La ricerca condotta da Stefano Pontiggia a Redeyef, in Tunisia, tra il 2014 ed il 2015, e poi pubblicata nel 2017 con il titolo Il bacino maledetto. Disuguaglianza, marginalità e potere nella Tunisia postrivoluzionaria (Ombre corte 2017), affronta cause ed effetti del controverso fenomeno della marginalità e lo fa da una prospettiva – a mio modo di vedere – suggestiva. L’autore si confronta con la letteratura di quegli studiosi tunisini francofoni che, negli ultimi decenni, hanno rivolto una particolare attenzione a questo tema come ad una delle questioni chiave del processo che ha portato alle rivolte del 2010-2011 e al conseguente allontanamento del Presidente Ben Ali. In particolare, gli studi condotti da H. Sethom (1979), H. Hermassi (2013) e A. Daoud (2013) hanno interpretato la marginalizzazione come un processo di esclusione sociale dalla ricchezza, dallo sviluppo e dal benessere di determinate aree geografiche del Paese, di singoli individui o di interi gruppi sociali, a causa di fattori di vulnerabilità derivanti da cause ambientali, culturali, sociali, politiche ed economiche difficili da dipanare.
L. M. Sommers definiva la marginalità come la condizione per cui una parte della società e dello spazio si situano al di sotto di un livello atteso di performance nel benessere economico, politico e sociale, se comparato con la condizione media dell’intero territorio. A partire dagli anni Settanta del XX secolo, però, autori come Janice Perlman avviarono un processo di decostruzione di questa categoria, analizzata alla stregua di un mito da abbandonare in favore dello studio dei “processi di marginalizzazione”, cioè i processi di sfruttamento e repressione cui sono sottoposti determinati gruppi sociali. Secondo questa corrente di studi, la marginalità non andava più intesa come esclusione, bensì come integrazione in un sistema economico capitalista.
Ispirandosi a questo dibattito teorico e coniugando abilmente le riflessioni di Michel Foucault con quelle di Pierre Bourdieu, Pontiggia adotta il concetto di marginalità e lo applica al contesto indagato. Da Foucault trae la considerazione che il potere non si deposita in maniera fissa e inamovibile in qualche luogo specifico, ma si manifesta come un flusso che scorre nelle singole interazioni quotidiane tra miriadi di soggetti (l’idea della microfisica del potere, per intenderci). Da Bourdieu trae invece l’importanza della strutturazione di un campo simbolico entro cui si costruiscono configurazioni e rapporti tra attori, istituzioni e retoriche che detengono diversi tipi di capitale.
Il libro è idealmente suddiviso in tre sezioni volte a indagare come la marginalizzazione si articoli a livello spaziale, temporale e della struttura sociale. Dimensione spaziale: politiche governative e produzione dello spazio, il modo in cui i governi hanno dato forma allo spazio e creato disuguaglianza; Dimensione temporale: il tempo, sia come sguardo sul passato che come futuro interrotto; Dimensione sociale: il denaro e l’economia, la struttura sociale e il rapporto con il potere, la protesta e l’impossibilità per molti giovani di creare un’identità socialmente riconosciuta.
Che cosa significa, dunque, marginalità? È innegabile come in Tunisia, nel corso degli anni, si sia accentuata una generale divisione nazionale del lavoro tra una costa industriale e commerciale e un Sud fornitore di materie prime. La diseguale distribuzione della ricchezza è un presupposto necessario dei mercati capitalisti e il risultato di scelte politiche che hanno scientemente favorito alcune regioni a discapito di altre, attribuendo ruoli diversi alle regioni costiere e alle aree interne del Paese. I territori interni sono stati posizionati per scelta politica ai margini di qualunque dinamica “modernizzatrice”, essendo stato loro attribuito il ruolo di rifornire il mercato del lavoro interno con manodopera sotto-specializzata (colonialismo interno). Le zone metropolitane dominano le comunità “isolate”, che si ritrovano così ad essere in una posizione di subalternità politico-economica, con standard di vita socialmente e geograficamente differenti, le cui risorse e il cui lavoro sono sfruttati alla stregua di quanto avveniva in passato.
