Georges Duby, insigne medievista, tra i maggiori rappresentanti della storiografia sociale francese, rassomigliava i documenti storici alle isolette di un arcipelago sopravvissuto alla scomparsa di un continente sommerso che si pretende di raccontare nella sua interezza [1]. Un’immagine che suggerisce una sconfortante visione della storia e della sua parzialità, palesando la strenua difficoltà di istituire fondate relazioni tra gli sparsi frammenti superstiti e di ricostruire una verità incontrovertibile e assoluta. Questione intricata, che pertiene al metodo storico, ma su cui anche la letteratura, ponendosi sul versante dell’impegno civile, ha spesso steso il proprio sguardo: si pensi al Manzoni della Storia della colonna infame.
Il Novecento letterario italiano ci ha lasciato una delle più alte testimonianze di scrittura votata alla demistificazione, sostenuta da una critica aspra e a tutto tondo rivolta ai tanti, troppi quadri, che la storia ufficiale ha tramandato come inequivocabilmente ricomposti: è il modello di Leonardo Sciascia [2]. Un’eredità importante, da custodire; un patrimonio da tener vivo e trasmettere ai più giovani, di cogente attualità nel tempo presente, popolato di idoli mediatici capaci di conquistare orde di followers nel mondo reale e in quello virtuale, costellato di fake news subdolamente serpeggianti e facilmente destinate a diventare virali, non immune dal pericolo sempre incombente di fascismi di ritorno, di derive politiche pronte a riproporsi «sotto le spoglie più innocenti», come già avvertiva Umberto Eco in uno scritto apparso sul finire del XX secolo, non casualmente ripubblicato lo scorso anno [3].
Sciascia, nato a Racalmuto l’8 gennaio 1921, ci lasciava trent’anni or sono, il 20 novembre 1989, congedandosi con un ultimo, lapidario romanzo giallo, Una storia semplice, ma in verità «complicatissima», data alle stampe da Adelphi nel novembre dello stesso anno [4], e con A futura memoria, raccolta di scritti giornalistici, di taglio politico e civile, che avrebbe visto la luce postuma, nel mese di dicembre, presso Bompiani. Con parentesi scettica al titolo annessa; formidabile, finale boutade di un polemista di razza, maestro nel mescidare ironia e invettiva: se la memoria ha un futuro [5].
In esergo alla sua ultima prova narrativa, l’intellettuale siciliano inserì una frase di Friedrich Dürrenmatt che, con La promessa, aveva sancito il requiem per il romanzo giallo [6]: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia» [7]. Nell’ultima pagina di Una storia semplice, l’«uomo della Volvo», appena scarcerato, percorre cantando «la strada verso casa»: opera cioè una precisa scelta, la rinuncia consapevole a contribuire all’accertamento della verità. C’è un attimo di esitazione in lui, quando riconosce nel prete, padre Cricco, il «capostazione», o meglio colui che aveva «creduto fosse il capostazione» [8]. Ma, nel gioco degli inganni, l’esitazione è subito vinta dal timore di scontrarsi con i meccanismi di una giustizia incapace di distinguere il reo dall’innocente. Così, in quello che può definirsi il testamento letterario di Sciascia, la verità viene tenuta nascosta, taciuta, come altrove – soggiacendo alle logiche del potere – è stata offuscata, insabbiata, artefatta o imposta, divenendo impostura [9].
Come epigrafe di A futura memoria, campeggia invece una citazione da Georges Bernanos: «Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli» [10]. Nel libro sono riuniti gli interventi più significativi ma anche più discussi dello scrittore di Racalmuto, apparsi tra il 1979 e il 1988 su varie testate giornalistiche, tra cui principalmente “L’Espresso” e il “Corriere della Sera”: da protagonista navigato del dibattito culturale italiano, abituato ad attirare su di sé ripetute critiche e feroci strali, come nel caso della polemica sui professionisti dell’antimafia, anche attraverso quel rimando teneva a ribadire di aver voluto sempre analizzare con fermezza e lucidità la società contemporanea, urlando la sua verità, senza asservimenti, senza timori; e sperava – ma forse era un’estrema provocazione – che le sue pagine potessero essere lette (meglio, rilette) con «serenità» di giudizio, dopo la sua morte [11].
