Stampa Articolo

L’altrove, il mondo e la geografia al tempo degli iperoggetti

copertinadi Giuseppe Sorce

Terra, oggetti, iperoggetti, non-umani. Morton ci dice che se vogliamo ragionare in senso realmente ecologico dobbiamo sbarazzarci del mondo. Che anzi il mondo lo abbiamo già perso. Il ragionamento che propone è molto convincente. A fare una brutta fine, oltre al mondo, secondo Morton, c’è l’altrove.

Il mondo come immagine del mondo, elaborata dalla modernità e perpetrata nella contemporaneità, sono estetizzazioni che hanno la colpa di scatenare comportamenti e pensieri che deviano verso una falsa-entità-mondo [1] destinate a bloccare in realtà tutte le azioni ecologicamente possibili e sensate.

«Le nostre azioni formano uno schema karmico che, da una distanza oggettivante, può sembrare il regno dell’inferno o del paradiso. Ma al di là della violenza che esercitiamo, c’è la distanza che reifica lo schema in un’immagine del mondo che deve essere distrutta. Che si tratta della Contea o delle giungle di Avatar, dei parchi nazionali o delle riserve naturali che vediamo laggiù (possibilmente dietro il parabrezza di un SUV), che si tratti dei campi coltivati o dei canali di irrigazione sottratti alla natura selvaggia, tutto è un’immagine del mondo. Non sto dicendo che dobbiamo estirpare gli alberi: sto dicendo che dobbiamo distruggere il processo di estetizzazione: in caso di emergenza ecologica, rompere il vetro» [2].

Pausa. Sto parlando di Iperoggetti di Timothy Morton, testo del 2013 in Italia edito per la prima volta da Nero nel 2018. Come si legge un po’ in giro, fra siti e riviste letterarie, questo testo ha avuto un impatto notevole nel panorama accademico americano (ci si chiede, per questo, come mai sia arrivato in Italia così tardi). È un testo chiave per i nostri tempi. Sicuramente molto utile per comprendere la svolta ecologica e deantropizzata del pensiero scientifico-filosofico in merito alla Questione, per eccellenza, dei nostri giorni: il collasso ambientale.

320x0wMorton, come da titolo, introduce con questo saggio la categoria degli iperoggetti, quelle entità «diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo»[3], che possiedono determinate caratteristiche, tali da renderli difficilmente comprensibili (immaginabili?) alla cognizione umana. Viscosità, non-località, phasing, interoggettività. Sono tutte proprietà che riguardano gli iperoggetti e che vengono ampiamente illustrate nel corso del testo. Il fulcro principale del libro è l’iperoggetto clima e l’iperoggetto riscaldamento globale. Ce ne sono altri che ritornano più volte: il plutonio, l’uranio, per esempio, l’evoluzione, il petrolio, la biosfera, il sistema solare, ecc.

È un testo che va letto, più volte forse. Giusto per capirci: «il clima non è uno “spazio” o un “ambiente” ma un oggetto multidimensionale che non ci è possibile vedere direttamente, quando piove sulla mia testa è l’iperoggetto clima piovere, è la biosfera che sta piovendo» [4]. Segue che «il tempio metereologico è piuttosto l’impressione sensuale del clima che entità umane e non umane (mucche, alluvioni, tundra, ombrelli, ecc.) si trovano a sperimentare» [5]. Queste sono le logiche che muovono il testo di Morton.

Ma torniamo dove ci eravamo fermati: la scomparsa del mondo e dell’altrove causata dagli iperoggetti. Gli iperoggetti esistono, sia chiaro, a prescindere da noi esseri umani. Noi umanità, quindi, finalmente, oggi che siamo consapevoli degli iperoggetti, dobbiamo accantonare quel qualcosa a cui ci riferiamo quando diciamo mondo.

