di Lina Novara
Nella Storia dell’Arte il «genere» del ritratto è uno dei filoni più radicati: dagli antichi Egizi all’età contemporanea il ritratto costituisce un mezzo per veicolare identità e simboli di potere, sia in ambito istituzionale che pubblico. Prima dell’avvento della fotografia, il ritratto costituiva lo strumento per raffigurare volti e figure, riproducendoli dal vivo o ricostruendone i tratti somatici a memoria o tramite preesistenti documenti figurati.
Quasi tutti i grandi maestri, soprattutto dal ‘400 in poi, si sono cimentati in questo «genere», con qualche eccezione: Michelangelo, ad esempio, non riprodusse effigie veritiere di personaggi viventi tranne che nel Giudizio Universale e con intenti denigratori, e Caravaggio usò il suo volto per personaggi mitologici e figure sacre. Una prerogativa del ritratto, che si è affermato in particolar modo in concomitanza con le fasi del naturalismo, è stata in passato la verosimiglianza fisionomica per cui l’artista aveva il compito di creare una copia speculare del soggetto o comunque rendere riconoscibile il personaggio, anche in relazione al suo carattere e alla sua personalità.
L’antico Egitto ci ha tramandato ritratti dalla fisionomia generica; la Grecia arcaica ci ha lasciato riproduzioni di tratti somatici idealizzati e solo con Lisippo, ritrattista di Alessandro Magno, si è affermato il ritratto fisiognomico, elemento determinante del sorgere della successiva ritrattistica romana che ebbe lo scopo di onorare e celebrare, con forte carica realistica, sia imperatori che gente comune.
Con il Cristianesimo, poi, l’astrazione e il simbolo prevalsero sulla verosimiglianza e determinarono l’affermarsi di un ritratto «tipologico» e non fisiognomico, provocando la decadenza del «genere» fino al Medioevo, periodo in cui le figure raramente sono individuate da tratti fisionomici: la raffigurazione fedele delle sembianze viene infatti superata dalla rappresentazione del rango sociale attraverso gli attributi. Sono la corona o lo scettro, simboli del potere, che consentono di identificare i regnanti; le armi araldiche identificano invece il casato.
Nell’incoronazione di Ruggero II (1130) da parte di Cristo, in un mosaico della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, per la prima volta si vede il volto del re normanno, anche se somigliante a quello di Cristo in quanto «imitatore del Cristo» in terra. Nel Duomo di Cefalù, per restare in ambito siciliano, il volto di Cristo, secondo la leggenda, riprodurrebbe le sembianze dello stesso Ruggero II il quale fece edificare l’edificio in seguito al voto, fatto al Santissimo Salvatore, per essere scampato ad una tempesta e approdato sulle spiagge della cittadina.
Probabilmente alla corte di Federico II si eseguivano ritratti e, fra le miniature del De arte venandi com avibus, scritto dallo stesso sovrano, si trovano due sue rappresentazioni: una lo presenta in maestà quale docente ai nobiles in atto di indicare le modalità di fruizione del trattato; la seconda, come autore dell’opera, frontale, rigido e ieratico, in abiti imperiali e con il falco [1]. Lo stupor mundi si identificò come l’erede degli imperatori romani, sia nei ritratti che nel titolo Imperator Romanorum Caesar Augustus, e affidò alla moneta detta Augustale, incisa da Balduino Pagano da Messina e coniata nel 1231, la diffusione del suo volto all’interno e all’esterno dei confini del Regno; essa reca infatti sul recto il busto laureato dell’imperatore con paludamentum e sul verso l’aquila imperiale con le ali spiegate.
