di Nicola Martellozzo
È difficile decidere quale sia la più bella città d’Italia. Venezia, Firenze, Roma, sono solo alcune delle città che possono a buon diritto disputarsi il titolo. Pure su un piano più “locale” le cose non sono affatto semplici: la competizione per il borgo più bello d’Italia, promosso dall’ANCI, ha visto concorrere centinaia di piccoli centri urbani della Penisola. Decidere quale sia il paese più sfortunato d’Italia è, al contrario, molto più semplice: Colobraro, in provincia di Matera, detiene questo titolo per tradizione, ma soprattutto lo difende con passione. Può sembrare strano che un paese faccia vanto di una simile nomea, eppure Colobraro ha iniziato dal 2010 un processo di valorizzazione del proprio patrimonio culturale, mettendo al centro della propria auto-rappresentazione proprio la sfortuna. Ogni “fama”, buona o cattiva che sia, implica un “far parlare di sé”, e per gran parte del Novecento Colobraro è stato conosciuto nel territorio materano come paese di iettatori, da nominarsi attraverso perifrasi come “quel paese” (chille paìsi nel dialetto di Valsinni).
Tuttavia, negli ultimi dieci anni la comunità di Colobraro ha cambiato radicalmente il suo rapporto con questa fama negativa, reclamandola attivamente come tratto centrale della propria identità, e al tempo stesso rielaborando creativamente la propria memoria pubblica. In questo ripensamento del patrimonio immateriale entra in gioco anche il sapere antropologico, a partire dal contributo “fondativo” di Ernesto de Martino. L’etnografo napoletano, insieme alla sua equipe di ricerca, visiterà Colobraro durante la sua spedizione in Lucania; un soggiorno breve, che tuttavia farà conoscere il piccolo comune a migliaia di italiani attraverso le pagine di Sud e Magia e le foto di Franco Pinna. A mezzo secolo di distanza da quella spedizione il sapere antropologico viene nuovamente coinvolto nella rappresentazione di Colobraro, ma stavolta è la comunità stessa a porsi come protagonista. Antropologia e fonti tradizionali vengono impiegate nella nuova narrazione per “certificare la sfortuna”, un’ufficializzazione consapevole basata sul riconoscimento della malasorte come autentica finzione culturale. In altre parole, una visione umoristica: gli abitanti di Colobraro giocano con la loro sfortuna, coinvolgendo anche turisti e visitatori in una performance teatrale che è al cuore del progetto comunitario di valorizzazione del paese.
Visite a quel paese
Il nome “Colobraro” deriva probabilmente dal latino colubrarium, inteso come il luogo “che contiene o produce serpi, colubri” (SSP 1876: 485-86). Qualcuno dei suoi abitanti deve aver mantenuto una certa affinità con quei serpenti se de Martino, nei suoi appunti della spedizione del 1952, afferma di aver incontrato a Colobraro diversi “incantatori di rettili” (Gallini 1986: 114). Per la verità, l’etnografo soggiornò brevemente nel paese, facendo tappa il 13 e il 14 ottobre nel suo itinerario attraverso la Basilicata. Nonostante i ricercatori fossero stati informati – meglio dire “messi in guardia” – della cattiva fama di Colobraro, ignorarono i suggerimenti e si recarono comunque in paese, nella speranza di poter registrare alcuni lamenti funebri, principale oggetto d’indagine della spedizione (de Martino 2002: 95). Nel suo reportage del 1953, de Martino ricorda il guasto alla macchina occorso appena arrivati (Imbriani 2016: 203), una sventura piuttosto leggera rispetto a quella causata indirettamente dall’equipe.
Per la registrazione del lamento funebre venne assunto un suonatore di zampogna, che poco prima del loro arrivo in paese morì, cadendo da un camion. Lo zampognaro aveva bevuto per celebrare la sua nuova assunzione, e quella che nelle intenzioni dei ricercatori doveva essere una semplice performance fittizia divenne un vero funerale (de Martino 1996: 119). Alla fine, lo stesso de Martino ebbe la sensazione di essere il vero iettatore della situazione (de Martino 2002: 69), specie dopo che la moglie dello zampognaro dimostrò la creatività del rituale accennando alla presenza dell’etnografo nel suo lamento. Fallita la registrazione sonora, restava pur sempre il materiale fotografico ad integrare le note di campo (Gallini & Faeta 1999). Una di queste foto avrà un ruolo decisivo per diffondere la nomea di Colobraro in tutta l’Italia, legando la sua sfortuna a questioni di “affatturamento”. Nonostante la sua importanza, questo riferimento alla spedizione di de Martino rimane pur sempre un arricchimento della leggenda preesistente, che ha il suo “mito fondativo” in un episodio degli anni Quaranta.