«Il mondo è un delicato effetto estetico dai confini che iniziamo a malapena a percepire. La consapevolezza planetaria non è l’inesorabile realizzazione del fatto che “noi siamo il mondo” ma al contrario, del fatto che non lo siamo. [...] Il mondo, inteso come fondale di eventi, è l’oggettivazione di iperoggetti: la biosfera, il clima l’evoluzione, il capitalismo. Per cui quando il clima ci piove addosso, non abbiamo idea di cosa stia succedendo»[6].

depositphotos_34225889-stock-photo-background-of-dry-cracked-soilNon esiste il mondo e non esiste l’altrove nei termini in cui l’altrove è quel luogo “fuori” dal nostro sguardo e dalla nostra epistemologia – quell’altrove in cui per esempio ci illudiamo di smaltire scorie e materiali radioattivi che sempre e comunque disperderanno radiazioni le quali sempre e comunque arriveranno a noi, attraverseranno i nostri corpi. Giusto per utilizzare alcuni esempi che Morton stesso fa nel corso del testo, semplicemente quell’altrove – dominio spaziale immaginato – a cui pensiamo quando vediamo gas di scarico volteggiare lontano; quell’altrove in cui spediamo i nostri rifiuti organici quando tiriamo lo sciacquone. Invece proprio «l’ecologia ci parla di qualcosa di molto diverso: e cioè di un mondo ontologicamente piatto privo di qualsiasi tubo di scarico, un mondo in cui non c’è nessun “altrove”»[7].

È destabilizzante alle volte il testo di Morton. Pur rifiutando il mondo come immagine estetizzante, come oggettivazione di parziali manifestazioni di iperoggetti, Morton ci dà un’idea del mondo così per com’è. Un mondo non antropizzato, non antropocentrico. Un mondo risultante dalla fisica quantistica, dalla relatività, dagli iperoggetti; «siamo circondati da iperoggetti come il riscaldamento globale e le radiazioni nucleari, non certo da entità astratte come la Natura, l’ambiente o il mondo» [8].

Un’idea – che cos’è un’immagine se non la spazializzazione di un’idea? [9] – di mondo che si dispiega ricorsivamente, un itinerario frattale dalle più piccole particelle subatomiche alle galassie, un mondo lo spazio-tempo è, necessariamente, funzione della massa e della gravità degli oggetti [10].

Morton, in poche parole, ci costringe a guardare il mondo e pensare il mondo per quello che è (o quantomeno per quello che le frontiere ultime della ricerca scientifica ci dicono sia) a prescindere da noi umani, «il mondo inteso come totalità significante di tutto ciò che è, è impossibile da immaginare e questo semplicemente perché non esiste»[11]. Morton fa tutto ciò non per spirito letterario bensì perché ritiene, a ragione, che per comprendere il collasso ambientale che siamo e saremo costretti ad affrontare dobbiamo uscire dall’ottica antropocentrica o almeno prendere coscienza che questo passo indietro ontologico dell’uomo rispetto alla Terra, agli iperoggetti, ai non-umani, è già avvenuto. Che ci piaccia o no. Gli iperoggetti esistono a prescindere dalla nostra comprensione e dalla nostra immaginazione.

mappa_di_eratostene-wikipedia

Mappa di Eratostene

Dire che non viviamo più in un mondo [12] è alquanto seccante, soprattutto per chi cerca di tenere in piedi qualcosa come la geografia. Dire che dobbiamo sbarazzarci del mondo significa condannare a morte la geografia, disciplina, sapere, che da sempre si è interrogata sul mondo e sul funzionamento del mondo. Dire inoltre che «ora che il mondo è finito non esiste più un “altrove”» [13], significa certificarne il decesso. Sarà una fascinazione post-esotica, nostalgica, ma in realtà la geografia ha ancora qualcosa da dire. La geografia, non tutta, non come siamo abituati a conoscerla [14]. Non penso alle carte geografiche stricto sensu, infatti. Penso ai saperi geografici, alle narrazioni geografiche. Penso all’immaginazione. Penso quindi all’altrove. E penso al mondo e al fatto che comprendere il mondo è ciò che ha mosso, quasi per vocazione, le riflessioni geografiche.

Facciamo un passo indietro. Perché Morton ha ragione nel dire che una certa immagine del mondo oggi deve essere abbandonata. E non solo perché ci è di intralcio allo sviluppo di una giusta prospettiva ecologica ma anche perché oggi quell’immagine non funziona più. Pensiamo quindi all’immagine del mondo che la geografia, dall’età moderna ad oggi, ha contribuito a sostituire al mondo stesso: la mappa, la carta geografica.