Non semplici omaggi a Dürrenmatt e Bernanos, gli stralci apposti sulle due ultime opere da un lato forniscono utilissime chiavi di lettura per la fruizione delle stesse, dall’altro – combinati fra loro – sembrano offrirsi come cartine di tornasole per la comprensione dell’intero itinerario sciasciano, un universo di scrittura caratterizzato – come recentemente ha ricordato Paolo Squillacioti [12] – da una commistione di soluzioni ed elementi che tende a scardinare le canoniche partizioni riguardanti forme e generi: così, «i romanzi sono ricchi di elementi saggistici, i saggi hanno spesso un andamento narrativo, ed esistono forme letterarie peculiari difficilmente incasellabili fra i generi tradizionali come le cronachette o le inquisizioni alla maniera di Borges» [13].
Il pensiero di Borges, un autore che ha influenzato più d’una generazione di intellettuali, da Calvino ad Eco a Tabucchi [14], con la sua concezione della vita e della storia come menzogna e opera contraffatta, viene intercettato e rielaborato da Sciascia, capace di cogliere il senso profondo delle Finzioni e delle Inquisizioni, quella sottile ambiguità di fondo che trasfigura ciascuna pagina in labirinto, ciascuna storia in metafora, aprendo ad una molteplicità di sensi [15]. Come i personaggi di Borges, così anche molti fra i personaggi sciasciani assurgono a simboli: un aspetto che certamente concorre a definire, oggi, trent’anni dopo la sua scomparsa, l’originalità di Sciascia nel panorama letterario italiano e non solo.
Tornando ai grandi temi della verità e della giustizia e all’impegno sin dagli esordi ingaggiato dallo scrittore nel provocare il lettore a pensare, può ben affermarsi che tratto costitutivo del suo intender la letteratura sia stata la vocazione ad inoltrarsi nell’oceano oscuro del taciuto, impugnando le armi della ragione e della polemica per trasporre la scrittura – narrativa, saggistica, pamphlettistica – in pervicace inchiesta e inesausta indagine conoscitiva. «Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono» [16]: questo il credo laico di Sciascia. Correva l’anno 1956 quando, nelle primissime pagine de Le parrocchie di Regalpetra, esprimeva la propria attestazione di fiducia nel razionalismo, posto a fondamento di ogni società che si presuma equa e libertaria: «Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione» [17].
Sin dagli esordi, è la ragione degli oppressi quella che Sciascia, sulla scorta di quel Paolo Luigi Courier che sapeva assestare colpi di penna come fossero come colpi di spada, mostrò di avere a cuore: «La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice – basta un colpo di penna – come dicesse – un colpo di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso» [18]. Dietro l’identificazione tra penna e arma – come ha rilevato Claude Ambroise – occorre scorgere quel sottile «filo etimologico che alla guerra lega la polemica», frutto di «una convergenza ideologica che fa perno sulla Rivoluzione» scoppiata a Parigi il 14 luglio 1789 [19].
Una data emblematica per Sciascia che, raccontando Regalpetra, osservava: «è come se la meridiana della Matrice segnasse un’ora del 13 luglio 1789». Per aggiungere subito dopo, con palpabile sconforto: «domani passerà sulla meridiana l’ombra della Rivoluzione francese, poi Napoleone il Risorgimento la rivoluzione russa la Resistenza, chissà quando la meridiana segnerà l’ora di oggi, quella che è per tanti altri uomini nel mondo l’ora giusta» [20].
Chissà se oggi segna l’ora giusta, vien da chiedersi, nel villaggio globale dilaniato da diaframmi sociali sempre più evidenti e allarmanti. La possibilità di leggere, interpretare e proporre, a trent’anni dalla morte di Sciascia, la sua opera in chiave attualizzante inestricabilmente si lega al valore assoluto dall’autore attribuito al recupero e alla trasmissione della memoria [21] e risiede, in ultimo, nel significato universalistico e non localistico della sua indagine conoscitiva, assicurato dall’esser ogni opera – alla maniera di Borges, come visto – specchio di qualcos’altro. Non riduttivo esame analitico della realtà siciliana con le sue particolari categorie antropologiche (uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo, quaquaraquà), giacché quella realtà è assunta a metafora dell’umanità tutta [22].
Quel che, nel Giorno della civetta, era detto del Bel Paese («Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia»), registrando finalmente l’avvenuta unificazione nazionale, ma sotto il segno della collusione del malaffare [23], oggi potrebbe applicarsi all’Europa: come se la linea della palma fosse salita sempre più a nord, sancendo anche in questo caso una singolare unificazione, oltre Roma, oltre le Alpi, fino a Berlino, Strasburgo, Bruxelles, nel cuore dell’Europa che comanda, al cui interno si è già generata una nuova questione morale e sociale.