Si racconta che il podestà fascista dell’epoca, l’avvocato Biagio Virgilio, abbia causato la caduta di un lampadario (o un grande candelabro) durante una riunione di sindaci a Matera, attirando la malasorte sui presenti che non credevano alle sue parole. A seconda delle versioni il candelabro uccide le persone o le ferisce lievemente, cadendo immediatamente dopo l’affermazione dell’avvocato Virgilio o con alcuni giorni di ritardo. Domenico Notarangelo, fotografo, scrittore e profondo conoscitore del lavoro di Levi, de Martino e Pasolini sul Meridione, ebbe modo di incontrare lo sfortunato ex-podestà negli anni Cinquanta. Per lui, l’intero episodio è una calunnia di notabili e funzionari pubblici, che diffusero poi la voce in tutto il materano (Notarangelo 2012: 133). Per quanto suggestivo, non è bastato certamente questo singolo episodio a creare tutta la fama negativa intorno a Colobraro; piuttosto, deve aver catalizzato una serie di elementi preesistenti, legati alle pratiche tradizionali di fascinatura e scongiuri magici, altro importante oggetto d’indagine della spedizione del 1952 (de Martino 1982: 10-11; 2002: 107).
Gli appunti preparatori e le note di de Martino (1996; Gallini 1986) mostrano l’attenta pianificazione di questa survey in Meridione, condotta per la prima volta in Italia con una equipe interdisciplinare. Ne fa parte anche il fotografo Franco Pinna, sostituendo il figlio di Cesare Zavattini che aveva in precedenza accompagnato de Martino nella sua prima ricerca a Tricarico. Oltre che come membro ufficiale delle spedizioni etnografiche di de Martino, Franco Pinna va ricordato anche come fotografo di fiducia del regista Federico Fellini, e tra gli artisti di spicco del neorealismo italiano. Già nel lavoro con de Martino emerge lo stile personale di Pinna, dalla scelta del soggetto alle inquadrature, finanche alle didascalie. Con tale premessa possiamo comprendere la genesi della famosa foto di Maddalena La Rocca – la masciara di Colobraro – divenuta l’icona visiva più conosciuta di quel Meridione italiano descritto da de Martino (1982; 1999).
Le ricerche di Eugenio Imbriani rivelano il retroscena di questa immagine, decostruendo il mito della fattucchiera lucana (Imbriani 2016; 2017). Consideriamo anzitutto la foto più famosa, in cui compare un’anziana donna in primo piano, immobile e solenne, con un’espressione contrita. Lo sfondo è uniforme, e i pochi elementi non naturali sono riconoscibili solo con molta attenzione.
«[…] sono esclusi le altre presenze umane e i segni della modernità, e di conseguenza essa risulta immersa in un’aura quasi palpabile di arcaicità, solitudine, isolamento. L’immobilità statuaria vuole evocare una rigidità intima, caratteriale della persona, certo, ma soprattutto l’assenza tutt’intorno di sviluppi diacronici: niente si muove, non l’aria, non un respiro, non il tempo. Pinna ha dato vita a un’idea, ha creato un’icona» (Imbriani 2016: 204).
Per ottenere questa foto sono stati fatti dei tagli rispetto alla stampa originale, visibili nell’archivio di Pinna [1]. Insieme a parte del paesaggio, il fotografo ha tagliato anche la figura di un bambino, sulla destra. Ogni taglio e inquadratura è motivato dalla personale visione dell’autore, dettata certamente da questioni estetiche, ma che indica anche una certa costruzione del soggetto rappresentato. Confrontiamo la prima foto con un altro scatto di Pinna. La donna è fotografata da un’angolazione più bassa, mentre commenta ed indica qualcosa in lontananza; sullo sfondo, risaltano chiaramente il palo e i cavi della corrente elettrica. Questa seconda fotografia mostra l’anziana signora in movimento, dotata di una vitalità e immersa in una temporalità assente nell’immagine precedente, un effetto ribadito dalla presenza nitida di elementi moderni. Tuttavia, è la prima foto ad essere scelta per raccontare quella realtà periferica e dimenticata del Meridione, applicando uno sguardo meno oggettivo, emotivamente (e politicamente) coinvolto, ma che costituisce al contempo anche lente deformante sui soggetti rappresentati.