In questo senso Pontiggia è abile nel dimostrare la continuità tra dominazione francese e fase post-coloniale. Gli schemi nazionali dei governi post-coloniali hanno immaginato le regioni dell’interno come luoghi di estrazione di risorse minerarie o di produzione di beni primari, non come aree in cui impiantare attività industriali. In conseguenza di ciò, marginalità non significa esclusione totale dai benefici, ma inclusione di tipo differenziale in uno spazio articolato in livelli gerarchici interni, asimmetria organizzativa e progetti di sviluppo difformi. Le aree interne non sono state escluse dallo sviluppo ma, nel quadro di una divisione produttiva, il posto ad esse assegnato è stato quello di produrre materie prime agricole e minerarie e fornire manodopera sotto-qualificata e a basso prezzo. Esiste un rapporto di dominazione tra centri a vocazione industriale/commerciale e periferie che producono una ricchezza di cui beneficiano in massima parte le aree centrali/costiere.
Nel confrontarci con l’autore sul suo libro, nell’entrare in dialogo con lui, abbiamo cercato di capire quale importanza potrebbe rivestire la ricerca antropologica condotta in Tunisia per un miglioramento delle condizioni di marginalità da lui descritte nel libro, nell’ottica di un’antropologia che possa avere un ruolo pubblico nella società. L’importanza della ricerca di Pontiggia ci sembra trascendere quella del contesto locale entro cui è stata svolta, perché aiuta a spiegare dinamiche di natura transnazionale e globale connaturate ai processi di sviluppo e modernizzazione e alle contraddizioni che da questi scaturiscono. Non è quindi azzardato definire la piccola città di Redeyef – coi suoi trentamila abitanti, una sola linea ferroviaria che risale al 1907 e un reddito mensile medio che oscilla tra i 30 e i 100 euro – un iperluogo entro cui si riverberano le conseguenze di dinamiche che attraversano diverse aree su scala globale. Redeyef, dunque, come punto di condensazione e di congiunzione di fenomeni che si intrecciano tra loro, centro di uno snodo e di un insieme complesso di problematiche che concorrono a costituire il campo all’interno del quale l’antropologo si è collocato e che ha imparato a vivere nella sua quotidianità.
Stefano Pontiggia è dottore di ricerca in Studi Umanistici e sociali presso l’Università di Ferrara (Scuola di Dottorato in Scienze Umane). Ha compiuto ricerche etnografiche in Italia a e Tunisia. I suoi interessi si rivolgono principalmente ai processi di formazione dello Stato, alle disuguaglianze, alle relazioni di potere e alla violenza strutturale, in particolare nei Paesi del Nord Africa. È attualmente professore di Antropologia delle società complesse presso l’Accademia di Belle Arti di Verona. Le prospettive aperte dalle ricerche di Pontiggia sono molteplici e certamente suggestive. L’intervista qui condotta contribuirà, forse, a rafforzare tale constatazione.
Vorrei iniziare questo dialogo da una questione personale, intima, legata al vissuto etnografico. Durante la tua esperienza sul campo, quale tra le relazioni che hai intrattenuto è stata per te più importante, ritornando oggi a riflettere sulla tua esperienza voglio dire?
