di Nino Giaramidaro
Una rosa per la moglie di Vittorio Nisticò, una rosa rossa per Jole Calapso, scrittrice e vedova dell’indimenticabile direttore del giornale rosso che fu L’Ora. Un sole da ultimo settembre, con riverberi incomprensibili che illuminano volti e persone acuendone le difficoltà del riconoscimento. Piazzetta Napoli, di fronte al palazzetto che una volta era la sede di quel giornale sprezzante del pericolo e poco amato dai benpensanti palermitani e della Sicilia che riusciva a raggiungere sui carri merci degli arrancanti treni isolani.
Personaggi dalle facce ora familiari ora lontane, quasi sconosciuti. La memoria tira fuori nomi e cognomi appiccicati a fisionomie perdute negli anni. Tanino Rizzuto, Alberto Spampinato, Gianni Pietrosanti, Peppino Sottile, Franco Foresta Martin, Vincenzo Vasile (ultimo direttore), gli sportivi Gaetano Sconzo e Nello Bonvissuto, Vincenzo Baiardi, giornalista ippico, Kris Mancuso, Claudia Mirto, Silvana Polizzi e Sergio Buonadonna, Gabriello Montemagno, Francesco La Licata, detto Ciccio, Guido Valdini, Piero Violante, Daniele Billitteri, Marcello Sorgi, Mario Genco. Convenuti in quel centinaio di metri quadrati – una volta ritenuto nostro – perché di fronte ci sono due drappi con i colori della Città che il sindaco Leoluca Orlando dovrà tirare giù da un momento all’altro per scoprire due lapidi in memoria del Giornale, del suo direttore, dei suoi morti per mano mafiosa – ma forse non solo – Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato e Cosimo Cristina, e anche di «una redazione di coraggiosi giornalisti».
Domenica 29 settembre 2019, cento anni dopo la nascita di Vittorio Nisticò. Sono le 10 circa, ci abbracciamo meravigliati dell’esserci riconosciuti, voce commossa, lacrima trattenuta da una soccorritrice anche se esigua forza d’animo. C’è pure qualche tipografo: Di Domenico e Gambino (il titolista Gambino), ma tra i volti che si rivelano per un istante e poi ricadono nelle foschie della memoria, ci saranno tanti altri, come saranno lì, con gli occhi su quelle bandiere, altre decine di giornalisti dei quali non so dire nulla o che sono approdati al Giornale dopo il 1977, data che segna la diaspora dei giornalisti dell’Ora che ho sofferto anche io.
Il sindaco tira giù la grande bandiera e leggiamo: «In questo edificio dal 1954 per lunghi e difficili anni Vittorio Nisticò (1919-2009), direttore del giornale L’Ora, insieme a una redazione di coraggiosi giornalisti, tre dei quali Mauro De Mauro Giovanni Spampinato Cosimo Cristina assassinati nell’esercizio della professione, condusse la sua battaglia per una informazione libera e contro la mafia che nel 1958 reagì con un attentato alla tipografia. Nel decennale della scomparsa di Vittorio Nisticò l’amministrazione comunale pose questa targa in memoria di una lezione di giornalismo e di impegno civile. Palermo 29 settembre 2019».
Ci spostiamo all’angolo con la via Mariano Stabile, e va giù la bandiera più piccola: sulla lapide di marmo, sotto la civettuola aquila municipale si legge “Via Giornale L’Ora”.
«Il mio grazie più sincero e affettuoso. Abbiamo contribuito, nei nostri anni di lavoro, a costruire una storia di cui essere davvero orgogliosi, una bella pagina di cultura civile. Ieri (29/9), una straordinaria giornata della memoria. Da non disperdere. Ci toccherà adesso fare vivere bene il libro (ne parleremo ndr). Un abbraccio con amicizia profonda Antonio». Antonio Calabrò, giornalista dell’ultima generazione della direzione Nisticò, e-mail estrapolata da un pesante va e vieni di messaggi, parole affollate attorno a un desiderio vicino alla bugia benevola: «Restiamo uniti». Quel gruppetto di amici o colleghi sparpagliato in tutt’Italia, in città dove si sono persi i capelli, la maggior parte di forze e molti ricordi. Ma, prima o poi, bisogna partire verso l’impossibile pure se la «lontananza è come il vento, che fa dimenticare» anche chi si è amato.