Il metodo cartografico è il mezzo attraverso cui la geografia definisce la propria specificità di disciplina in quanto ne legittima la valenza scientifica. Ciò significa che la geografia per autodefinirsi scienza assunse il metodo cartografico a epistemologia del proprio conoscere. La cartografia da metodo, uno dei metodi della geografia, è diventata la sua epistemologia. In questo movimento volto all’autodefinirsi scienza, la geografia del Novecento ha scelto come propri padri putativi Eratostene e Tolomeo, padri di una geografia che si vuole, appunto, cartografica e scientifica. Per esempio, ci si può chiedere perché la scelta cada su Eratostene e non su Senofonte, tra l’altro più antico (circa IV secolo a. C.). La risposta è che i sistematori moderni della geografia vogliono dare alla propria disciplina un profilo ben definito, un profilo scientifico, quando invece l’Anabasi di Senofonte è un’opera che è già una descrizione geografica, e anche etnografica, linguistica, costituisce un esempio di geografia narrativa ma non cartografica e quindi non scientifica. Scegliere Eratostene e non Senofonte allora è già una scelta epistemologica.

geofarinelliLa geografia, tentando sempre di darsi un manto di scientificità, ha perciò dimenticato le “narrazioni geografiche”, la descrizione linguistica e non geometrica dei luoghi, che è vista come a-scientifica.  La geografia occidentale, così facendo, si è così dimenticata dei “saperi geografici”, quei comportamenti umani di fronte allo spazio che hanno prodotto pensiero, e che appartengono a Homo e alle culture di Homo. Ha quindi dimenticato, per queste ragioni, di tenere conto dei saperi geografici delle altre culture del mondo, dimenticandosi così che esistono altri modelli, altre immagini del mondo. La geografia, in quanto disciplina moderna, ha così contribuito al processo di sostituzione dell’immagine cartografica con il mondo rendendosi complice di ciò che oggi la sta conducendo verso la fine, ora che la sua immagine del mondo non funziona più, ora che il suo metodo non basta più a descrivere il mondo e il suo funzionamento [15].

Ora che dobbiamo mettere da parte il mondo, come dice Morton, cioè non solo proprio quell’immagine antropocentrica ed estetizzante a cui si riferisce ma anche, aggiungerei io, l’immagine cartografica ed etnocentrica (occidentale) del mondo, ci si chiede ancora una volta a cosa serve la geografia. Se si approfondisce però il ragionamento sul metodo, sull’ossessione geografica per la mappa, si può provare a cambiare prospettiva di osservazione per accorgersi che proprio nella mappa-immagine-del-mondo si possono trovare anche i motivi per una sua rinascita. Il ruolo che ha svolto la cartografia da questo punto di vista infatti è stato duplice: se da un lato fissava su carta, un’immagine della Terra, di una determinata porzione di spazio, dall’altro lasciava fuori tutto il resto, tutto ciò che non poteva essere descritto sulla carta e sulla carta non trovava posto.

tabula-asiae-8In questo senso, mi sembra appropriato ricordare una delle rappresentazioni geografiche presenti nell’edizione latina di Sebastian Münster (1540 circa) della Geografia di Tolomeo: nella Tabulae Asiae (libro VIII), oltre le linee grafiche che racchiudono lo spazio rappresentato segnandone i limiti, si possono notare raffigurazioni di mostri, creature immaginarie dallo strano aspetto. Così, allo stesso modo, nelle carte latine campeggiava la scritta “hic sunt leones” che stava a indicare il fatto che lì, oltre il limite entro il quale la rappresentazione della carta si esauriva, si fermava anche la conoscenza. Allo stesso modo ancora, la scritta “Terrae Incognitae” nella cartografia antica indicava appunto un’area sconosciuta e inesplorata. Lì c’era l’ignoto, l’altrove. Lì si doveva ancora andare a vedere [16].

L’altrove, in questo senso, tutto ciò che poteva esserci quindi lì dove la mappa indicava terrae incognitae, è sempre stato un’attrazione irrinunciabile per homo. A partire da questi elementi, si può ragionare sulla geografia e sulle mappe in modo diverso. Si può parlare del rapporto fra la geografia e l’immaginazione, fra lo spazio e l’altrove. Ciò che si è dimenticato nel tempo infatti è che le esplorazioni geografiche non erano sempre e solo finalizzate alla realizzazione di carte che facilitassero la conquista di un nuovo territorio o una migliore amministrazione di un territorio su cui si estendeva un certo dominio di potere; esaurite le terre note e ignote da esplorare, da conquistare e da mappare, automaticamente la geografia ha visto il proprio ambito rarefarsi sempre di più, ma questo significa costringere la geografia esclusivamente alla sua funzione di strumento coloniale.