La divaricazione tra i due poli in perenne opposizione dialettica, quello degli oppressi e degli oppressori, che Sciascia – manzonianamente – ha tratteggiato in tante delle sue opere, è una delle piaghe più evidenti dell’oggi ed è destinata sempre più ad infettarsi, determinando ulteriori diseguaglianze e tensioni.
Chissà cosa ne penserebbe Sciascia di quest’epoca senza ideologie! Chissà cosa direbbe del nostro Mediterraneo, tomba a cielo aperto, uno dei molti teatri del mondo su cui quotidianamente si dispiegano drammi umanitari senza precedenti, soluzioni né consolazioni. Opporrebbe la necessità di una rivoluzione, forse. O forse, affermerebbe ancora – come nell’intervista rilasciata a Marcelle Padovani – che «l’unico modo di essere rivoluzionari, è quello di essere un po’ conservatori», protesi cioè, in una fase storica di inarrestabile disgregazione, a conservare il meglio. Di certo, ci spronerebbe ad indagare, a scrutare, a rigettare l’ovvio, a demolire tutto ciò che ci appare pericolosamente artefatto: «Con molta diffidenza, con tanto scetticismo, ma bisogna vedere» [24].
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
Note
1] Cfr. G. Duby, Scrivere storia, in Aa.Vv., La scrittura e la storia: problemi di storiografia letteraria, a cura di A. Asor Rosa, Firenze, La Nuova Italia, 1995: 43-53. Interessanti annotazioni anche in G. Duby – B. Geremek, Passions communes. Entretiens avec Philippe Sainteny, Paris, Éditions du Seuil, 1992; ed. it. La storia e le altre passioni, a cura di Ph. Sainteny, trad. di G. Viano Marogna, Roma-Bari, Laterza, 1993.
[2] Sulla scrittura come impegno civile e la questione della verità in Sciascia, cfr. L. Adamo, Leonardo Sciascia tra impegno e letteratura, prefazione di A. Di Grado, Enna, Papiro, 1992; G. Traina, In un destino di verità. Ipotesi su Sciascia, Milano, La vita felice, 1999; M. Onofri, Storia di Sciascia, n. e. Roma-Bari, Laterza, 2004; G. Traina, Una problematica modernità. Verità pubblica e scrittura a nascondere in Leonardo Sciascia, Acireale-Roma, Bonanno, 2009; G. Fichera, Engagement, fiction, vérité. Pasolini, Kalinsky, Sciascia, Mertens, Macerata, Quodlibet, 2017. Sulla modernità e il respiro europeo del pensiero di Sciascia, cfr. Aa.Vv., Sciascia scrittore europeo, Atti del Convegno internazionale di Ascona (29 marzo-2 aprile 1993), a cura di M. Picone, P. De Marchi, T. Crivelli, Basel-Boston-Berlin, Birkhäuser Verlag, 1994; F. Moliterni, Sciascia moderno. Studi, documenti e carteggi, Bologna, Pendragon, 2017.
[3] Cfr. U. Eco, Ur-Fascismo, in Id., Cinque scritti morali, Milano, Bompiani, 1997; ora Id., Il fascismo eterno, Milano, La nave di Teseo, 2018.
[4] «Una storia semplice è una storia complicatissima»: così nella quarta di copertina di L. Sciascia, Una storia semplice, Milano, Adelphi, 1989.
[5] Id., A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano, Bompiani, 1989. Su Sciascia polemista, cfr. B. Pischedda, Scrittori polemisti: Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori, Eco, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.
[6] F. Dürrenmatt, Das Versprechen: requiem auf den kriminalroman, Zürich, Arche, 1958; ed. it. La promessa: un requiem per il romanzo giallo, trad. di S. Daniele, Milano, Feltrinelli, 1959.
[7] L. Sciascia, Una storia semplice, in Id., Opere 1984-1989, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1991: 731. La citazione è tratta da F. Dürrenmatt, Justiz, Zürich, Diogenes, 1985; ed. it. Giustizia, trad. di G. Agabio, Milano, Garzanti, 1986.
[8] L. Sciascia, Una storia semplice, cit.: 761.
[9] Sul concetto di impostura come (falsa) verità imposta ad arte, Cfr. G. Zagarrio, Sciascia tra impostura e verità, in Aa.Vv., Leonardo Sciascia. La verità l’aspra verità, Manduria (LE), Lacaita, 1985: 182-191; S.S. Nigro, Sciascia e l’impostura, «Il Giannone», 13/14 (2009): 135-139.
