso della sua carriera, ha affrontato molti dei temi sopra esposti producendo una sintesi originale e sempre aperta a diverse considerazioni e nuovi approcci. Oggi che la sua presenza è messa in crisi da un male subdolo che progressivamente la allontana dai familiari e dalla comunità scientifica, un gruppo di amici e colleghi, coordinati da Fabio Dei e Leonardo Paggi, ha redatto un volume – Cultura, potere, genere. La ricerca antropologica di Carla Pasquinelli (Ombre Corte, 2019) – che ne ripercorre il lavoro intellettuale e il contributo dato allo sviluppo del discorso antropologico in Italia. Rievocando gli anni della sua formazione politico-culturale a Firenze nei primi anni sessanta, gli studi di filosofia culminati a Parigi con una monografia su Jean-Paul Sartre e il successivo sconfinamento nel campo dell’antropologia, i saggi raccolti si confrontano con i punti chiave del pensiero di Pasquinelli. Ne emerge una figura di donna sempre pronta a battagliare per difendere le sue idee, a tratti spigolosa e tuttavia fragile e tendente a smussare gli angoli col passare del tempo. Una filosofa che, senza aver ancora affrontato il famigerato battesimo del campo, ha immediatamente approcciato da pari la comunità antropologica non rinunciando all’apporto della disciplina in cui si era formata. Un’antropologa che, pur non nascondendo le sue posizioni politiche, ha messo sempre al primo posto l’imperativo di cogliere il punto di vista nativo, nella convinzione che l’impegno non possa fondarsi legittimamente su alcun indiscutibile a-priori. In definitiva, una grande «organizzatrice di cultura», come la definisce più volte Pietro Clemente nel suo intenso saggio d’apertura pieno di aneddoti ed episodi relativi all’amicizia che lo lega alla studiosa toscana.
Pasquinelli esordisce in antropologia culturale nel 1974 recensendo uno dei capisaldi della letteratura demologica italiana, Cultura egemonica e culture subalterne di Alberto Mario Cirese (scritto che per l’occasione è ripubblicato, insieme a un articolo sull’amicizia tra Sartre e Paul Nizan uscito originariamente su “il Manifesto” del 4 settembre 1990, in appendice al volume qui discusso) e si avvicina presto all’opera di Ernesto de Martino. Il pensiero dell’antropologo napoletano sarà una fonte di confronto costante per lei: Pasquinelli ci tornerà più volte negli scritti destinati all’esegesi dell’opera demartiniana (1977; 1981; 1984) e nelle sue ricerche quando discuterà a fondo la categoria di cultura e il suo peso in antropologia (2010), il concetto di ordine come risposta al bisogno di presenza dell’uomo (2004) e le mutilazioni genitali femminili (2007). De Martino ci sarà – scrive Fabio Dei nel suo contributo al libro – anche quando Pasquinelli farà suoi, in modo assai personale, molti dei temi cari alla critical anthropology: dall’attacco agli occidentalismi predatori al rifiuto degli usi reificati del concetto di cultura che hanno sovente giustificato il dominio occidentale sul resto del mondo (Dei 2019: 37). Se, infatti – continua Dei – negli approcci critici post-coloniali Pasquinelli rintraccerà posizioni affini alla visione anti-umanista e anti-storicista dei suoi primi passi filosofici (pluralizzazione delle storie e delle soggettività di contro ad approcci etnocentrici del tipo the west and the rest), la frequentazione di un autore storicista e umanista come de Martino la porterà a non diluire mai la cultura nel politico e nell’economico (Ibidem). Pur sostenendo con forza la critica agli essenzialismi e pur vedendo nell’idea ipostatizzata di differenza culturale un dono infido lasciato dagli ex colonizzatori agli ex colonizzati, Pasquinelli, non a caso, non seguirà mai la critica post-coloniale sul terreno della dismissione del concetto di cultura a favore del mero disvelamento degli occulti rapporti di potere che alimentano ovunque le dinamiche sociali.
A tal proposito, Dei propone un interessante parallelismo tra gli studi di de Martino nel sud dell’Italia e le ricerche di Pasquinelli sulle pratiche d’infibulazione tra le immigrate di origine somala e nigeriana a Torino e Roma. Si tratta di un accostamento su cui intendo soffermarmi per almeno due motivi: mostrare i tratti salienti dell’antropologia di Pasquinelli; esaminare il modo originale in cui la studiosa ha seguito l’antropologia critica su alcuni problemi caldi del contemporaneo dibattito disciplinare: il ruolo politico dell’antropologo, la relazione tra militanza e ricerca scientifica, l’importanza di quella cosa chiamata “cultura” che, tra mille distinguo e virgolette, resta ancora elemento imprescindibile per la nostra disciplina. Qui, a mio avviso, si staglia nitido il contributo di Pasquinelli all’antropologia (non solo italiana): decostruire e smontare non per cancellare, bensì per proteggere la disciplina da strumentalizzazioni e usi indebiti (cfr. Chambers 2019: 71; Dei 2019: 38).