La giornata a L’Ora cominciava a cavallo delle otto del mattino. Arrivava Gianni Lo Monaco con Pallina, l’inseparabile cagnetta, e si accartocciava dietro la sua scrivania con i cassetti zeppi di registri: cronaca nera, fatti giudiziari, trame di film. Aspettava le telefonate dei corrispondenti siciliani con i nervi tesi perché aveva smesso di fumare. Angelina Fais attraversava lo stanzone della cronaca e il corridoio chiuso dalla stanza di Nisticò – carte in mano e sfoggiava la minigonna di Mary Quant. Nino Sofia accendeva la sua radio clandestina per scoprire quello che in Questura non si riusciva a sapere rapidamente. Francesco La Licata era uscito per il giro dei pronto soccorso. Sergio Buonadonna già telefonava.
Peppino Sottile era a consulto con Etrio Fidora, che nessuno aveva visto arrivare, e si diffondeva il sospetto che avesse dormito in redazione. Direttore Responsabile, cioè quello che si caricava delle querele e dei processi contro il Giornale (ne subì un numero record), da poco non era più capocronista ma dedito a pagine regionali con le cronache dell’Ars e avvenimenti che interessavano l’Isola. Dante Angelini, scrivania sul lato corto dello stanzone, allenava la mano facendo caricature e disegni prima di scrivere della politica comunale. Sul lato opposto c’era il grande tavolo del caporedattore Aldo Costa, che appariva e scompariva in una sua stanzetta ritagliata dal grande vano della redazione. Era costantemente impigliato in lunghi rotoli di telescritti forniti da Tanino Sanseri e, ogni tanto, dava un colpo di forbici per salvare una notizia.
Ritagliava anche dai “flani”, semicirconferenze di plastica con impresse le pagine: giungevano con il primo aereo Roma-Palermo da Paese Sera, il ricco “confratello” elemosiniere – cinque edizioni al giorno e più di cento redattori. Politica estera ed economia, soprattutto, ma anche diverse rubriche e i “Benelux”, corsivi di prima pagina scritti da Gianni Rodari, che su L’Ora diventavano “Civis”, spesso dovuti all’ironia di Aldo Costa.
Alla sinistra della superscrivania c’erano i desk di Kris Mancuso e Camillo Pantaleone. Kris, assonante con Kiss, gruppo metal hard rock newyorchese, e anche con il nobile Kriss, pugnale malese quasi sacro: governava gli “esteri” e diverse iniziative del Giornale. Camillo, silenzioso e assorto, elegante nel “lupo di mare” blu, non riusciva a distrarsi dalle cose del mondo. Abbiamo condiviso per qualche tempo casa nelle stanze della servitù di una villetta liberty in via Ariosto. Fra i due si frapponevano i dialoghi articolati fra Kris e Piero Violante, giovane musicologo e critico, fisico esile, interessi onnivori.
«Sono ancora stravolto da un’emozione indimenticabile. Grazie a tutti. Ci vediamo presto. Per il libro e per chissà che altro. Perché la nostra è una storia che non finisce. “N L”». Nicola Lombardozzi dal traffico di e-mail, generazione anni ’80, l’ho conosciuto altrove.
