Lo abbiamo già scritto. C’è qualcosa di patologico nella politica italiana se lo stato di salute del nostro Paese è continuamente stressato dalla febbre di permanenti campagne elettorali, spossato dall’ossessivo e paranoico accanimento nel dibattito pubblico sugli stessi temi e sugli stessi soggetti, logorato dai rovinosi effetti di una sorta di psicosi schizofrenica e isteria collettiva. A guardar bene nella anamnesi psichiatrica, la fobocrazia nella quale siamo precipitati produce uno stato nevrotico compulsivo, un sadismo che fa rabbrividere, un delirio di onnipotenza che si spinge a tenere in ostaggio persone, comunità, istituzioni. La politica pensata ed esercitata come comando, come scontro, come strategia militare. Il potere gestito come teatro dei più osceni impulsi istrionici e narcisistici. Il consenso assimilato ad una ola, ad un selfie, ad un like, ad un’ovazione che non esita a gettare nella mischia parlamentare e nel traffico dei voti i simboli della fede religiosa, impugnati come amuleti, come scalpi, come armi contundenti.
Come sia potuto accadere tutto questo è riflessione su cui dovremmo interrogarci. È questione politica ma anche e soprattutto culturale, di grande rilievo antropologico, capire come e perché l’Italia abbia progressivamente sbiadito e tradito la memoria della sua storia di Paese aperto, accogliente, ospitale, come e perché abbia tralignato dalle sue virtù tradizionali, curvando mitezza e tolleranza in odio sociale e spregiudicato cinismo, come e perché abbia sfilacciato, brano a brano, maglia dopo maglia, il fragile tessuto connettivo della convivenza civile che nella differenza ha coniugato e intrecciato, tra disfunzioni e contraddizioni, democrazia e solidarietà, lo spirito dell’identità nazionale e il rispetto per le minoranze.
Il policentrismo che ha attraversato e permeato il genius loci del nostro Paese è stato per secoli laboratorio di pluralismo e multiculturalismo, ospitando genti diverse per lingue, costumi e tradizioni. «E a questa etnicità plurima ha corrisposto una fedeltà e una partecipazione allo Stato Nazionale, che dovrebbero far modificare tante concezioni e convinzioni sulle identità etniche»: così scrivono Matilde Callari Galli e Gualtiero Harrison nel loro contributo su questo numero di Dialoghi Mediterranei. «Chiediamoci quale sia stata la nostra filosofia etnica che ha regolato – e che regola tuttora – i rapporti tra il nostro Stato nazionale e le nostre minoranze che hanno contribuito a fare questo Stato-nazione, lungo la storia di un popolo che, se vogliamo, è multiculturale e plurietnico da sempre». La lezione del passato, con le esperienze richiamate dai due studiosi volte a tutelare le minoranze storiche, è quanto mai preziosa nelle convulsioni dell’attuale «società delle minoranze», la cui complessità, per la presenza di più comunità etniche a seguito dell’espansione dei flussi migratori, è oggi interpretata e gestita nel segno della separatezza e della conflittualità.
Pur dividendosi per inclinazione secolare tra guelfi e ghibellini, tra fazioni, corporazioni e consorterie, gli italiani tuttavia sono sempre riusciti a ritrovare il senso dello stare insieme e a dare concreta attuazione a quella parola: solidarietà, oggi perseguita, irrisa, proscritta. «Un’utopia necessaria», la definì Stefano Rodotà, nulla a che fare con la compassione o la carità che sottintendono e sottolineano la minorità e la subalternità di chi si trova a esserne oggetto, ma piuttosto connessa allo spirito pubblico dei diritti e dei doveri, ai valori di dignità e di eguaglianza. «Princìpio costitutivo e irrinunciabile dello Stato sociale», «l’antidoto a un realismo rassegnato che non lascia speranze», nel vocabolario di Rodotà, la solidarietà nella dimensione cosmopolita finiva con l’incontrare e abbracciare «una parola terribilmente impegnativa: umanità». Parola oggi quanto mai al centro del dibattito pubblico, richiamata da quanti ne denunciano l’oltraggio e lo scempio, la sistematica e scientifica criminalizzazione di ogni pratica di aiuto, soccorso e salvataggio delle vite umane sacrificate in nome della cosiddetta sicurezza nazionale.
Dialoghi Mediterranei non poteva sottrarsi a questa riflessione e in questo numero, come nei precedenti, offre numerosi contributi che nel decostruire narrazioni e retoriche dominanti ragionano sulle torsioni ideologiche e politiche dei discorsi intorno ai concetti dell’umanitario inteso nella ambigua accezione moraleggiante. Fare slittare dal piano dei diritti umani incoercibili a quello dell’etica sentimentale il tema e la governance delle migrazioni descrive il processo di deterioramento della civiltà giuridica nel nostro Paese, ovvero la crisi della cultura tout court che della solidarietà e della responsabilità pubblica si libera «quasi con un sospiro di sollievo, come se fosse ormai un peso troppo grande da portare, confinandola così tra le illusioni perdute», per usare ancora le nitide parole con le quali Stefano Rodotà chiudeva il suo libro, Solidarietà (2014).