Per cinquant’anni l’immagine di Maddalena La Rocca è stata usata in libri, reportage e mostre come icona culturale di un “mondo magico”, rafforzando la leggenda della fattucchiera di Colobraro. Un’identificazione del tutto sbagliata, dato che non solo la donna fotografata non è una masciara, ma non si chiama nemmeno Maddalena La Rocca. Una discendente della donna l’ha identificata correttamente come Maria Francesca Fiorenza (1872-1954), contadina e filatrice di Colobraro senza particolari legami con le pratiche magiche tradizionali (Imbriani 2016: 203-204). La fattucchiera tratteggiata anonimamente da de Martino assume nello scatto di Pinna un volto e un’identità precisa, a discapito della storia personale della donna davanti l’obiettivo fotografico. La spersonalizzazione di Maria Fiorenza è il prezzo della sua elezione a icona culturale riconosciuta, che persiste nonostante la decostruzione ufficiale di Imbriani.
Il caso della fattucchiera di Colobraro è particolarmente interessante poiché non solo ha contribuito in modo decisivo alla fama di paese sfortunato (affatturato), ma ha portato ad una ri-articolazione della memoria pubblica della comunità. Nella mostra fotografica ospitata nel Palazzo delle esposizioni di Colobraro – una delle iniziative per i cinquant’anni dalla morte di de Martino – spiccano gli scatti di Pinna, tra cui una gigantografia di Maddalena La Rocca. È significativo il modo in cui la comunità ha associato il “falso d’autore” di Pinna alla propria identità, facendone un elemento rappresentativo del proprio patrimonio culturale. Proprio nell’ottica di una valorizzazione di questo patrimonio, materiale e immateriale, l’immaginario culturale che dipinge Colobraro come paese magico, sfortunato e affatturato, è stato impiegato creativamente in una nuova narrazione pubblica. “Pubblica” sia nel senso che è frutto di un processo collettivo cui partecipa larga parte della comunità, sia che è pensata per rivolgersi ad un pubblico esterno, di potenziali visitatori e turisti.
In passato ci sono stati altri tentativi di “giocare” con la sfortuna, ma nessuno ha avuto la continuità e il successo di quello attuale. Di questi primi tentativi rimane solo un volume poco reperibile, a metà strada tra la raccolta di tradizioni e la narrativa pura (Cassavia & Savinia 2004). Gli ultimi dieci anni hanno visto un approccio completamente diverso, riassunto bene dall’iniziativa proposta nel 2016 dal sindaco Andrea Bernardo. In accordo con la SISAL, ogni cittadino maggiorenne di Colobraro ha ricevuto gratuitamente una quota di un maxi-sistema del SuperEnalotto, che all’epoca aveva un montepremi di novanta milioni di euro (Franco 2016). Scopo dichiarato dell’iniziativa era quello di confutare empiricamente l’esistenza della sfortuna nel paese, e poco importa che l’esperimento sia poi fallito: il vero obiettivo era creare interesse attorno a Colobraro e alla sua tradizione.
De Martino considerava la fascinatura come una delle pratiche magiche più diffuse in Lucania (de Martino 1982: 8), raccogliendo diverse testimonianze nella stessa Colobraro (de Martino 2002: 107). Se in passato tali pratiche hanno contribuito a dipingere negativamente il paese e la sua comunità, riconducendo la sfortuna cronica al malocchio locale, ora assistiamo ad un’inversione di tendenza: la sfortuna diventa centrale in una nuova forma di affascino diretta ai turisti, un affascino per nulla magico, ma che viene raccontato come tale. L’iniziativa del SuperEnalotto è un corollario all’evento “Sogno di una notte…a quel Paese”, vero motivo di attrazione per migliaia di persone che si recano a Colobraro per venire “affascinati” da una finzione solennemente ammessa, e ironicamente contraddetta.