Facendo ricerca nei contesti rurali dell’Italia Meridionale, Ernesto de Martino aveva presto capito che sviluppo economico e azione pedagogica non avrebbero, da soli, prodotto l’automatica emancipazione delle «plebi rustiche del Mezzogiorno». Al contrario, soltanto una profonda comprensione della cultura e dei bisogni simbolico-pratici di quelle genti avrebbe facilitato il loro inserimento nel disegno politico nazionale post-bellico. Quello di de Martino, evidentemente, era un approccio che nulla concedeva a un vago relativismo e che semmai era già permeato da un’idea che lo studioso napoletano avrebbe sviluppato compiutamente (ma non definitivamente) alla fine della sua vita: l’etnocentrismo critico. Era un approccio, però, che gli valse critiche da destra e da sinistra: dai filosofi crociani che continuavano a relegare il folklore ai margini della Storia e dai marxisti che mal digerivano una riflessione sui diseredati condotta da una prospettiva decisamente sovrastrutturale. Scrive allora Dei:
«L’approccio politico che De Martino adotta nei confronti dei complessi mitico-rituali delle plebi rustiche del Mezzogiorno non è volto affatto a “decostruire” la cultura per definire la loro diversità in termini strettamente economico-politici; ma, al contrario, a integrare la politica con le categorie della cultura. Per questo, dal suo punto di vista, capire la magia, il lamento funebre o il tarantismo è cruciale per promuovere l’emancipazione delle masse contadine e il loro pieno inserimento, in senso gramsciano, nella “vita nazionale”» (Dei 2019: 37).
Carla Pasquinelli, da parte sua, applicherà un approccio analogo nel suo studio sulle mutilazioni genitali tra le immigrate somale e nigeriane in Italia. Mantenendo saldo il rifiuto di tali pratiche (segno inequivocabile dell’assoggettamento delle donne al potere maschile) e respingendo un fintamente tollerante relativismo per cui tutto va bene, la studiosa fiorentina affermerà con forza la necessità di comprendere le dinamiche culturali alla base della riproduzione, anche lontano dai Paesi d’origine, di simili usanze. In linea con de Martino, secondo Pasquinelli, le posture paternalistiche e pedagogiche poco servono perché mirano a estirpare senza capire e perché si basano su pregiudizi e condanne sdegnate che non hanno il coraggio di guardare da vicino, laicamente, il fenomeno. L’arretratezza culturale, il deficit educativo, l’autorità maschile, il fanatismo religioso (tutti ritornelli ciclicamente usati dai censori senza se e senza ma), assunti come chiavi auto-evidenti per inquadrare il problema non spiegano infatti perché anche chi usufruisce delle istituzioni scolastiche del Paese accogliente intende infibulare le figlie; non chiariscono perché siano le donne stesse le figure più convinte nel reiterare queste pratiche (l’etnografia, ad esempio, ha mostrato la complessa dialettica tra visibilità e invisibilità degli uomini in questa sfera); non dicono nulla, infine, sul perché sia stata proprio la vituperata predicazione religiosa (islamista nel caso specifico) a porre un argine al fenomeno in molti Paesi d’origine. Per non parlare, poi, del ruolo di muta vittima cucito addosso dalla retorica occidentale a ogni donna infibulata e dell’ennesima versione della dicotomia Noi Vs Loro che si gioca, questa volta, sul corpo: naturale quello delle nostre donne, culturalmente mutilato quello delle altre.
Pasquinelli affiancherà la sua produzione intellettuale a una netta presa di posizione nel dibattito pubblico quando, nel 2004, sosterrà la proposta del medico somalo Abdulcadir Omar Hussen e della psicologa Lucrezia Catania dell’Ospedale Careggi di Firenze d’istituire un rito alternativo di circoncisione. Presentata dai giornali dell’epoca – con non poca malafede – come «infibulazione soft», l’iniziativa intendeva promuovere un rituale sostitutivo che, attraverso una semplice puntura sul clitoride in anestesia locale (con conseguente fuoriuscita di una goccia di sangue), avrebbe mantenuto il valore simbolico della cerimonia (con soddisfazione delle famiglie tradizionaliste) e, contemporaneamente, avrebbe scoraggiato il ricorso a pratiche improvvisate e potenzialmente lesive per la salute delle bambine. Come de Martino, Pasquinelli subirà critiche da destra e da sinistra e finirà al centro di attacchi disordinati e violenti scagliati da conservatori e progressisti (curiosamente uniti contro lo spettro del relativismo), giornalisti e intellettuali e da associazioni di donne immigrate convinte, da parte loro, che la difesa del simbolo avrebbe coinciso tout court con la legittimazione della sottomissione femminile. Una materia spinosa su cui – anche alla luce delle dinamiche politiche e sociali più attuali – non si può non essere d’accordo con le posizioni illuminanti e lungimiranti di Carla Pasquinelli e, per l’approfondimento della quale, invito il lettore a leggere il testo di Gino Satta incluso nel volume qui discusso (Satta 2019: 99-117) e, ovviamente, il libro della stessa Pasquinelli edito da Meltemi nel 2007.