Il grande studioso del diritto e della politica, scomparso poco più di due anni fa, avrebbe forse fatto fatica a riconoscere questo nostro Paese e chissà cosa avrebbe scritto oggi che «il ruolo degli intellettuali viene assorbito da quello dell’influencer e quest’ultimo è tanto più efficace tanti più sono i suoi followers che condividono e interagiscono con likes, emoticon, ritwit» (Carlotti). In un tempo in cui alle argomentazioni si sostituiscono l’insulto e la bullizzazione del diverso, chissà quali parole indignate avrebbe pronunciato di fronte al fatto che «abbiamo disumanizzato talmente tanto la figura del migrante che l’unica strada che ci è rimasta è quella di disumanizzare a nostra volta noi stessi» (David). E quali aspre critiche avrebbe rivolto a quei decreti di polizia dissimulati in «un disfemismo capovolto che, dietro la parola piena e rassicurante di una legge dichiarata equa e giusta, sventola l’irrazionale sovvertimento dei valori umani, pretende di assordare orecchie abituate a tendersi fra i rumori sordi del mare, di accecare gli occhi che tra i flutti ne vedono altri sbarrati di terrore, di impedire l’istintivo gesto di tendere la mano a chi ha bisogno, di trarre in salvo chi invoca un aiuto che non può attendere oltre» (Dell’Orzo).
Certo, le leggi possono essere modificate, corrette, migliorate. Ma è destinata a restare a lungo nella vita individuale e nella coscienza collettiva l’eredità di quella postura xenofoba, in bilico tra egoismo sociale e disprezzo razziale, che sembra penetrata nel sentire e pensare comune della maggior parte degli italiani. È la stessa feroce indifferenza che, per esempio, ci ha impedito di concedere il permesso a Mimmo Lucano di poter riabbracciare il padre morente a Riace, ormai svuotata di migranti e riempita di fantasmi. La stessa opaca assuefazione con la quale reagiamo ai ripetuti naufragi nel Mediterraneo e allo stillicidio dei fatti di cronaca di intolleranza razzista e di squadrismo fascista. Quel rancore ora cupo ora aggressivo disseminato e depositato nell’imbarbarimento del linguaggio, nelle parole della quotidianità che non conoscono più argini e confini tra pubblico e privato, come nelle forme della comunicazione politica che, ai fini di provocare «un surriscaldamento percettivo capace di stimolare partecipazione, reazione, discussione, interesse», si articola sulla opposizione radicale noi/loro, strutturandosi tecnicamente sulla «dicotomia tra modello\antimodello, basata sulla figura dell’antitesi, in cui, a prescindere dai contenuti, uno dei due poli è contrassegnato sempre positivamente e l’altro all’opposto negativamente, in modo che il primo escluda per definizione il secondo» (Prato).
Se lo straniero è investito dalle fobie inventate o coltivate, se i migranti sono hostes piuttosto che hospes, nemici e capri espiatori piuttosto che persone, uomini e donne, degne di accoglienza e di ospitalità, allora rischiamo di rinnegare e cancellare la lezione degli antichi Latini, per i quali « il rispetto degli altri – pellegrini, naufraghi o stranieri – era considerato, non tanto un diritto, quanto un dovere, una stretta osservanza alla volontà degli dèi», così che «concedere asilo, riconoscere loro la parità dei diritti con i propri concittadini, costituiva pur sempre un privilegio» (Sorgi). Se avessimo davvero memoria del nostro passato riannoderemmo i fili spezzati di quel mondo di cui calpestiamo i valori mentre ipocritamente ci diciamo figli orgogliosi, scopriremmo – come ci aiuta a fare con rigore filologico e acribia analitica Roberta Morosini – che le origini della nostra stessa letteratura, da Dante a Boccaccio, hanno dialogato con quella araba, «dialogo favorito dal viaggio in mare di persone, merci e storie», tant’è che «come per Dante anche per Boccaccio Maometto non è l’altro religioso, ma il personaggio di una narrazione». Analogamente, a leggere certe pratiche artistiche ancora attive tra le sponde del Mediterraneo riaffiorano i segni di intense connessioni e interazioni, una feconda circolazione di tradizioni tra l’Italia e la Tunisia, per esempio, dal momento che «nell’arte i cerchi di appartenenza –- scrive Rosy Candiano nella sua emozionante escursione sulla danza – sfumano la forma perfetta dei contorni: come i cerchi nell’acqua al lancio di una pietra si fanno più indistinti, si allargano e dialogano tra loro, in figure di inclusione che vanno oltre i confini della individualità, della appartenenza o della geografia».