Malasorte d’autore
Per una serie di circostanze impreviste, l’anno successivo alla visita di Imbriani mi ritrovai anch’io a Colobraro (2016). Non arrivai lì sulle tracce di de Martino, ma mosso dalla curiosità di partecipare allo spettacolo teatrale di agosto, piuttosto conosciuto e apprezzato in tutto il materano. “Sogno di una notte…a quel paese” è una performance strutturata in più atti, che utilizza il centro storico di Colobraro come palcoscenico itinerante. I visitatori, divisi in gruppi, sono condotti lungo un percorso a tappe, interagendo con gli attori e gli stessi residenti. Ogni anno si registrano tra le cinquemila e le seimila presenze, un flusso notevole per un paese con poco più di milleduecento abitanti. Lo spettacolo, arrivato quest’anno alla sua nona edizione, è stato ideato da Giuseppe Ranoia, realizzato con il sostegno del sindaco Andrea Bernardo e il coinvolgimento di volontari locali, attori professionisti o semplici dilettanti. Ranoia è uno sceneggiatore e attore di teatro, originario del vicino paese di Montalbano Jonico, ben informato sulla fama di Colobraro; tuttavia, nell’ideazione dello spettacolo il regista non si è rifatto solo alle tradizioni locali, ma anche a fonti antropologiche, in primis al lavoro di de Martino sul Meridione.
Le ricerche di de Martino sono ritornate più volte, parlando con alcuni degli attori di Colobraro. A volte questa conoscenza era frutto di interesse personale, in altri casi è stata la partecipazione alla performance teatrale a suggerire la lettura di libri specifici. Su tutti, com’è lecito aspettarsi visto il coinvolgimento diretto del paese, il più letto e apprezzato è Sud e magia (de Martino 1982), che non rappresenta però un riferimento obbligatorio: tra i volontari con cui ho avuto modo di parlare, alcuni conoscevano solamente La terra del rimorso, altri avevano solo un’idea vaga di chi fosse de Martino e del suo legame con Colobraro. Resta il fatto che, in modo più o meno sistematico, il sapere antropologico entra all’interno dello spettacolo, definito talvolta come un “evento demo-antropologico” tout court che salda insieme tradizioni orali, folklore locale e documenti etnografici (Schena 2015).
Ci stiamo confrontando forse con l’ennesimo “falso d’autore”, come nel caso della fattucchiera fittizia di Pinna? In un certo senso è così, visto che lo spettacolo teatrale opera una radicale ri-articolazione dell’immaginario della comunità, fondendo elementi culturali propri delle tradizione locale con altri appartenenti al folklore lucano in senso ampio; anche in questo caso entrano in gioco gli effetti dello sguardo dell’artista (attore anziché fotografo) che realizza una rappresentazione inedita, per quanto aderente ad un certo soggetto. La differenza sostanziale è che l’adesione non si traduce mai in imposizione, in una spersonalizzazione del soggetto, come nel caso di Pinna e Maria Fiorenza: diventa centrale la partecipazione della comunità al progetto di Ranoia, che mette letteralmente in scena una (auto-)rappresentazione senza subirla passivamente. Al contrario, la gestione di questa narrazione pubblica è indice della consapevolezza della comunità e della sua capacità di intervenire sui processi culturali che la riguardano.
L’esercizio di questa agency rappresenta un punto cruciale per i futuri sviluppi dell’evento teatrale e del più ampio turismo culturale legato ad esso. In queste nuove modalità del turismo (Smith & Richards 2013) le pratiche tradizionali diventano spesso performance pubbliche che coinvolgono il visitatore in prima persona, le narrazioni della comunità assumono la forma di uno storytelling che condensa l’identità locale. La valorizzazione del patrimonio culturale non obbedisce più solamente alla logica della preservazione e della tutela, ma la valorizzazione dei beni immateriali avviene in un’ottica di fruizione con un pubblico estraneo alla comunità (Poria 2010: 219-220; Akagawa & Smith 2009). Va da sé che, se consideriamo la “comunità” come l’insieme degli stakeholder locali che possono disporre legittimamente di quel patrimonio culturale, ne consegue che solo una parte dei residenti sul territorio coinciderà con essa, così come ne faranno parte anche individui “esterni”, come nel caso di Ranoia con Colobraro.