Qui, come già anticipato, sono altri i punti del lavoro di Pasquinelli che mi preme evidenziare. Innanzitutto, il modo in cui la studiosa toscana si occupa di “cultura”. Pasquinelli non demolisce la categoria per scovare il politico sotto il culturale – secondo la postura critica per la quale il corpo è politico o non è (o, nel linguaggio di Giorgio Agamben così meccanicamente accettato da molta antropologia radicale, è «nuda vita»). Pasquinelli, invece, non rinuncia alla “cultura” come chiave d’accesso ai significati locali, pur essendo consapevole che essa non si trovi là fuori pronta per essere scoperta dall’antropologo bensì si generi dalla relazione intersoggettiva prodotta nel e dal campo. Come rilevato da Leonardo Paggi nel suo contributo, Pasquinelli riprende da De Martino l’idea di rito «come prassi volta al ristabilimento dell’Esserci nel mondo» (Paggi 2019: 68). Nel caso specifico delle donne somale e nigeriane in Italia, la cultura è quel tessuto connettivo che fissa nel corpo un reticolo di significati (simbolici, estetici, filosofici, antropologici – si vedano, ad esempio, le differenti idee di “natura” raccontate dai corpi – e anche politici) e che garantisce la presenza nello spazio ambiguo e sfilacciato dell’immigrazione (Dei 2019: 41).
Il corpo, plasmato culturalmente da ogni società (nessuna, nemmeno la nostra, esclusa), diventa allora un segno identitario forte in uno spazio precario che, nel solco della migliore antropologia, non soltanto ci dice qualcosa degli altri ma ci rivela anche tanto di noi stessi. Non cogliere quest’aspetto, fermandosi a nette condanne etnocentriche travestite da strenua difesa di diritti umani universali, allontana dalla piena comprensione dei fenomeni e reitera pregiudizi e stereotipi di stampo neocoloniale che rafforzano distanze culturali e innalzano muri d’incomunicabilità. Come sosteneva Clifford Geertz in uno dei suoi memorabili contributi, «dobbiamo imparare a comprendere ciò che non possiamo accettare» (Geertz 2000: 559). Solo così la conoscenza può trasformarsi in prassi vicina ai soggetti più marginali, anteponendo «un’etica della responsabilità che si fa carico delle conseguenze causate dalla propria scelta» a un’idealistica (e sostanzialmente immobile) «etica delle intenzioni dove lo scopo rappresenta un valore incondizionato che prescinde dalle possibilità dei mezzi a disposizione per conseguirlo» (Pasquinelli 2007: 63).
In secondo luogo, la riflessione di Pasquinelli rivela quanto sia problematica l’idea di militanza in antropologia. Il suo studio mostra l’inconsistenza dell’idea di comunità compatte e omogenee e illumina, altresì, la complessa stratificazione di voci che segna ogni terreno etnografico. Non a caso, come ricordato in precedenza, i rimproveri a Pasquinelli in occasione dell’indagine sulla circoncisione non sono arrivati solo da politici, giornalisti e intellettuali di diversa estrazione. Sono partiti anche da rappresentanti delle comunità immigrate in Italia, cioè da figure che, come l’antropologa, intendevano dar voce alle donne soggette a infibulazione. Nel campo, dunque, s’intersecano più livelli e in questo turbinìo di piani finisce per inserirsi anche il ricercatore. Ogni preteso impegno militante, allora, dovrà necessariamente rispondere a una domanda: a favore di chi intendo parlare? Nancy Scheper-Hughes, una delle studiose più rappresentative dell’approccio critico, risponderebbe convinta: “a favore degli oppressi!”. Ma l’eventualità di reificare una categoria – gli “oppressi” per l’appunto – presentandola come un insieme omogeneo di gente che parla ovunque all’unisono è molto alto e un uso disinvolto di concetti come “comunità”, “oppressione”, “potere” cozza con la vocazione antropologica di verificare i suoi concetti nei micro-contesti. Che cosa fare, infatti, se nella comunità studiata esistono più fazioni, rappresentate magari da più attivisti?