A partire dalla carta infatti nasceva anche un bisogno, un desiderio, di esplorazioni che non può essere ridotto soltanto a motivi di ordine economico e militare, di conquista ed espansione territoriale. Se da un lato la carta geografica diventa strumento del potere (nell’età antica e moderna), dall’altro, ciò che rimaneva fuori dalla carta geografica andava ad alimentare l’immaginazione congenita in Homo sapiens, quella spinta a immaginare un altrove che è una delle cause che hanno portato l’uomo oltre l’Africa, sin dalle sue origini.

71gnxcy3rlL’altrove serve a fare da contraltare al “qui”. Quando il “qui” ci angustia, non ci soddisfa, ci minaccia, l’altrove (metafisico, fisico, immaginario, vicino o lontano che sia) ci salva, ci purifica, ci eccita. Quando il “qui” è difficile, l’altrove può essere facile, o viceversa può essere imputato e considerato la causa dei guasti del “qui”. Quando nel “qui” siamo immobili, immaginare l’altrove ci fa muovere, quando nel “qui” non siamo noi stessi, nell’altrove possiamo esserlo, possiamo essere altri ancora. Quando il “qui” è una trappola esistenziale, l’invenzione di un altrove si traduce nell’immaginare uno spazio-altro da abitare.

Dire perciò che non esiste nessun altrove può risultare un’arma a doppio taglio: da un lato si afferma il vero dicendo che effettivamente oggi si deve abbandonare l’idea che ciò che succede in un altrove geografico non influenzi massicciamente e in maniera complessa entità, iperoggetti, diffusi come il clima e la Terra stessa, dall’altro lato però si rischia di creare un fraintendimento. Perché non è scorretto o nefasto pensare l’altrove. Pensare, immaginare l’altrove è necessario, è una strategia di sopravvivenza di homo [17]. È stata e lo sarà negli anni a venire, in una Terra al collasso.

Bisogna quindi pensare l’altrove non come un’uscita di sicurezza cognitiva nel bug culturale provocato dal pensare iperoggetti complessi come il clima – trappole intellettuali, cognitive ed epistemologiche del tipo «l’acqua c’è, gli alberi sono verdi, quindi non esiste il riscaldamento globale». Bisogna invece pensare l’altrove come pista cognitiva per sperimentare scenari, soluzioni, simulare conflitti e tattiche di resistenza. L’altrove come laboratorio per immaginare il collasso e per prepararsi mentalmente adesso [18].

Immaginare un altrove (geografico) contemporaneo ci può dare l’idea di cosa ci aspetta – lo scioglimento dei ghiacciai nell’Artico, la desertificazione progressiva nel Sahel, la deforestazione e gli incendi in Amazzonia, ecc. Così come immaginare un altrove nel passato o nel futuro alle prese con una situazione di collasso sociale, ambientale, culturale, può risvegliarci dall’ipnosi hi-tech di massa del qui occidentale.

50703224_362224187696901_6163713599409304450_n

@camilla compagni

Per questi motivi è pensabile, anzi bisogna pensare, una nuova geografia che ritorni a chiedersi come il mondo funziona. Una geografia che sappia fare da collante fra l’altrove e il “qui” di ognuno di noi, una geografia che sappia spingere l’immaginazione a colmare i vuoti di senso e le distanze di luoghi e di spazi. Le questioni del cambiamento climatico e del collasso ambientale appartengono al presente, ma la mancanza di una politica condivisa a livello mondiale che sappia arginare questi processi rende necessario, a partire da oggi, riuscire a immaginare il mondo di domani, abbandonando, sulla scorta dell’avvertimento di Morton, l’immaginazione estetizzante e oggettivante del mondo a favore di un’immaginazione operativa che inneschi l’azione e il pensiero qui sulla Terra, oggi.

Gli effetti visibili dell’Antropocene sono ancora al loro stadio iniziale in Occidente ma gli ecosistemi cambieranno così tanto che i paesaggi, fisici e umani, muteranno per reagire a questi cambiamenti, così le città a loro volta dovranno mutare poiché ne saranno compromesse le risorse energetiche, alimentari, idriche, economiche, i conflitti sociali si inaspriranno e così anche le tensioni politiche e così via.