Il rischio di una valorizzazione del patrimonio di questo tipo, specie quando riguarda beni immateriali, è quello di impiegare specifici elementi culturali come brand (Waterton 2010), appiattendo la complessità locale su quell’unico elemento che, a quel punto, può venire facilmente decontestualizzato e pauperizzato. Il festival della “Notte della Taranta” rappresenta uno di questi casi limite, caratterizzato da un precario equilibrio tra turismo culturale, branding e performance pubblica, e in cui entra in gioco nuovamente il sapere antropologico (Imbriani 2017; Zingari Lapiccirella 2015). Paradossalmente, uno dei fattori che protegge Colobraro da simili rischi è l’atteggiamento ironico che caratterizza lo spettacolo teatrale, e in generale la narrazione pubblica che mette al centro la sfortuna del paese, quell’ironia che afferma solennemente uno stato di cose solo per dissimulare la sua infondatezza.
Nello spettacolo teatrale di Colobraro vengono raccontate storie e leggende che rielaborano creativamente l’immaginario della comunità, mettendo in scena una rappresentazione giocosa che non corrisponde alla vera identità del paese. È, per così dire, un suo riflesso alterato, come quello di un bambino che fa le smorfie davanti gli specchi del circo per ridere dell’effetto. Ecco perché questa certificazione della sfortuna, ribadita nello spettacolo o esorcizzata con il SuperEnalotto, non rischia di schiacciare l’immagine di Colobraro su quell’unico aspetto: questa rappresentazione è già in partenza una finzione consapevole, una simulazione creativa che affascina il visitatore senza volerlo convincere.
Tuttavia, come ogni finzione culturale, anche questa ha degli effetti consistenti sulla comunità, riuscendo a coniugare il turismo culturale con la valorizzazione del proprio patrimonio culturale. Il Palazzo delle esposizioni è il luogo dove si concentrano la maggior parte delle iniziative museali di Colobraro, che costituiscono una sorta di contrappunto serio e formale agli aspetti ludici dell’evento teatrale. A cominciare dalla Mostra sulla civiltà contadina, il palazzo ospita diverse esposizioni fotografiche ed etnologiche che documentano la storia di Colobraro. Un aspetto interessante è che queste mostre sono visitate non solo da turisti, ma dagli stessi residenti; per questa parte di pubblico, le esposizioni permettono di (ri-)prendere contatto con saperi e pratiche tradizionali. A volte la relazione può essere anche più personale: un caso di cui sono stato testimone è quello di una donna che, visitando la mostra fotografica, ha riconosciuto un suo bisnonno in una delle foto esposte.
Questa stretta connessione con il territorio e il suo passato è riaffermata anche attraverso il linguaggio. Buona parte dello spettacolo è recitato in una versione ammorbidita del dialetto locale, facilmente comprensibile per la maggior parte dei lucani, più difficile da cogliere per gli altri visitatori. Infatti, oltre al pubblico proveniente dalla Basilicata e territori limitrofi, c’è una piccola percentuale di turisti del Nord e Centro Italia, come chi scrive, o un mio omonimo veneziano, che durante una scena venne scelto per “subire” un rituale contro la fascinatura. Non riporto l’episodio senza motivo: osservando attentamente la performance, ci si accorge di come formule e gesti ricalchino da vicino quelli documentati da de Martino nella sua visita a Colobraro, una vera e propria messa in scena della tradizione fissata dall’etnografo. Inoltre, l’episodio mi diede modo di appurare la persistenza di una memoria “autentica” di queste conoscenze tradizionali, dato che un’anziana signora di Tursi insistette per compiere lo stesso rituale contro la fascinatura dopo aver saputo del mio soggiorno a Colobraro. Ma in che misura poteva dirsi “lo stesso” rituale?