Di questa storia di contatti, scambi e commistioni tra i due Paesi rivieraschi – una lunga storia che stride drammaticamente con le cronache contemporanee dei muri, dei respingimenti e dei sovranismi – altre narrazioni come sempre si ritrovano su Dialoghi Mediterranei: in questo numero, per esempio, Ninni Ravazza racconta di trapanesi alla pesca delle spugne in Tunisia tra ‘800 e ‘900, ed Emanuele Venezia ci riferisce dei giovani delle università di Manouba e di Gabès che oggi, mentre coltivano la speranza di visitare il nostro Paese, studiano con entusiasmo l’amata lingua italiana.
Sulle pagine della rivista come nelle dinamiche della realtà di tutti i giorni immigrazione ed emigrazione si incrociano e si spiegano reciprocamente. Lo scrive Aldo Anedda che affida agli stranieri e ai figli degli emigrati italiani che tornano nei piccoli paesi d’origine la speranza di una loro rinascita, il progetto di «rivitalizzare il tessuto economico per il semplice fatto di risiedervi». Gli fa eco in qualche modo anche Pietro Clemente che nella sua generosa scommessa su come riabitare l’Italia e sconfiggere il cronico spopolamento racconta delle diverse e felici esperienze che durante l’estate animano piazze e strade dei comuni, dal nord al sud della penisola che ha attraversato: «Tornano gli emigrati, molti giovani nati altrove conoscono il paese per la prima volta, oppure per essi il paese di origine diventa paese di vacanza. Ma già da parecchi anni il desiderio di molti emigrati di non lasciare spegnere le tradizioni, o di cercare di richiamare al paese non solo il proprio popolo, ma anche gli altri, i turisti, i visitatori, ha fatto dell’estate la stagione dei festival, della cultura, del cinema, delle manifestazioni, del trekking, delle sagre gastronomiche».
Ad arricchire la lettura e la riflessione critica in questo fascicolo si discute su numerosi libri, la cui recensione è sempre occasione di ragionamenti sull’attualità. Tra gli altri, il volume che raccoglie gli scritti di colleghi e amici sull’antropologa Carla Pasquinelli è testimonianza esemplare della passione umana e civile di un’intellettuale sensibile e attenta alle questioni più spinose del nostro tempo, «impegnata nel cambiamento e schierata contro derive identitarie e neo-razziste» (Inglese), consapevole della complessità delle dinamiche culturali del mondo nuovo da abitare. Sulla figura di Andrea Camilleri Dialoghi Mediterranei offre ben tre contributi che ne scandagliano aspetti diversi: la sua eccezionale popolarità (Cangemi), la sua teatrale “sicilianità” (Mattei), la sua stupefacente scrittura (Sottile). Non mancano infine dentro questo numero, come nei precedenti, la bellezza e la forza comunicativa delle fotografie d’autore: il fascino di Lisbona e del Portogallo negli scatti di Nino Giaramidaro, la ricognizione etnografica della vendemmia documentata da Nino Privitera, lo sguardo curioso e puntuale di Eugenio Grosso sui transiti delle auto stracariche al porto di Palermo, la suggestiva ricerca sull’acqua nelle immagini di Michele Di Donato. Immagini queste ultime, così evocative e così fluttuanti, che rimandano ad altre immagini, ad altri contesti, ad altre storie che all’acqua alludono e dell’acqua, della sua densità simbolica, raccontano.
Oggetto di desiderio dell’anima assetata, l’acqua scorre nei giardini del Paradiso musulmano, offerta da bere agli eletti, finalmente appagati nell’immaginario “luogo del ritorno”. «Innā li’llāhi wa-innā ilayhi rāği‘ūna», «A Dio apparteniamo e a Lui facciamo ritorno». Così dice il Corano e così scrive ad introduzione della sua limpida esegesi dell’escatologia coranica Elena Biagi, acuta interprete della lingua araba, dei suoi suoni, dei suoi accenti, della sua poesia.
Ma l’acqua – si sa – è frontiera della vita e della morte, orizzonte di civiltà e di apocalisse, elemento che feconda e materia che distrugge. A questa stessa immagine metaforica si legano i versi accorati del poema di Sebastiano Burgaretta dedicati ad Alan Kurdi e a tutti i morti naufragati nei fondali del Mediterraneo, laddove «nun ci n’è cciùi riligioni/e mancu cciùi catini ppi la menti,/nun ci sû mura e mancu mpirimenti/né porti çiusi tampocu scali spenti./C’è sulu libirtà e sapienza,/chiddha ca manca all’òmmini i ssa stanza./ Ora perciò iu parru e-ddhugnu ‘uçi/ a-ttutti li Alani sipurtati/ ntra iaqua e terra ‘n tutti li latati». A salvare la memoria del popolo dei senza nome che continuano ad annegare nel mare della nostra indifferenza uniamo le nostre deboli voci a quella possente del poeta.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019