«Credo che la persona che mi sia rimasta più impressa sia il giovane uomo che nel testo chiamo col nome di Aymen. Le persone restano tali sempre e non rappresentano altro che se stesse anche quando ne facciamo un personaggio in un testo, ma credo di poter affermare che in Aymen si condensi molta della sofferenza sociale e della vulnerabilità che le condizioni strutturali del bacino minerario alimentano. Aymen mi appariva sempre sofferente nonostante non esprimesse la sua fatica con gesti plateali o in termini particolarmente espliciti. Durante il mio lavoro di campo, un paio di persone si erano date fuoco per protesta contro la vita che stavano conducendo. Aymen non avrebbe mai compiuto un simile gesto, anche perché, essendo un fedele musulmano, non avrebbe mai cercato di compiere un gesto tanto “sovversivo” come togliersi la vita. Questo faceva sì che il suo malessere fosse sempre presente come una specie di rumore di fondo che gli riempiva i pensieri. Gran parte delle sue conversazioni con me erano una litania di lamentele e tentativi di ipotizzare una vita diversa e, nonostante gli avessi chiesto di accompagnarmi in alcune interviste anche per aiutarlo a svagarsi un poco, Aymen sembrava non provare piacere in nessuna delle cose che faceva.
Questa sua condizione mi ha portato a riflettere molto sul senso del tempo, sulla noia esperienziale di cui parlo nel capitolo “Noia” e su quanto violente a livello individuale possano essere le conseguenze di una condizione strutturalmente ineguale dal punto di vista delle possibilità di autodeterminarsi. La fredda lucidità con cui mi diceva che lui e i suoi amici erano già morti anche se si alzavano dal letto ogni mattina è stata inizialmente difficile da approcciare, anche da un punto di vista emotivo. Tra noi la differenza d’età non è molta, e questo rendeva ancora più straniante il fatto che una persona a me quasi coetanea potesse dirmi che non aveva paura della morte dal momento che morta lo era già.
Aymen mi ha inoltre costretto a fare i conti con molte idee preconcette sulle relazioni e sulla stessa idea di progetti futuri, facendomi capire che il privilegio di chi nasce nella parte fortunata del mondo passa (forse in modo preponderante) dal ventaglio di opportunità quotidiane che alcuni hanno e altri no; queste opportunità non sono solo di ordine pratico circa ciò che qualcuno può fare e qualcun altro no, ma anche di ordine simbolico sulla stessa pensabilità di alcune situazioni. Penso ad esempio alla sua idea di sposare una donna europea per scappare via da Redeyef e al mio tentativo, goffo e venato di paternalismo, di convincerlo che nella vita ci si dovrebbe sposare per amore e non per ottenere un passaporto».
Quanto ha influito la “grammatica della civiltà” (Comaroff), ossia la narrazione dei colonizzatori fatta propria dai colonizzati, nelle dinamiche di marginalizzazione di Redeyef?
«Una retorica che dal mio punto di vista sicuramente influenza le dinamiche di marginalizzazione della città è quella che dipinge l’area, e tutto il Sud in generale, come luogo dell’arretratezza e della dimensione tribale. Quest’immagine di un Sud riottoso, impossibile da soggiogare e scosso da divisioni tribali ha fatto sì che gli abitanti di Redeyef si considerino incapaci di fare cose che attribuiscono solo agli abitanti della costa. Giusto per fare un esempio, molte persone mi hanno detto che chi arriva dalla costa dev’essere deputato a guidare il Paese perché “lì sanno fare l’economia e sanno fare politica”. Quest’idea deriva dalla continua sottovalutazione delle popolazioni del Sud e porta le persone a non riconoscere i processi storici di produzione delle élite nazionali e il ruolo dei vari Governi nel favorire alcune regioni a discapito di altre, ad esempio sul piano dell’offerta scolastica e delle possibilità economiche e professionali. Aderendo all’idea che il Sud sia economicamente arretrato perché culturalmente arretrato, gli abitanti di Redeyef che ho conosciuto non riuscivano a cogliere il dato strutturale di questa disuguaglianza e tendevano a considerarsi inferiori rispetto a chi godeva di un privilegio. La lezione di Pierre Bourdieu sulla violenza simbolica è qui perfettamente in grado di spiegare il processo.
Va tuttavia detto che tale retorica non è attribuibile al solo periodo coloniale. Essa infatti si sviluppa in epoca precoloniale, durante il regno del Bey, e prosegue sotto altri termini in epoca postcoloniale. In questo senso, dato che interpreto lo spazio tunisino alla luce della letteratura sul colonialismo interno, tendo a interpretare narrazioni come quella sull’arretratezza del Sud come un prodotto coloniale in senso lato, cioè come il risultato di una visione del Paese che individua alcune porzioni di territorio inquadrandole come semplici produttrici di materie prime e manodopera sotto-qualificata.