Il coinvolgimento del turista affatturato illustra bene il tipo di rapporto tra attori e pubblico durante lo spettacolo: i personaggi si rivolgono direttamente ai visitatori, rompono la quarta parete, impiegano i turisti come comparse temporanee, e fanno da guida lungo le vie del centro storico. Qui diventa chiaro anche il nesso tra valorizzazione dei beni immateriali e materiali: l’abitato antico di Colobraro non è solo una location temporanea per lo spettacolo, ma viene vissuto realmente per mezzo del teatro. Possiamo parlare di una vera e propria strategia di patrimonializzazione, che inscrive il patrimonio immateriale del folklore e delle tradizioni popolari all’interno del contesto urbano, ri-significando quei luoghi attraverso l’esperienza condivisa di attori e turisti. Su questa dimensione condivisa è bene insistere, visto che il coinvolgimento dei visitatori è un elemento fondamentale per la salvaguardia del patrimonio culturale (Zingari Lapiccirella 2015: 134-135; Ballacchino 2015: 38-39).
Il valore di questa iniziativa è stato in un certo senso riconosciuto e sancito dalla regione Basilicata, che ha inserito “Sogno di una notte…a quel paese” tra i beni immateriali del suo territorio. Anche se non bisogna mai sottovalutare le implicazioni sociali e politiche sottese alle pratiche di tutela del patrimonio, specie quando riguardano il dialogo tra comunità locali e istituzioni (Palumbo 2003), la decisione della Regione testimonia il successo e l’autonomia raggiunta dall’iniziativa. Lo spettacolo teatrale non solo raccoglie, ma rielabora creativamente il patrimonio di tradizioni della comunità, dandogli nuova forma ed espressione. La memoria della comunità non è più frutto di un’oggettivazione scientifica, che archivia rigidamente, ma il risultato di pratiche vive, “contaminate” da saperi diversi, adattabili al contesto presente.
Tutto questo assume una rilevanza ancora maggiore se consideriamo l’aspetto demografico. Come molti comuni del territorio lucano, negli ultimi anni Colobraro ha vissuto un forte spopolamento, perdendo dal 2001 più del 20% dei suoi abitanti [2]. Il grande flusso turistico legato all’evento teatrale rimane limitato al mese d’agosto, e finora non si è mai tradotto in un aumento effettivo dei residenti. Anche se il nesso tra bilancio demografico e turismo culturale richiederebbe una indagine più approfondita, alla luce delle riflessioni proposte possiamo già cogliere alcuni aspetti. Lo spettacolo di Colobraro non è in grado di compensare, anche solo indirettamente, gli effetti demografici dello spopolamento progressivo; risponde piuttosto ad una sua conseguenza, altrettanto cruciale per la comunità: l’impoverimento della memoria collettiva. Da un lato, i volontari e gli attori teatrali – molti dei quali sono giovani – hanno modo di riprendere contatto con la propria tradizione, assumendo un ruolo da protagonisti nel processo di trasmissione culturale della memoria; dall’altro, il coinvolgimento dei turisti nella narrazione pubblica estende la cerchia dei depositari di quelle conoscenze, contribuendo a rivitalizzare il patrimonio immateriale al di fuori della comunità.
In questo articolo abbiamo toccato solo alcuni degli aspetti più importanti di un’iniziativa che, non senza criticità e problemi, cerca di rielaborare ironicamente un’eredità storica infausta per farne un’occasione di valorizzazione sociale. Trovo che una novella di Pirandello sia particolarmente adatta per cogliere il senso di tutto ciò. In La patente (Pirandello 1918), un giudice è alle prese con una richiesta paradossale: un uomo vuole a tutti i costi ricevere un attestato legale della sua iella. Le ragioni dello sfortunato signore sono chiare: questa “patente” porterà benefici che il semplice riconoscimento informale, la fama di iettatore, non concede. Solo assumendo su di sé questa rappresentazione, controllandola, potrà ricavarne dei vantaggi. In quella “tragica solennità” con cui l’uomo reclama la propria sfortuna, c’è molto del modo con cui Colobraro ha ottenuto la sua patente.
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
Note
[1] http://www.archiviosonoro.org/archivio-sonoro/archivio-sonoro-basilicata/fondo-pinna/1952-a/09-fattucchiera-di-colobraro.html [controllato 09/10/19]
[2] https://www.tuttitalia.it/basilicata/45-colobraro/statistiche/popolazione-andamento-demografico/ [controllato 15/10/19]
Riferimenti bibliografici
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Ballacchino, Katia, 2015, Etnografia di una passione. I Gigli di Nola tra patrimonializzazione e mutamenti ai tempi dell’UNESCO, Roma: Armando Editore.
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).
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