Dopo questi pseudo-ritratti federiciani, la prima raffigurazione scultorea realistica, in Europa, di un personaggio vivente è quella del dispotico Carlo I d’Angiò, rappresentato da Arnolfo di Cambio nel 1277 in un’opera destinata a passare alla storia [2]: il sovrano è raffigurato in tutta la sua mortale fisicità, ma nello stesso tempo nell’atteggiamento di uomo di carattere forte e determinato, seduto in trono con in mano i simboli regali, corona e scettro. Il trono con protomi leonine è un’allusione a Luigi VIII, re di Francia, padre di Carlo, detto appunto il Leone. Particolarmente interessante è il volto nel quale lo scultore concentra gli sforzi per rendere il ritratto solenne, austero ma nello stesso tempo verosimile, curando i dettagli fisici come le rughe del viso. La squadratura dei tratti somatici e il sorprendente gioco di richiami alla maestosità romanica, l’alternarsi tra masse plastiche e superfici levigate fanno di quest’opera un ponte di congiungimento tra la classicità, data dalla forma, e la modernità dei contenuti.
Il Rinascimento segnò un punto di svolta nell’arte del ritratto per il rinnovato interesse verso il mondo classico e per l’attenzione all’uomo e alla natura. Diventò un genere autonomo e si diffuse presso le corti, le signorie, ma anche in ambito ecclesiale e presso la borghesia urbana. Agli inizi si preferì la posizione di profilo, derivata dallo studio delle monete antiche e considerata come espressione celebrativa e ufficiale.
Antonio di Puccio Pisano, meglio noto come Pisanello (ante 1395-1455 ca.), tra i maggiori esponenti del gotico internazionale in Italia, si dedicò con successo a studi dal vero di personaggi e animali, superati solo, sul finire del XV secolo, da quelli di Leonardo da Vinci, e raggiunse nell’arco della sua carriera artistica vertici altissimi nell’attività di medaglista, ristabilendo la tradizione di effigiare personaggi viventi come nelle monete imperiali romane. Nel 1441 esegue il Ritratto di Lionello d’Este (Accademia di Carrara, Bergamo) in seguito ad una contesa artistica con Jacopo Bellini, voluta da Niccolò III d’Este e per la quale il figlio Lionello si offrì di posare come modello. Secondo la testimonianza di un sonetto attribuito ad Ulisse Aleotti, ne uscì vincitore Bellini, ma Pisanello ebbe una giusta ricompensa alla corte di Ferrara [3]: Lionello gli fece infatti realizzare ben sei medaglie celebrative. Il duca è raffigurato di profilo e ha un impianto araldico, ripreso dall’ideologia classica e dalle medaglie, con un’acuta individuazione fisionomica dotata però anche di una certa idealizzazione[4].
Nel profilo si cimenta anche Piero Della Francesca per raffigurare in un dittico Battista Sforza e Federico da Montefeltro (1465-1472, Galleria degli Uffizi, Firenze), senza tralasciare però la ricerca plastica dei volumi e l’impostazione prospettica: come nelle medaglie i due volti sono solennemente immobili, ma immersi in una luce chiarissima, davanti ad un lontano paesaggio [5]. La duchessa e il duca di Urbino sono descritti nei loro lineamenti alquanto irregolari e non belli. Piero della Francesca nel ritrarre il duca è obbligato a rappresentarlo di profilo perché durante un torneo, intorno al 1450, la lancia del contendente aveva perforato la visiera dell’elmo, colpendo la sommità nasale e l’occhio destro del duca: da allora fu guercio e i ritrattisti dovettero sempre ricorrere al profilo sinistro, in modo da proporre a chi lo guardava solo il lato «buono» del viso. La leggenda narra che Federico avesse affermato: «pazienza, ci vedrò meglio con un occhio che con cento!» e che avesse preso la decisione di farsi tagliare la parte superiore del naso per non ostacolare la vista dell’occhio sinistro: un’operazione di chirurgia plastica ante litteram tramite la quale il naso del duca fu sapientemente «limato». Questa supposizione è stata però screditata da studi condotti negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, che hanno attribuito ad un unico colpo di lancia la responsabilità sia della perdita dell’occhio, sia della rottura del naso.