Al contrario, l’aspetto interessante è l’appropriazione dei simboli dello “splendore” del periodo coloniale propriamente detto in chiave polemica e critica verso le condizioni presenti. In questo senso, come cerco di mostrare nel capitolo “Miniere”, le immagini della città prodotte in epoca coloniale e la stessa eredità materiale del potere francese sono usate per produrre una contro-retorica di passata ricchezza e di prospettive di prosperità che la fine del colonialismo, paradossalmente, ha cancellato. Come si può vedere da questi due esempi, dunque, il rapporto con il periodo coloniale è decisamente ambivalente».
Si può affermare che il concetto di cui parli nel libro, Hàmdôùllàh, si traduca in una accettazione passiva della realtà sociale, l’emblema di una eteronomia che in un contesto interpretato come auto-alienante perpetua siffatta alienazione?
«Credo che quella parola vada piuttosto interpretata come un tentativo di venire a patti con due spinte diverse che devono necessariamente trovare una sintesi sempre instabile e contestuale. Da un lato, le persone che continuamente ripetevano Hàmdôùllàh alla fine o durante le chiacchierate con me stavano cercando con grandi sforzi di trovare una via d’uscita dal cul-de-sac che la vita nel bacino minerario poneva loro davanti. Persone come lo stesso Aymen passavano le loro giornate a immaginare una soluzione che consentisse loro di abbandonare la regione e magari il Paese e vivere in condizioni quantomeno comparabili ai membri della loro generazione che vivono in Europa. I progetti o i tentativi di fuga, la ricerca di una moglie europea o i viaggi nel sahel (la costa tunisina) avevano quello scopo.
Dall’altro lato, se è vero che esiste una certa tendenza nel pensiero religioso islamico a leggere tutto nei termini di un disegno divino, anche la disoccupazione sarebbe paradossalmente il destino che Dio ha in serbo per le persone. Tuttavia, l’espressione Hàmdôùllàh non veniva recitata per esprimere una passiva accettazione allo stato delle cose ma, al contrario, per esprimere lo sforzo insito nel doverlo fare. L’accettazione delle cose era in un certo senso attiva, un doversi adattare a condizioni poco più che miserabili tramite il ricorso al concetto del volere di Dio.
In questo senso, la formula (come mi ha spiegato Aymen in un momento chiave che descrivo nel testo) sta a rappresentare lo sforzo interpretativo e di ricerca di tutti i segni che Dio ha predisposto per ognuno, così che i fedeli possano seguirli e raggiungere dunque quei risultati che Dio stesso ha approntato per loro. Hàmdôùllàh significa dunque il riconoscimento della disuguaglianza ma anche, e contemporaneamente, lo sforzo dialettico di non adeguarsi passivamente allo status quo ma di trovare quei segni che consentano di leggere il futuro e iniziare, finalmente, a costruirlo».
A distanza di qualche anno dalla tua ricerca, credi che nel frattempo siano avvenuti dei cambiamenti politico-economico-sociali nella regione di Gafsa?
«Credo di no, e questo mancato cambiamento non è tipico solo del bacino minerario ma dell’intero Paese. Uno dei problemi è economico. Negli anni successivi alla stesura del libro, la crisi economica ha portato a una nuova svalutazione del dinaro tunisino, che ora al cambio con l’euro ne vale un terzo, e questo ha fatto perdere potere d’acquisto ai salari. L’unico settore dell’economia tunisina davvero in ripresa è il turismo, il cui modello resta tuttavia quello descritto nel libro: grandi compagnie internazionali che offrono servizi tutto compreso e che non lasciano che una minima parte della ricchezza in Tunisia.
