Storie vere, storie drammatiche, storie di orrori, dalle quali emerge il naufragio di una civiltà o forse dell’umanità intera. Storie che vengono dall’Africa sud-sahariana, in particolare dal Niger e che narrano fatti di persone in carne e ossa, che attraversano una sorta d’inferno dantesco. Storie raccolte in forma di diario, dal gennaio 2017 ad aprile 2019, in un volume dal titolo L’arca perduta nel Mediterraneo (editrice Mutus liber, 2019).
L’autore è Mauro Armanino, dottore di ricerca in antropologia culturale, collabora con i quotidiani L’avvenire e Il fatto quotidiano, sacerdote, dal 2011 è missionario nel Niger, frontiera dell’Italia e dell’Europa, come egli la definisce. E proprio, in quanto frontiera, il Niger, per la sua posizione strategica e geopolitica, ha avuto assegnato un ruolo strategico nella guerra contro i migranti e si è trasformato gradualmente in un’azienda, che si è vista appaltare la mobilità regionale. In questo senso Mauro Armanino ha un osservatorio privilegiato per denunciare le nefandezze e le violenze che vengono perpetrate verso i migranti, attraverso le storie che raccoglie.
La metafora è la figura retorica principale che attraversa la narrazione e le riflessioni dell’autore, a partire già dal titolo, che si rifà all’arca biblica di Noè ma, anziché salvare dal diluvio che investe l’umanità, è ridotta a un rottame per naufraghi. La costruzione dell’arca che salva non è prevista in nessun cantiere. Si preferiscono le grandi navi veloci e le crociere MSC. Poi c’è la metafora per eccellenza, la metafora di tutto, la sabbia del deserto del Sahel, a sud della Libia, che «si rifugia nelle borse, nelle scarpe e soprattutto negli occhi di coloro che poco sanno del grande Sud». Anche l’indipendenza del Niger è fatta di sabbia e di sabbia sono le storie di migranti che il vento porta lontano.
Da Caino e Abele che firmano sulla sabbia la prima frontiera conosciuta, da allora una linea sulla sabbia accompagna l’umana avventura. E vi sono anche i bambini di sabbia e quelli dei fiordi. Quest’ultimi vanno a scuola per almeno dodici anni e quelli di sabbia soltanto due anni. Per i rispettivi genitori, la differenza di reddito è di 68 volte inferiore per quelli di sabbia. D’altronde, gli antichi avevano capito tutto. Non c’è nulla di più naturale che contare il tempo con la sabbia che scorre nella clessidra. Anche le parole sono di sabbia, tradite nella loro essenza, svuotate di senso, rubate ai poveri. Non ci sarebbe questo mondo violento in cui viviamo senza il possesso delle parole da parte di coloro che le manipolano e le confiscano ai poveri.
«Noi portiamo la sabbia fin dove arriva l’orizzonte del mare…Siamo fatti di sabbia e della nostra identità solo rimarranno alcuni volti che il vento porta lontano. L’ultimo regime al potere è tutto costruito sulla sabbia. Scriviamo storie di sabbia che durano un’eternità e che leggeranno i nostri figli quando passeranno per tornare nelle case nel frattempo sparite. Persino nei cimiteri che avete costruito sulla pietra i vostri fiori sono di sabbia. Costruiamo città di sabbia senza fondamenta e piano regolatore. Città mobili come le dune che si spostano di notte con la luna piena. Chiese, moschee e giardini pubblici hanno in dotazione sedili di sabbia numerati. I pochi viaggi di nozze sono del tutto gratuiti con carrozze di sabbia tirate da dromedari affittati per l’occasione. Persino le stelle che guidano il cammino di giorno domandano alla sabbia la direzione da prendere».
E, invece, ci sono loro, i migranti, le non-persone, nomi, volti, storie e follie, documenti sepolti per non tornare indietro, le bandiere degli eserciti e delle multinazionali, le elezioni truccate e confermate dagli osservatori internazionali e i rifugiati riportati indietro dalle prigioni della Libia. Non mancano gli schiavi africani, cioè le migliaia di persone imprigionate e vendute e comprate come oggetti o cose da altri esseri umani. Sono tante le storie dei migranti e i loro calvari diversi ma ugualmente disumani. Migranti su cui si fanno affari a non finire, sfruttati nei lavori di raccolta nelle campagne o nel fare le pulizie nei ristoranti e poi non pagati e denunciati come clandestini. Migranti derubati di ogni cosa nei diversi attraversamenti prima di giungere in Libia.
Armanino non tralascia di ricordare che la mobilità c’è sempre stata e che la vita è movimento, rinfrescando la memoria degli italiani che, nel 1851, anno in cui Verdi nel suo Rigoletto mette la nota romanza “la donna è mobile”, un censimento in Francia annoverava gli italiani tra il gruppo di migranti più numerosi e il fenomeno crescerà in maniera manifesta dopo l’unità d’Italia. Milioni di europei poveri hanno cercato un futuro diverso altrove. La politica dell’Occidente, invece, è immobile, dimentica l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo del 1948, che riconosce la possibilità di migrare, mentre soldi, armi, mercanzie, culture, divinità, compagnie di ventura, enti umanitari, paradisi fiscali, giocatori di calcio circolano liberamente. Il delitto di mobilità va punito. «L’impero al crepuscolo non sopporta l’arrivo dei barbari che ne assediano i confini». Delitti sono pure rivendicare la parola e la dignità, reclamare il diritto alla sicurezza alimentare, pretendere l’educazione per tutti e una vita dignitosa.