[10] L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), in Id., Opere 1984-1989, cit.: 771. La citazione è tratta da Georges Bernanos, romanziere e saggista francese che Sciascia sentì affine, come ebbe a dichiarare in una nota confluita in Nero su nero: «Uno scrittore cattolico che io (laico, illuminista, voltairiano: e tutto quello che di me si dice e che non nego) sento in questo momento più di ogni altro vicino».
[11] Ibid.: 770. La polemica sui professionisti dell’antimafia dilagò a seguito del celebre articolo del 10 gennaio 1987, apparso sul “Corriere della Sera” e poi ricompreso in A futura memoria. Ragionando sulla motivazione con cui si proponeva il posto di Procuratore della Repubblica di Marsala, contenuta nel “Notiziario straordinario” del 10 settembre 1986, Sciascia giungeva ad affermare che «nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prendere parte a processi di stampo mafioso» (Ibid.: 869). L’attacco alla casta intoccabile dei magistrati fu come un fulmine a ciel sereno: tanto che sulla questione l’autore, fu costretto a tornare quattro giorni dopo, sempre sul “Corriere”, con la precisazione che non «la competenza» del giudice Borsellino, bensì «le modalità della sua nomina» da parte del Consiglio Superiore della Magistratura aveva inteso discutere (Ibid.: 870-871). E, per il clamore suscitato e le stilettate ricevute, vi ritornò ancora il 25 gennaio, stavolta su “L’Espresso”, rispondendo a chi, come Pansa, a suo dire, non aveva compreso che «contro la mafia io difendevo il diritto e la dignità umana, come oggi contro le storture dell’antimafia» (Ibid.: 874). Il 26 gennaio, sul “Corriere”, schermandosi ancora da Pansa, novello Minosse giudicante, e chiamando alla lettura di «quella trentina di illuminanti pagine che si trovano nel libro I ribelli di Hobsbawm» (Ibid.: 880), auspicava che l’amministrazione della giustizia, non solo in ordine al fenomeno mafioso, trovasse la via per trarsi fuori dall’impasse in cui annaspava, profeticamente chiosando che, se così non fosse stato, le sue parole sarebbero apparse «nel più breve giro del tempo, […] come una verità incontrovertibile, persino ovvia e banale» (Ibid.:882). La bufera non si placò e il 6 agosto 1988, su “La Stampa”, Sciascia tornava a difendere le sue ragioni, in risposta ad un articolo firmato da Eugenio Scalfari per “la Repubblica” del 2 agosto, in cui la querelle scatenata da Sciascia – prendendo a prestito da Julien Benda la bella espressione – veniva indicata quale esempio manifesto di trahison des clercs. «Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità» scriveva un sempre più provato, ma per nulla arrendevole Sciascia, che intanto lottava contro il male che un anno e pochi mesi dopo lo avrebbe condannato alla morte. Si ritrovava, nel percorrere il mesto viale del tramonto, a dover fare i conti con attacchi, rimbrotti e delusioni: «Ho sessantasette anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere tante cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari». (Ibid.: 889). Rivendicava il suo ruolo di intellettuale libero, di scotitore delle coscienze, in un’Italia assuefatta al malaffare e che, invece, egli desiderava ardentemente libera dalla cancrena della criminalità organizzata: «[…] io voglio, da parte dello stato, decisione, fermezza, intelligenza, concordia tra i diversi organismi della pubblica amministrazione preposti al compito di combattere la mafia» (Ibid.: 888).
[12] P. Squillacioti ha curato per Adelphi la pubblicazione delle opere del Racalmutese, raccolte per tipologie testuali, laddove C. Ambroise aveva optato, nella qualità di curatore per Bompiani, per un criterio cronologico. Cfr. L. Sciascia, Opere, a cura di P. Squillacioti: vol. 1 – Narrativa, teatro, poesia, Milano, Adelphi, 2012; vol. 2/1 – Inquisizioni e memorie, Milano, Adelphi, 2014; vol. 2/2 – Saggi, Milano, Adelphi, 2019 (uscita prevista nella ricorrenza del trentennale della scomparsa).