L’etnografia di Pasquinelli attesta che sul terreno le soggettività in gioco sono tante, che i gruppi non sono mai nettamente delimitati, che gli interessi in ballo sono i più disparati: l’etnografo dovrà cercare di rendere questa complessità o schierarsi con un gruppo in particolare? E quale? Che cosa dire poi del medium della scrittura? Quando si vuol prendere la parola per qualcuno, infatti, si corre sempre il rischio di silenziarlo o comunque, come ha mostrato de Certeau (2005: 30), di farlo parlare altrimenti. Si tratta di un rischio che vale per gli attivisti e, ancor di più, per gli antropologi e che Pasquinelli ha acutamente notato segnalando il rapporto poco organico tra le donne di bassa estrazione sociale da lei intervistate e le militanti femministe somale contrarie alla proposta di Abdulcadir (Pasquinelli 2007: 25-30) unitamente alla necessità che la voce dell’antropologo (nel caso specifico intenzionato a capire, non certo a giustificare) non si appiattisca sul punto di vista nativo (Pasquinelli 2007: 105-146). Infine, su che base epistemologica potrebbe legittimamente fondarsi una militanza antropologica? Scheper-Hughes, ad esempio, radica il suo approccio alla disciplina a un principio etico che lei stessa definisce pre-culturale e a-storico: il legame che ogni essere umano ha verso i suoi simili e che richiama quello atavico e originario che unisce la madre al suo bambino (Scheper-Hughes 1995: 419). Un modus operandi, in sostanza pre-antropologico e lontano da quello adottato da Pasquinelli, che agendo oltre il culturale, di fatto, rischia inesorabilmente di svuotare di senso l’intera impresa antropologica.
In terzo luogo, desidero rilevare il grande servizio reso da Pasquinelli all’antropologia. La ricerca permette di cogliere la densità dei significati culturali e lo studioso che non ha paura di mettere veramente in discussione le sue precomprensioni, senza comunque rinunciare alle sue posizioni, riesce a raggiungere una profondità di analisi che può essere davvero decisiva per azioni di carattere politico (nel senso più alto e nobile del termine). Il lavoro di Carla Pasquinelli, allora, veicola una matura «antropologia non egemonica» (cfr. Saillant, Kilani, Bideau 2012) impegnata nel cambiamento e schierata contro derive identitarie e neo-razziste che, allo stesso tempo, non vuole essere ventriloquio di narrazioni indifferenti alla complessità del campo.
La traiettoria intellettuale di Carla Pasquinelli ha attraversato, tra gli altri, i temi che qui ho richiamato e che i saggi contenuti in Cultura, potere, genere trattano in modo lucido alternando con affetto e partecipazione memorie biografiche ad analisi scientifiche. Discutendo la ricerca eclettica di Pasquinelli (la sua evoluzione apparentemente disordinata, le faticose sintesi, i vicoli ciechi, gli illuminanti approdi), il volume restituisce così tutto l’amore per la conoscenza e tutta la fiducia nelle potenzialità e nella funzione dell’antropologia della studiosa toscana. Non trovo allora miglior chiusura delle parole di Enrico Sarnelli riprese da Leonardo Paggi all’inizio del suo saggio (2019: 52): Carla Pasquinelli ha avuto il merito di «portare l’antropologia fuori dagli ambiti strettamente accademici, senza trasformare l’antropologo in un opinionista, e senza confondere il progetto conoscitivo dell’antropologia con le ragioni di una militanza».
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] Avendo lavorato sui contemporanei usi bellici dell’antropologia, non posso fare a meno di notare a margine una curiosa (e involontaria) convergenza, pur nella radicale diversità, tra l’antropologia militare e certa antropologia militante. Per la prima, il passato coloniale è un modello cui guardare per ridare prestigio alla disciplina (la cui vocazione, dicono i suoi teorici, è lavorare al fianco degli eserciti in zone di guerra – McFate 2005); per la seconda, invece, è un periodo oscuro che ha lasciato semi avvelenati da estirpare «parlando chiaro al Potere» (Scheper-Hughes 1995: 416). Per entrambe, tuttavia, la genesi coloniale dell’antropologia sembra proprio un destino ineluttabile che orienta, in positivo o in negativo, ogni sua applicazione contemporanea. Approdi diversi, dunque, ma premesse comuni. Come comune, nonostante il differente atteggiamento verso la “cultura”, è il realismo epistemologico che contraddistingue i due indirizzi: l’antropologia militare riprende un’ingenua metodologia old school volta alla conoscenza oggettiva della “cultura nemica” depurata da ogni elemento esterno (politico, economico, su scala globale, etc.); l’antropologia militante, invece, intende scovare la cruda realtà politico-economica che agenzie impersonali ed essenzialmente repressive (lo Stato, il Potere, etc.) nascondono sotto la cultura. Forse perché entrambi gli indirizzi partono da casa sapendo già come stanno le cose? Si tratta di considerazioni su cui non ho ancora avuto modo di riflettere a fondo (e che dunque confino in nota) ma che credo siano indicative di certe questioni aperte oggi in antropologia.
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.
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