C’è poi un grosso problema con le élite politiche e culturali tunisine, le quali condividono una comune visione liberista dell’economia e molto conservatrice sul piano sociale. Questo porta le dinamiche economiche, politiche e sociali a riprodursi e perpetuarsi senza un’effettiva capacità di immaginare dei futuri alternativi. Le esperienze cooperative che pur stanno fiorendo in tutto il Paese, infatti, non hanno ancora la forza di presentarsi nello spazio pubblico come effettive alternative di sistema. Il tutto è reso inoltre molto più complesso e in qualche modo ingessato dalla grande dipendenza di cui la Tunisia soffre rispetto all’Unione Europea e ai singoli Governi del Continente. Vedremo se il nuovo quadro politico emerso dalle recenti elezioni porterà un cambiamento sul medio periodo».
Alcune critiche sollevate al tuo lavoro hanno evidenziato da un lato il rischio di “destoricizzare”, “deislamizzare” e “deculturizzare” l’analisi antropologica, rendendola generalizzabile e applicabile un po’ ovunque, dall’altro un presunto limite dovuto al fatto di aver lasciato in ombra alcuni attori come i musulmani e le formazioni jihadiste. Come rispondi a queste critiche?
«Inizio dalla seconda parte della risposta. Il testo è sbilanciato verso persone esponenti di forze politiche lontane da quelle di estrazione religiosa (islamica). Un grosso peso è dato ai membri del Fronte Popolare mentre, più ancora che i membri del partito Ennahdha, nel testo compaiono esponenti di formazioni ispirate al cosiddetto ancien régime come il partito al Moubadara. Questo è dipeso da alcuni fattori. In primo luogo, i contatti che ho attivato in preparazione al campo facevano parte della sinistra tunisina, che a livello locale è quella che svolge maggiormente un lavoro di analisi delle problematiche. Inoltre, i membri del partito politico Ennahdha erano da me difficili da raggiungere, vuoi per una barriera linguistica più accentuata, vuoi perché alcuni di essi, precedentemente membri del partito RCD di Ben Ali, tendevano a non farsi vedere molto in giro nel tentativo di farsi dimenticare e riposizionarsi in seguito nello spazio pubblico. Il luogo di incontro principale per i fedeli musulmani legati a quel partito era inoltre la moschea, che non potevo frequentare. Detto questo, alcune delle persone che mi hanno maggiormente aiutato a comprendere la realtà locale erano membri di Ennahdha. Il lavoro del partito durante la campagna elettorale è avvenuto tuttavia molto sottotraccia. Tutto avveniva nelle case private mentre la sede del partito, che ho visitato più volte, non era un luogo di incontro particolarmente vissuto dai simpatizzanti. Avevo quindi in effetti meno dati sulle formazioni islamiche rispetto al livello di conoscenza che avevo raggiunto per altre formazioni.
Per quanto riguarda la prima parte della critica, posso dire che evitare o non realizzare un’analisi critica dell’Islam e del suo ruolo nella vita sociale tunisina non significa automaticamente produrre un’analisi “de-culturalizzata” del contesto tunisino. Credo di aver messo in luce alcune specifiche concezioni locali, come il riferimento ai legami personali e famigliari, le concezioni di disoccupazione e di lavoro nel settore pubblico, la carriera sociale che porta un adolescente maschio a diventare un uomo adulto riconosciuto in quanto tale o lo stesso concetto del volere di Dio, che sono analizzabili anche senza un riferimento all’Islam e al suo pensiero. L’analisi strutturale che ho condotto, ai miei occhi, si basa proprio su queste dimensioni culturali e dunque non può essere applicata ovunque – non in questi termini, quantomeno. Del resto, la stessa cosa si potrebbe dirla di qualunque grande prospettiva tra quelle che hanno fatto la storia della disciplina. Pensiamo allo strutturalismo lévi-straussiano, che è stato applicato sia tra i Bororo del Brasile che nei contesti alpini della Lombardia. In realtà, volevo proprio evitare di fornire un’interpretazione del contesto di ricerca che fosse schiacciata sull’equivalenza “cultura tunisina = Islam”. Il problema della rappresentazione dell’Altro corre sempre sul crinale tra il fornire descrizioni culturaliste o, di converso, il dipingere un quadro in cui sembra che non ci sia posto per la “cultura locale”. Per come io intendo la ricerca in antropologia e il suo approccio allo studio dell’altro, propendo per la prospettiva di Appadurai secondo il quale occorre abbandonare il sostantivo “cultura” per usarlo in funzione aggettivale. Questo ci consente di individuare le dimensioni culturali dell’agire e di fornirne un’analisi sintetica.