A Battista Sforza lo scultore Francesco Laurana nel 1472 dedica un ritratto marmoreo nel quale la signora di Urbino è trasformata e stilizzata in modo volumetrico [6]: il volto appare stilizzato sia nell’espressione che nei lineamenti, quasi fosse semplificato in modo geometrico. La fama del Laurana che ebbe un ruolo di primo piano nella diffusione dell’estetica rinascimentale a Napoli, in Sicilia e in Francia, è soprattutto legata alla rarefatta bellezza dei suoi busti femminili, dalle forme estremamente pure e levigate che ricordano le opere di Piero della Francesca e Antonello da Messina.
Tra i più noti, il Ritratto di Eleonora d’Aragona (1490 ca. Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo), una delle donne più potenti dell’Isola, padrona delle contee di Caltanissetta, Calatafimi, Contessa, Comicchio, Sambuca, Giuliana [7]. Il busto proviene dal monumento funebre di Eleonora, situato nell’abbazia di Santa Maria del Bosco a Calatamauro: si tratta di un ritratto postumo. Nipote del re di Sicilia Federico III d’Aragona e della regina Eleonora d’Angiò, sposò Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta. Alla morte della regina Maria di Sicilia nel 1402, cui succedette il marito Martino I di Aragona, Eleonora vantava diritti al trono maggiori di lui. La contessa morì nel 1405 a quasi 60 anni, età avanzata per l’epoca: nel suo testamento aveva nominato erede universale il prediletto nipote naturale Raimondetto Peralta. E anche questa scelta risultò non gradita agli altri parenti. Nel ritratto, più che l’umanità del personaggio, Laurana ha voluto celebrare il potere e la figura aristocratica, rendendo anche l’espressione impenetrabile e distaccata attraverso l’astrazione geometrica che la caratterizza. Da notare la fronte bombata e i capelli tirati indietro e fermati da una cuffia che copre le orecchie e lascia libero il collo. La ricerca di geometria fa risaltare i volumi regolari della testa, del collo e del busto. Il marmo è trattato con superfici accuratamente levigate attraverso un modellato continuo che non dà spazio a rilievi molto accentuati e tende ad annullare i chiaroscuri troppo evidenti.
Dall’inizio del XV secolo sono i pittori fiamminghi ad insegnare all’Europa l’arte del ritratto come opera autonoma su tavola, sostituendo alla posa di profilo quella di tre quarti, ampliando la visione della figura intera e infondendo ai soggetti una eccezionale vitalità per l’elevata verosimiglianza e l’attenzione estrema alla cura analitica dei particolari fisiognomici. Sono effigi dei potenti che si affrancano dalle composizioni religiose, occupano da soli l’intero spazio del dipinto ed assumono un inedito carattere di persone «reali» e credibili.
Fu Jan van Eyck ad introdurre la visione di tre quarti che favoriva l’indagine psicologica del personaggio, ponendolo in un più diretto contatto con l’osservatore. Particolarmente attratto dai modi fiamminghi fu Antonello da Messina (1430- 1479) che ebbe modo di apprezzarli a Napoli, presso la bottega del Colantonio, attraverso le opere provenienti dalle Fiandre. Antonello trasse sicuramente dai fiamminghi l’uso della pittura ad olio, ma anche quello di collocare il ritratto di tre quarti entro uno spazio scuro: i suoi dipinti traggono spunti anche dal ritratto toscano, scolpito a mezzo busto e, a differenza delle opere fiamminghe, presentano una salda impostazione volumetrica della figura con semplificazioni dello stile «epidermico» dei fiamminghi, che permise al pittore di concentrarsi sugli aspetti fisiognomici individuali e sulla componente psicologica.