Nella “nostra storia” ci sono numerose discontinuità: redattori che andavano e “biondini” che arrivavano, nessun ricordo fra loro. Eppure il mattino del giorno 29 settembre in piazzetta Napoli aleggia un sentimento di parentela, anche alla lontana. Sergio Buonadonna sostiene che il gruppo dei redattori anni ‘60/’70 «non siamo sopravvissuti o reduci ma parenti», di un legame conquistato dentro quelle stanze ora stravolte, cancellate dall’architettura dell’Agenzia delle Imposte. Sì, nella memoria ardente ci sono anche i luoghi nei quali riconoscersi, come quelli natii, tutti che mutano ferendo i ricordi e spingendoli alla frontiera del rimpianto.
Mario Farinella, grossa stilografica – inchiostro verde – si aggirava per lo più accigliato nelle stanze e, intorno alle undici, sollecitava chi ancora scriveva per la prima edizione: «Spicciati, che i treni partono». Firmava inchieste, corsivi e fondi; era il giornalista che rimaneva più a lungo nella stanza di Nisticò.
Marcello Cimino giungeva a metà mattinata con il suo bel bastoncino e il papillon annodato con sapienza. Lo avevo conosciuto in una delle mie incursioni al Giornale, nel ’66: sulla scrivania una pila di carte che lo facevano intravvedere a stento; riguardavano la frana di Agrigento che si era accanita particolarmente sui quartieri dell’Addolorata (sud-ovest) e San Michele (nord ovest). Marcello, in quei documenti, cercava le responsabilità.
E Giuliana Saladino – anche Giulia Sala, all’occorrenza – moglie di Marcello, minuta, spesso sorridente appoggiata allo stipite della porta del salone, scriveva delle donne e con le donne ma anche taglienti inchieste che sostenevano l’impegno politico e civile del Giornale. E Lillina Savagnone, fisico in contraddizione con il gentile vezzeggiativo del nome, laureata in medicina, dovette scegliere a quale albo professionale iscriversi: bella scrittura e una collezione a vasto raggio di inchieste.
Mauro De Mauro. Lo vidi per la prima volta a Mazara. Inizio ’60. Era venuto come inviato per un fatto di cronaca che aveva impressionato la città. Ricordo soltanto che parlava con Elena Barbera Lombardo, giornalista di sinistra che io frequentavo. Lo rincontrai nel gennaio del ’68, la notte del terremoto. Giunsi a piazzetta Napoli in piena notte dalle scosse di Santa Ninfa e Gibellina. Al giornale c’era solo Sergio Buonadonna. Arrivò Vittorio Nisticò e, subito dopo, De Mauro con la moglie e le due figlie. Breve e concitata ricerca di giornalisti e fotografi, ma non si trovò nessuno. Giunse un taxi malmesso e De Mauro e io partimmo verso Gibellina.
Roberto Baudo, socialista partigiano, in quanto dottore (ma in legge) medicò, assistette e salvò i suoi compagni sino alla fine delle ostilità: scriveva soprattutto di “giudiziaria”. La coppia Salvo Licata e Mario Genco che per anni “coprirono” la cronaca nera: erano le penne “di punta” del Giornale. Bruno Carbone, notista politico, affettuoso e affrettato, aveva sempre sott’occhio case da comprare, inabitabili, malsicure ma belle. Fu uno degli ultimi direttori del Giornale. Angelo Arisco, giornalista pedone e politico, restituito dal Giornale di Sicilia.
E c’erano i “provvisori”, prestati da Paese Sera: Ninni Borelli, il capocronista Walter Buzzoli, Orazio Barrese, Felice Chilanti. Gli ultimi due li ho conosciuti nel ’72 a Catania, dove Nisticò mi aveva mandato per aprirvi la redazione. Un grande schieramento di forze per il lancio del Giornale. Da Trapani giunse Salvatore Costanza, fine corsivista e opinionista. In redazione c’erano Agostino Sangiorgio, Guglielmo Troina, Ada Mollica e qualche altro giovane. Sin dai primi giorni, il distributore pagava al Giornale duemila copie, ma – lo scoprimmo non ricordo come – nelle edicole ne giungeva solo qualche centinaio. La Catania affascinata dalla destra e dal neofascismo, dove Stefano Dalle Chiaie e i suoi camerati erano graditi ospiti, si difendeva anche in questa maniera obliqua dalla “minaccia” di un giornale che non aveva nessuna intenzione di rispettare l’ordine delle cose.