[13] «Essenziale per comprendere il nostro tempo»: Sciascia raccontato da Paolo Squillacioti, intervista a cura di G. Capecchi, 21 giugno 2019, at https://altritaliani.net/essenziale-per-comprendere-il-nostro-tempo-sciascia-raccontato-da-paolo-squillacioti/ (ultima consultazione 19.10.2019). Va precisato che, dopo un avvio con echi neorealisti e soluzioni sperimentali che richiamano l’esperienza di «Officina», Sciascia, in linea con le tendenze del Postmoderno, sperimenta il romanzo-saggio, frequenta innovandoli generi popolari come il giallo e il romanzo storico, si muove tra inchiesta e pamphlet, facendo ampio ricorso alla parodia e all’ironia, cifre distintive della sua scrittura.
[14] Cfr. R. Paoli, La presencia de Borges en la literatura italiana contemporanea: Calvino, Eco, Sciascia, Tabucchi, Menzoza, Editorial de la Faculdad de Filosofia y Letras de la Universidad nacional de Cuyo, 1994.
[15] Cfr. J.L. Borges, Ficciones, Buenos Aires, SUR, 1944; ed. it. La Biblioteca di Babele, trad. di F. Lucentini, collana «I gettoni», Torino, Einaudi, 1955; Finzioni, a cura di Antonio Melis, Milano, Adelphi, 2015. E ancora Otras Inquisiciones (1937-1952), Buenos Aires, SUR, 1952; poi Buenos Aires, Emecé Editores, 1960; ed. it. Altre inquisizioni, prefazione di F. Tentori Montalto, Milano, Feltrinelli, 2007; Inquisiciones, Madrid, Alianza Editorial, 1998; ed. it. Inquisizioni, a cura di Antonio Melis, trad. di L. Lorenzini, Milano, Adelphi, 2001.
[16] L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, in Id., Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1987: 9. Su intelligenza e ragione nella scrittura sciasciana, cfr. G. Zagarrio, Tra il dubbio e la ragione (1957-62), Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1963; L. Lorenzini, La ragione di un intellettuale libero: Leonardo Sciascia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1992; Aa.VV., Leonardo Sciascia. La mitografia della ragione, a cura di F. Bernardini Napoletano, Roma, Lithos, 1994; A. Scerbo, Dalla “ragione” all’ “intelligenza”. Note sugli aspetti politico-giuridici dell’opera di Leonardo Sciascia, Catanzaro, EDIS, 1995; I. Pupo, Passione della ragione e labirinti della memoria. Studi su Leonardo Sciascia, Napoli, Liguori, 2011; Leonardo Sciascia. L’arte della ragione, a cura di S. Lannuzza, Firenze, Clichy, 2017.
[17] L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, cit.: 9.
[18] Ibid.: 9-10.
[19] C. Ambroise, Polemos, in L. Sciascia, Opere 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1989: XIV.
[20] L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, in Id., Opere 1956-1971, cit.: 11.
[21] Sul valore della memoria in Sciascia cfr. Leonardo Sciascia, la memoria, il futuro, a cura di M. Collura, Milano, Bompiani, 1998; P. Milone, Sciascia: memoria e destino. La musica dell’uomo solo tra Debenedetti, Calvino e Pasolini, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2011; G. Benvenuti, Microfisica della memoria. Leonardo Sciascia e le forme del racconto, Bologna, Bononia University Press, 2013; A. Motta, Leonardo Sciascia. La memoria, la nostalgia e il mistero, prefazione di P. Squillacioti, Bari, Progedit, 2018.
[22] L. Sciascia, Il giorno della civetta, in Id., Opere 1956-1971: 466-467.
[23] Ibid.: 479.
[24] Id., La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle Padovani, Milano, A. Mondadori, 1979: 133.
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Rosario Atria, dopo la laurea magistrale in Letteratura all’Università “La Sapienza” di Roma, ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università di Palermo. Dal 2014 è, presso lo stesso ateneo, cultore di Letteratura italiana. Autore di studi sulla poesia del Due-Trecento, sulla narrativa storico-popolare dell’Ottocento, sulla lirica leopardiana, sulla narrativa del secondo Novecento, si interessa anche di storia e letteratura archeologica della Sicilia e di questioni mediterranee. Dal 2017 è Presidente della Società Dante Alighieri di Castelvetrano, sua città natale. Ha redatto numerose voci per il Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Dalle origini al sec. XVIII, edito nel 2018 in dodici volumi, a cura di F. Armetta, per i tipi dell’editore Sciascia. Dal 2019 è direttore, insieme a G.L. Bonanno e F.S. Calcara, di «Tρισκελής. Collana mediterranea di storia, letteratura e varia umanistica», che ha contribuito a fondare.
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