Presso il Museo Mandralisca di Cefalù è custodito il cosiddetto Ritratto d’ignoto marinaio, attribuito ad Antonello da Giovan Battista Cavalcaselle, durante una perizia fatta nel 1860 [8]. È un piccolo dipinto ad olio su tavola, databile tra il 1460 e il 1476 e, secondo la tradizione storiografica, è un dono ricevuto dal barone filantropo Pirajno di Mandralisca, durante uno dei suoi viaggi a Lipari [9]. Si tratta del secondo sorriso più famoso al mondo, dopo quello della Gioconda: un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, come se dietro quell’espressione ci fosse un mondo interiore da esplorare. Un sorriso quasi beffardo! Una tavola misteriosa che custodisce ancora oggi segreti e che in parte sono stati svelati in un recente studio di Sandro e Salvatore Varzi e Alessandro Dell’Aira, i quali sostengono che il volto dipinto non è di un marinaio di Lipari ma di un potente vescovo-ambasciatore, Francesco Vitale, di origini pugliesi, che resse la diocesi di Cefalù dal 1484 fino alla morte avvenuta nel 1492 e che fu precettore di Ferdinando II d’Aragona, re di Spagna e di Sicilia [10]: ad attestarlo sarebbe un sigillo con emblema vescovile, posto sul retro della tavola.
Quasi tutti i più grandi maestri nel ‘500 si dedicarono al ritratto, Leonardo, Tiziano, Raffaello. Leonardo nei ritratti si interessò soprattutto dei legami tra le fisionomie e i «moti dell’animo», cioè degli aspetti psicologici e delle qualità morali che faceva trasparire dalle caratteristiche esteriori. La Gioconda, il ritratto più famoso del mondo, va ben oltre i limiti tradizionali del genere ritrattistico. Charles de Tolnay, a tal proposito, così scrive nel 1951:
«[…] il ritratto, superati i limiti sociali, acquisisce un valore universale. Leonardo ha lavorato a quest’opera sia come ricercatore e pensatore sia come pittore e poeta; e tuttavia il lato filosofico-scientifico restò senza seguito. Ma l’aspetto formale – l’impaginazione nuova, la nobiltà dell’atteggiamento e la dignità del modello che ne deriva – ebbe un’azione risolutiva sul ritratto fiorentino delle due decadi successive. […] Leonardo ha creato con la Gioconda una formula nuova, più monumentale e al tempo stesso più animata, più concreta, e tuttavia più poetica di quella dei suoi predecessori. Prima di lui, nei ritratti manca il mistero; gli artisti non hanno raffigurato che forme esteriori senza l’anima o, quando hanno caratterizzato l’anima stessa, essa cercava di giungere allo spettatore mediante gesti, oggetti simbolici, scritte. Solo nella Gioconda emana un enigma: l’anima è presente, ma inaccessibile» (Charles de Tolnay, 1951) [11].
In ambito veneto con Giorgione si affermò un’interpretazione allegorica dei soggetti rappresentati, legati ad una committenza colta e aristocratica: i suoi ritratti sono caratterizzati da un intimismo e una dolcezza particolari. Il Doppio ritratto (1502-1505; Museo Nazionale di Palazzo Venezia, Roma) che gli viene attribuito, è un tema nuovo in Italia [12]: vi sono ritratti due giovani, rimasti ignoti, uno in primo piano, l’altro retrocesso. Entrambi sono rivolti verso lo spettatore, rispettivamente con una posa frontale ed una leggermente ruotata verso sinistra. La figura in secondo piano appare più ambigua: lo sguardo è indagatore, enigmatico e l’espressione più cinica, in palese opposizione al protagonista in primo piano che è languido e pensieroso. L’attimo di desolata riflessione dei personaggi è sottolineato dalle tinte scure e dalle vesti nere. L’intonazione malinconica dell’opera ha, infatti, fatto pensare ad un legame con le discussioni sull’amore degli Asolani di Pietro Bembo, pubblicato nel 1505. Il melangolo che il giovane in primo piano tiene in mano, fra l’altro, per la sua natura dolce e amara, è simbolo d’amore e sta a significare la natura malinconica dei suoi pensieri.
All’intimismo di Giorgione, Tiziano contrappone la vitalità, la forza di movimento, l’immediatezza espressiva, attraverso l’uso personalissimo del colore steso a toni. Il cosiddetto Ariosto, la Schiavona e soprattuitto Gentiluomo con un libro vennero eseguiti con uno stile vicino a quello di Giorgione ma evitando la dolcezza modulata del collega e creando figure vive e pulsanti di umanità[13].