Ai tempi dell’ecologia, a che serve la geografia? Sbarazzatoci del vecchio mondo, proviamo a immaginarne di nuovi. Proviamo allora a moltiplicare l’altrove per agire qui, adesso.

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
Note

[1] Falsa nel senso di finta, fittizia, costruita artificiosamente; si rimanda a Bettetini M. 2004, Figure di verità. La finzione nel Medioevo occidentale, Torino, Einaudi.
[2] Morton T. 2018, Iperoggetti, Nero, Roma: 265.
[3] Ivi: 11.
[4] Ivi: 103.
[5] Ivi: 101.
[6] Ivi: 131.
[7] Ivi: 151
[8] Ivi: 161.
[9] Si rimanda a Bachelard G. 2006, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo: 5-30, 247-266; Meschiari M. 2018, Nelle terre esterne. Geografie, Paesaggi, Scritture, Modena, Mucchi: 57.
[10] Una delle panoramiche sul mondo di Morton: «faccio partire il motore della mia auto: ossa liquefatte di dinosauro vanno in fiamme. Mi inerpico su un calanco: miliardi di creature sottomarine polverizzate si depositano sulle mie scarpe. Respiro: l’inquinamento batterico di qualche cataclisma archeano mi riempie gli alveoli (lo chiamano “ossigeno”). Scrivo questa frase: i mitocondri batteri anaerobici che si nascondono nelle mie cellule dei tempi del Grande Evento Ossidativo, sono la mia fonte di energia, hanno un loro DNA. Pianto un chiodo nel muro: i batteri hanno depositato ferro nella crosta terrestre sotto forma di solidi strati di minerali. Accendo la televisione e sento che ha nevicato: in un mucchietto di neve c’è la traccia della radiazione cosmica lasciato dal Big Bang. Cammino su forme di vita: l’ossigeno nei nostri polmoni e il prodotto del degassaggio di batteri. Il petrolio è il risultato di una qualche oscura e segreta collusione tra rocce, alghe, plancton, avvenuta milioni e milioni di anni fa: quando vedi il petrolio vedi il passato. Gli iperoggetti si allungano nel tempo fino a raggiungere un’estensione così vasta che diventano quasi impossibili da cogliere concettualmente» (Morton T. 2018: 82).
[11] Ivi: 141.
[12] Ivi: 151.
[13] Ivi: 143.
[14] Sì perché la geografia tradizionale, classica, quella che abbiamo studiato a scuola, è il sapere cardine della modernità, ma anche questa, la modernità, è finita, è morta, come ormai tutti gli intellettuali contemporanei si affrettano a dire, Morton anch’egli, ognuno con le sue ragioni.
[15] Si rimanda a Farinelli F. 2003, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi; Farinelli F. 2007, L’invenzione della Terra, Palermo, Sellerio; Farinelli F. 2009, La crisi della ragione cartografica, Torino, Einaudi; Graham S. 1998, The end of geography or the explosion of place? Conceptualizing space, place and information technology, in «Progress in Human Geography», vol. 22 n. 2: 165-185; MacEachren A. M. 1995, How maps work: Representation, visualization, and design, New York, Guilford.
[16] Si veda al tale proposito e anche al riguardo del rapporto fra geografia e immaginazione, Meschiari M. 2018, Nelle terre esterne. Geografie, Paesaggi, Scritture, Modena, Mucchi; Wright, J. K. 1947, Terrae Incognitae. The Place of the Imagination in Geography, in «Annals of the Association of American Geographers», vol. 37, n. 1: 1-15; Lowenthal D. 1961, Geography, Experience, and Imagination. Towards a Geographical Epistemology, in «Annals of the Association of American Geographers», vol. 51, n. 3: 241-260.
[17] Meschiari M. 2019, Neogeografia, Doppiozero, doppiozero.com; Meschiari M. 2010, Terra sapiens. Antropologie del paesaggio, Palermo, Sellerio; Meschiari M. 2010, Nati dalle colline. Percorsi di etnoecologia, Napoli, Liguori Editori.
[18] Qualcuno è già a lavoro in questo senso, qualcosa si sta muovendo. Si rimanda a https://lagrandestinzione.wordpress.com.

_______________________________________________________________

Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof.  Franco Farinelli.

_______________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>