Rifiuto invece la critica di aver prodotto un’analisi destoricizzante del contesto di ricerca. Al contrario, sin dall’introduzione sottolineo due aspetti del lavoro che considero fondanti. Innanzitutto, cerco di considerare la storia lunga delle dinamiche che ho osservato sul campo, rintracciandone le origini in un periodo precedente all’esperienza coloniale, ad esempio quando analizzo il fenomeno tribale. In secondo luogo, cerco di interpretare gli eventi evitando di suddividere la storia in un pre- e post-Ben Ali, operazione tanto facile quanto fuorviante dal momento che le continuità tra i due periodi (e le fasi precedenti della storia tunisina) sono tanto evidenti quanto le differenze».
Rimanendo in tema di critiche, hai più volte ribadito l’importanza di Foucault e Bourdieu nelle tue analisi. Dal momento che un antropologo dovrebbe privarsi di ciò che Boas chiamava Kulturbrille, non c’è il rischio di avere condotto la tua ricerca con le “lenti culturali” del post-strutturalismo?
«Non credo che un antropologo debba (o possa) privarsi delle sue “lenti culturali” quando conduce una ricerca di campo, e non sono neppure completamente persuaso che Boas intendesse quello in riferimento al concetto da lui coniato di Kulturbrille. Interpreto la sua espressione come un richiamo a restare il più possibile coscienti del fatto che, essendo il ricercatore esso stesso un soggetto culturale, anche le idee preconcette dell’etnografo debbano essere messe in prospettiva e criticate da un punto di vista culturale tanto quanto le assunzioni locali circa la società e il modo in cui questa “funziona”. Questa doppia consapevolezza sul modo in cui ricercatore e locali pensano il mondo, e la messa in prospettiva delle differenze di pensiero, è ciò che apre alla possibilità di produrre conoscenza. In questo senso, nel testo ho cercato di rendere esplicite anche le mie assunzioni e i miei giudizi (talvolta moraleggianti) rispetto a ciò che vedevo e ciò che mi sarei aspettato di incontrare. Penso ad esempio al passaggio citato in apertura del capitolo “Margini” in cui descrivo la mia reazione alla vista di case senza finestre che si aprano sulla strada. L’aspetto più complesso del lavoro, da questo punto di vista, è stato (paradossalmente) cercare un modo per distanziarmi da assunzioni locali e interpretazioni del mondo che sentivo in qualche modo vicine alle mie, tant’è che un lettore italiano potrebbe trovare tra le pagine molti spunti per chiedersi: “Che differenza c’è con l’Italia?”. In molti casi, a parer mio, siamo davanti a quelle che Wittgenstein chiamava differenze e somiglianze di famiglia.