Raffaello nei primi ritratti segue la tradizione dell’encomio pittorico fiorentino, caratterizzato da ricchezza di particolari minuziosi e rivolto ad evidenziare lo status sociale, come nei ritratti di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi (1506, Galleria Palatina, Firenze); successivamente si spingerà verso una più attenta ricerca di penetrazione psicologica, sul modello di quelli leonardeschi. I risultati di questa evoluzione si possono notare nei ritratti del periodo romano, come quello del papa Giulio II, che lo renderanno celebre e, al pari di Tiziano, verrà considerato l’inventore del «ritratto ufficiale di Stato».
A Tiziano e Raffaello si ispireranno i pittori manieristi con i quali il ritratto diventa espressione della classe aristocratica, perdendo i connotati veristici a vantaggio di una bellezza rarefatta, irreale: pose raffinate, splendidi abiti e gioielli, a scapito però della caratterizzazione psicologica del personaggio.
I ritratti di Angelo Tori, meglio noto come il Bronzino, sono rigorosi, idealizzati, analitici nei particolari, distaccati dai personaggi: egli non esprime le doti umane quanto la posizione sociale. Il ritratto di Laura Battiferri, poetessa e moglie dello scultore Bartolomeo Ammannati, è uno dei più celebri eseguiti da Bronzino, legato alla donna da una profonda amicizia [14]. Laura è ritratta di profilo, in una posa che ricorda la medaglistica, mentre tiene tra le mani un libro di sonetti petrarcheschi [15]: si tratta di un’allusione alla sua passione per la poesia, ma anche al suo stesso nome Laura come la donna amata da Petrarca. Nello stesso tempo c’è un rimando all’amore platonico tra lei e il Bronzino. Anche il profilo, con il naso aquilino, rimanda alla poesia in quanto ricorda quello di Dante Alighieri.
Del Bronzino non si può non ricordare il ritratto di Eleonora da Toledo con il figlio (1545, Galleria degli Uffizi, Firenze), la bellissima duchessa di Firenze, moglie di Cosimo I dei Medici: un vero e proprio manifesto della rarefatta arte di corte al tempo di Cosimo ed uno degli esempi più emblematici della ritrattistica del Cinquecento italiano, un ritratto ufficiale che rispecchia l’ideale cinquecentesco di potere assoluto.
L’idealizzazione umanistica dei soggetti non voleva però dire ritratto «abbellito»: anche i difetti fisici acquistavano la propria dignità all’interno di una raffigurazione formalmente perfetta, come il naso deformato nel Ritratto di nonno e nipote di Domenico Ghirlandaio, o lo strabismo nel Ritratto di Tommaso (Fedra) Inghirami di Raffaello, oppure La madre malata del tedesco Albrecht Dürer.
Durante il periodo barocco e rococò l’arte del ritratto ebbe un’enfasi ancora maggiore, come immagine dell’opulenza carica dei simboli del potere e della ricchezza. I fiamminghi Anthony van Dyck e Pter Rubens furono tra gli artisti più richiesti per questo genere di opere. Nel suo fecondissimo periodo italiano, tra Venezia, Roma e Palermo, per Van Dyck (1599-1641) fu decisivo il contatto diretto con le opere di Tiziano al quale si ispirò dichiaratamente. Nell’aprile 1624 Emanuele Filiberto di Savoia, viceré di Sicilia, per conto del re di Spagna Filippo IV, invitò Van Dyck a Palermo perché gli facesse un ritratto. Il pittore accolse l’invito e si trasferì in Sicilia dove ritrasse il viceré poco prima che la città fosse colpita da una terribile pestilenza che uccise lo stesso Emanuele Filiberto. Malgrado l’infuriare dell’epidemia Van Dyck rimase in città all’incirca fino al settembre 1624. In Sicilia eseguì sicuramente i ritratti di: Desiderio Segno (The Princely Collections of Liechtenstein, Vaduz), Emanuele Filiberto (Dulwich Picture Gallery, Londra) e della pittrice Sofonisba Anguissola (British Museum, Londra), conosciuta ormai novantenne e che sarebbe morta l’anno seguente. Durante l’incontro, descritto dal giovane Van Dyck nel suo Taccuino italiano come «cortesissimo», l’anziana donna, quasi completamente cieca, diede preziosi consigli ed avvertimenti al pittore, oltre a raccontargli episodi della sua vita [16]. Van Dyck nel Taccuino appunta anche che l’anziana pittrice gli avesse raccomandato, con ancora un pizzico di civetteria, di non ritrarla troppo dall’alto «a ciò che le ombre nelle rughe della vecchiaia non diventassero troppo grandi»[17].