Naturalmente in questo accavallarsi di ricordi rimangono impigliati nell’ombra molti nomi e volti. I giovani del secondo piano dove si confezionavano diverse pagine: “La città parla”, “Palermo studenti”, una sulle donne e altre dimenticate. Claudia Mirto, Valeria Ajovalasit, Enza Bertuglia, e qualche altro dal nome perduto.
E le pagine affidate a Michele Perriera, scrittore e drammaturgo, cofondatore del “Gruppo 63”, scoperto da Nisticò pochi anni dopo il suo arrivo a Palermo; c’era la sua intelligenza nelle iniziative culturali del giornale. Altri nomi: Alberto Spampinato, fratello di Giovanni, il nostro piccolo eroe ucciso nel ’72 per quello che scriveva. Dario Castiglione, diventato docente di Storia delle dottrine politiche nelle università di mezzo mondo. Giuseppe Corsentino, emigrato a Panorama, del quale ho perduto le tracce. Tano Gullo, arrivato insieme a Marcello Sorgi – coppia di “biondini” d’assalto. Giuseppe Cerasa, abile cronista di “bianca”, e i giovanissimi Attilio Bolzoni, Bianca Stancanelli e Umberto Rosso: solo intravisti, loro arrivavano e io andavo via.
E Giovanni Fantozzi, partigiano torinese, direttore amministrativo con liquidità quasi sempre agli sgoccioli, il ragioniere Girolamo Pinello, l’uomo degli acconti, praticati con frequenza soprattutto da “biondini” e giovani redattori. Franco Fais, ex navigatore, del quale si poteva immaginare un passato alla Conrad. Don Vincenzo Collarà, portiere che sviava il tentato esattore del Grattacielo, il ristorantino che faceva credito, ma anche donne che non gli piacevano, con la formula: «Non c’è il dottore, è fuori per servizio».
E i fotografi Nicola Scafidi, premio “Lenin”, inventore del colpo di tosse per coprire il rumore dello scatto, e suo fratello Franco. E Letizia Battaglia, la più illustre fotografa, premio “Eugene Smith” e conosciuta nel mondo. E Franco Zecchin, ora fotografo internazionale.
Sono passati più di 40 anni da quei giorni di entusiasmo e con il cuore e la mente sulla stessa linea. Se rimango a frugare nella memoria spuntano episodi e nomi – tanti nomi circonfusi dal sorriso. Il sapiente e anche paziente proto Emanuele Manfrè, Andrea Riolo, impaginatore della prima pagina, Carrozza, ovverossia la calma, il saltellante “Priullino” (Priulla), il custode notturno Di Giovanni, clone di Gramsci o, per altri, di Togliatti, Elvira Giambarresi, schiva e gentile, e Saro Mineo, prototipo dei commessi, carico di mitologie che qui non si possono narrare.
Mi scuso con tutti quegli altri con i quali ho condiviso una lunga quotidianità di lavoro e che adesso, mentre scrivo, non riesco a ricordare, anche se con molti correva amicizia. Spero che vengano citati dai colleghi con i quali abbiamo scritto il libro “L’Ora, edizione straordinaria – romanzo di un giornale nel racconto dei suoi cronisti” che la Biblioteca regionale pubblicherà in questi giorni. Un ulteriore omaggio a un giornale impareggiabile e un modo per coloro che vi lavorarono di stare ancora insieme, almeno sino alla consunzione della carta.
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
[*] Le fotografie “storiche” sono tratte dall’Archivio L’Ora custodito presso la Biblioteca centrale della Regione siciliana “A. Bombace” di Palermo.
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.
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