La Banca Mondiale, complice dell’impoverimento globale, nel suo ultimo rapporto sulla povertà, rileva che sui 27 Paesi più poveri al mondo 26 si trovano in Africa. L’Africa sub-sahariana, in particolare, concentra nel suo suolo più della metà delle persone che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, cioè circa 413 milioni di persone su un totale di 736 milioni di poveri nel mondo.
L’autore, col coraggio e la coerenza che lo caratterizzano, non le manda a dire ma individua colpevoli e responsabili. Considera le frontiere «l’invenzione più spudorata della civiltà occidentale». Una sferzata è rivolta all’America di Trump e a Israele «della terra promessa per qualcuno e disperazione per altri» assimilati a criminali. Una critica altrettanto feroce è riservata a Macron, «portavoce autorizzato della divina separazione tra rifugiati degni di rimanere nel paese dei diritti» e gli altri, i migranti economici, «indegni di essere trattati da persone». Il giudizio di Mauro è implacabile anche sulle organizzazioni umanitarie. Una critica pungente viene riservata anche all’OIM (Organizzazione delle Migrazioni Internazionali) che, tramite gruppi di giovani, chiamati “mobilizzatori di comunità”, fanno campagna di convincimento presso i migranti per tornarsene nei Paesi di origine. Insomma, le migrazioni sono un carrozzone di affari, di contratti, di progetti, di dolore come spettacolo. È il dominio del denaro, del potere, del capitale, del modello di mal-sviluppo, dello sfruttamento, della schiavitù, di un sistema di spossessamento globale, dove i migranti sono considerati pacchi postali.
Mauro Armanino, parafrasando Il Manifesto di Marx ed Engels, afferma che «lo spettro che si aggira per l’Europa» viene rappresentato oggi dagli odierni migranti. L’altra Rivoluzione d’Ottobre arriva dal Sahel, fatta da donne, bambini, giovani e incoscienti rivoluzionari del momento che, senza premeditazione, attraversano le barriere dell’ordine costituito dai potenti. Evidenziano le contraddizioni e le violenze dell’economia. Sono gli unici a fare la politica di un tempo, quella che trasforma i rapporti di potere delle classi sociali. E aggiunge che i migranti sono i profeti del nostro tempo, sono un grido di condanna contro questo mondo, contro le frontiere e contro l’esclusione sociale e per questo sono venduti, imprigionati e uccisi. I migranti sono i sovversivi senza dimora. «Non riuscirete a fermarli, immobilizzarli, comprarli o metterli al macero». «Quando meno lo aspettate, torneranno tutti gli assetati del deserto, i perduti nella polvere e i sepolti nel mare». Avete colonizzato il mondo e lo avete disordinato e chiunque vuole mettere in discussione questo disordine che avete creato è tacciato come ribelle, sovversivo e siete riusciti a fare dei migranti dei criminali che infrangono i vostri divieti. Costruite armi, guerre, muri per tenere lontani coloro che non si riconoscono nel vostro mondo. La ricchezza per pochi è un furto mondiale da eliminare. La riduzione della ricchezza è l’unica opzione umanitaria da perseguire.
I sogni di liberazione inventano «nuovi cammini per ingannare il mondo che credete di governare», hanno fatto un lungo viaggio nel deserto e ancora raccontano quello che accadrà presto. Per Armanino, soltanto dal punto di vista dei poveri si può scoprire la verità delle cose e della storia.
Il vecchio Lawali, un nigerino non pentito – racconta Armanino – non aveva dubbi, il mio straniero è il mio Dio. La tradizione del suo popolo l’affermava come un’evidenza. Ma oggi l’unico Dio riconosciuto è il denaro. Non a caso sui dollari di colore verde c’è scritto God we trust.
Riprendendo la lettera ai cappellani militari di don Lorenzo Milani, l’autore ribadisce che l’obbedienza non è più una virtù da tempo e nel Sahel lo mettiamo in pratica. I primi a disobbedire sono i migranti, non a caso etichettati come irregolari e disobbedienti. «La disobbedienza qui da noi è scritta sulla sabbia».
La rabbia profetica di Armanino si rivolge contro i mercenari, non solo militari, ma soprattutto intellettuali, tristemente scomparsi dall’orizzonte utopico e sono più pericolosi perché sono come i camaleonti che prendono il colore del potente di turno. Egli evidenzia come l’Italia spenda 24 miliardi di euro per la difesa e l’esponenziale produzione bellica per la vendita di armi ai tanti paesi in guerra, nonostante l’art. 11 della Costituzione. Non poteva mancare in questo diario di indignazioni e invettive un accenno ai rapimenti e in particolare al suo amico missionario Pierluigi Maccalli, da tempo ostaggio dei rapitori.
Un libro ricco di notizie che difficilmente potrete trovare sulla stampa ufficiale. Scritto con linguaggio spesso poetico e perciò simbolico e imaginifico, come nella pagina relativa a una domenica mattina in cui i bambini videro cadere i muri:
«I muri cadevano uno dopo l’altro mentre avanzavano dandosi la mano. Alla loro vista anche i muri più armati erano costretti a fuggire per trasformarsi in una piazza aperta davanti al mare. Al molo i figli dei nuovi arrivati offrivano pezzi di pane secco ai pesci».
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014); Siamo tutti politici (2018).
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