Con i suoi eleganti modi Van Dyck influenzò i ritrattisti inglesi e fu universalmente noto per i ritratti della nobiltà genovese, di Carlo I d’Inghilterra, dei membri della sua famiglia e della sua corte [18]. Il Triplo ritratto di Carlo I (1635), in tre posizioni, rappresenta una eccezione nella sua ricca produzione: lo scopo principale non fu di ritrarre il re per celebrare la potenza della monarchia o esaltarne la figura ma quello di inviare al Bernini, che doveva eseguire a Roma un busto del sovrano, un suo ritratto. Van Dyck, per facilitare e rendere più preciso il lavoro di Bernini, ritrasse il re in tre posizioni, facendone un quadro molto ammirato ed ora conservato nel castello di Windsor: il busto di Bernini invece andò distrutto in seguito ad un incendio.
Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) con il busto di Scipione Borghese (1632) nell’atto di conversare, fu tra i primi a produrre una «istantanea» di un soggetto in azione. All’età di 56 anni il cardinale Borghese commissionò al giovane Bernini il suo busto-ritratto [19]. Poiché, durante il lavoro, il marmo mostrò un difetto, l’ignaro cardinale fu invitato a non posare per qualche giorno, non sapendo che la pausa era necessaria al Bernini per replicare il busto in quindici nottate [20]. L’episodio, che circolò in seguito, servì ad incrementare il mito della sua bravura e velocità d’esecuzione.
Il ritratto di Scipione segnò un cambiamento stilistico e formale nella produzione berniniana di busti, per la volumetria più essenziale, la resa psicologica più approfondita e la maggiore forza espressiva, che davano vita ad un «ritratto parlante». Come Rubens e Van Dyck, nella ritrattistica del ‘600, Bernini inventò il motivo del colloquio con l’osservatore, cosicché il cardinale, seppure rappresentato secondo i canoni dell’ufficialità, acquistò nel ritratto una dimensione intima.
La straordinaria capacità inventiva di Diego Velazquez ha prodotto un’opera di mirabile realismo, Las Meninas (1656, Museo del Prado, Madrid) che Luca Giordano definì «la teologia della pittura»[21]. Vi è raffigurata l’Infanta Margarita, figlia di Filippo IV e Marianna d’Austria, fra le damigelle, la nana ed il suo mastino, oltre ad altri membri della corte spagnola. Velázquez si trova di fronte al suo cavalletto. L’originalità del quadro è nel ribaltamento del punto di vista. Nei ritratti ciò che in genere vediamo è l’immagine dal punto di vista di chi dipinge: in questo caso vediamo l’immagine vista da chi è dipinto, ossia le figure in posa, come se fossero loro a realizzare il quadro e non viceversa. Il re, messa a disposizione del pittore una sala dell’Alcazar di Madrid, soleva spesso assistere al lavoro dell’artista, sia perché amante dell’arte, sia per vera amicizia nei confronti di Velazquez.
Nel secolo XVIII il gusto rococò preferì una decorazione ricca e intricata, con attenzione ai dettagli e alla resa materica dei tessuti. I ritratti di questo periodo si caratterizzarono per una resa ancora maggiore della ricchezza e prestigio dei soggetti.