Dall’altro lato, il mio tentativo interpretativo è stato esattamente quello di applicare le lenti del post-strutturalismo al mio campo etnografico, non perché volessi aderire a una qualche moda più o meno passeggera ma perché ho reputato che una prospettiva che affondi le sue radici nel pensiero di Bourdieu e Foucault potesse aiutarmi a interpretare fruttuosamente una situazione di disuguaglianza tanto visibile agli occhi quanto complessa da rintracciare nei suoi aspetti più strutturali e di lunga durata. Io mi considero un antropologo geertziano e figlio della svolta interpretativa che, dagli anni Settanta del Novecento, ha iniziato a riflettere sulla cultura come invenzione, per dirla con Roy Wagner. Un’invenzione nel senso che noi non riportiamo mai in modo oggettivo “la cultura” che un certo gruppo di persone condivide, ma ne forniamo una rappresentazione sintetica alla luce della prospettiva teorica che abbiamo deciso di applicare ai dati di ricerca. La sfida che mi sono posto in sede di analisi dei dati e di scrittura è stata proprio quella di applicare al contesto del bacino minerario e, per estensione, tunisino, un paradigma teorico non pienamente sfruttato a dovere se non da alcuni grossi nomi dell’accademia francese (penso ad esempio a Béatrice Hibou, che si muove coi piedi ben piantati nella prospettiva foucaultiana). Un paradigma differente avrebbe senz’altro portato a un’analisi diversa».
Quale consiglio ti senti di dare a un giovane antropologo desideroso di intraprendere una ricerca etnografica nel Maghreb?
«Credo che una delle prime dimensioni che un giovane antropologo dovrebbe considerare, e lo dico con rammarico non essendoci riuscito, è quella linguistica. In Paesi come le Tunisia, l’identità linguistica costituisce un grosso problema postcoloniale che è stato molto dibattuto negli anni successivi alle rivolte del 2010-2011. La direzione sembra essere quella di un recupero dell’arabo tunisino e in second’ordine del classico come lingua delle istituzioni e come codice di comunicazione scritto, cosa che senza un adeguato bagaglio di conoscenze renderebbe la ricerca molto più complessa. Inoltre, per quanto lo stesso Bourdieu affermasse (non a torto) che non è necessario conoscere la lingua del posto per fornire una buona analisi di chi la parla, posso tuttavia affermare che lo switch fra arabo e francese, come si può intuire, non è affatto neutro. Le metafore utilizzate, il modo di descrivere la realtà e i riferimenti culturali cambiano nelle due lingue aprendo ad esempio al linguaggio religioso come via per interpretare gli eventi, molto meno presente quando si parla francese. Una competenza mista arabo-francese renderebbe sicuramente più ricchi i dati raccolti.
Consiglio inoltre di non interpretare tutto alla luce della prospettiva dei postcolonial studies: alcune delle dinamiche attualmente riscontrabili oggi nella sponda sud del Mediterraneo non sono riconducibili al periodo coloniale ma presentano una storia lunga che affonda le radici anche in epoca precoloniale. Io stesso ho cercato di mostrare questi collegamenti con un passato più lontano.
Un terzo consiglio può essere quello di sospendere il giudizio su concetti come quello di area culturale, che a parer mio sono fuorvianti perché impediscono di rintracciare dei fili che uno sguardo più disinteressato può cogliere. L’idea di area culturale, se applicata al Mediterraneo, ipotizza una serie di tratti comuni tra le due sponde del mare (l’importanza della famiglia e dei legami famigliari, ad esempio) che tuttavia nascondono altre dinamiche che rendono il Maghreb anche africano tanto quanto anche un’area perfettamente integrata nel mercato globale. Solo a titolo di esempio, le aspirazioni dei giovani adulti a essere considerati socialmente uomini e le loro difficoltà nell’ottenimento di quello status, come anche il richiamo nostalgico a passati riprodotti come epoche dorate, sono squisitamente africani. Allo stesso tempo, la condizione di subalternità di masse di sottoproletari che non trovano collocazione nel mercato formale è un problema globale».
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
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Antonio Messina è laureato in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali. Caporedattore della rivista internazionale di storia delle idee «Il Pensiero Storico», da lui fondata, è membro del comitato scientifico della rivista «La Razón histórica. Revista hispanoamericana de historia de las ideas políticas y sociales» e socio della «Società italiana per lo Studio della Storia Contemporanea» (SISSCO). I suoi principali interessi concernono la filosofia politica e la storia delle dottrine politiche, con particolare attenzione alla storia intellettuale del fascismo, del totalitarismo, del socialismo arabo e del populismo.
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