Hyacinthe Rigaud (1659-1743) fu il più importante ritrattista della corte di Luigi XIV: la sua bravura nel realizzare pose imponenti e grandiose rappresentazioni affascinava la famiglia reale, gli ambasciatori, gli uomini di Chiesa, i cortigiani e i grandi uomini d’affari che ambivano posare per lui. I suoi ritratti sono oggi molto apprezzati come fonte per la storia del costume e della moda, poiché, oltre alla somiglianza fisiognomica, rendono al meglio i dettagli degli abiti e dell’arredamento. L’opera più celebre di Rigaud è il ritratto ufficiale del re Luigi XIV (1701, Museo del Louvre, Parigi) [22].
Elisabeth-Louise Vigée-Le Brun è invece la pittrice della bella regina Maria Antonietta che dai fasti di corte passerà presto alla ghigliottina [23]. Jacques-Louis David con una sola linea ha fissato su un semplice foglio il volto della regina avviata al patibolo: è uno schizzo estemporaneo, grandioso e terribile, attinto con indicibile energia direttamente dalla realtà (1793, Museo del Louvre, Parigi) [24]. Vediamo una donna non più bella, invecchiata, ma ancora superba: siede su quella carretta infame, con le mani legate sul dorso, eretta come se la dolorosa figura avesse acquisito una nuova e terribile maestà su un trono [25]. L’espressione del volto esprime disprezzo, sfida, ancora energia; il tronco proteso denota l’incrollabile fermezza.
Alla fine del XVIII secolo si diffuse la nuova sensibilità neoclassica che preferì le tonalità chiare, le luci cristalline, la semplificazione delle linee e dei tratti somatici. Artista di spicco di questo periodo fu Antonio Canova che con il ritratto marmoreo di Paolina Bonaparte (Galleria Borghese, Roma), in levigatissime forme, raggiunse l’apice dello stile neoclassico: lo creò tra il 1805 e il 1808 trasformando la persona storica in divinità antica, in un atteggiamento di classica quiete e di nobile semplicità [26]. L’opera suscitò rapidamente molto scalpore a causa dell’eccessiva sensualità di Paolina. Si tramanda che il marito le avesse detto «Come! Avete posato così nuda davanti al Canova?» e che lei avesse risposto «Ma la stanza era ben riscaldata!». Il dibattito è tuttavia ancora aperto per stabilire se Paolina abbia effettivamente posato nuda, oppure sia stato il Canova a non scolpire le vesti durante la realizzazione.
In età romantica gli artisti, con pennellate forti e drammatiche, puntarono ad un’accentuazione espressiva dei soggetti. Ebbe ampia diffusione anche il ritratto di soggetti comuni, non committenti dell’opera, che creavano composizioni di soggetto popolare e pittoresco, come la serie di malati mentali di Théodore Géricault (1822-1824).
Grazie a Francesco Hayez (1791-1882) conosciamo molti protagonisti della storia e della letteratura italiana: Cavour, Mazzini, Manzoni… dai cui tratti fisionomici risalta anche la personalità. All’indomani dell’Unità d’Italia, al fine di «fare gli Italiani», in tutta la penisola fu attuato un programma celebrativo dei tre «simboli» dell’Unità – Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele II – e tutte le città italiane si attivarono, in tempi e modi diversi, per realizzare busti e monumenti urbani, rispondenti a modelli iconografici predefiniti.
Vincenzo Vela (1820-1891), impegnato come patriota e come artista, diventa il «Cantore dell’Unità d’Italia» e a lui si rivolgono città come Milano, Roma e Torino per celebrare i Padri del Risorgimento [27]. Anche la Provincia di Trapani, subito dopo la sua istituzione, si rivolge a Vela per celebrare i tre «simboli» dell’Unità con dei busti da collocare nella sala consiliare, allora ubicata nell’ex collegio Gesuitico, ora esposti al Museo regionale Agostino Pepoli. Le tre opere sorprendono per qualità e raffinatezza dei dettagli, come l’effetto serico della fascia diagonale sul petto di Cavour, la morbidezza della giubba di Garibaldi, il collo di pelliccia, le medaglie e le decorazioni di Vittorio Emanuele II, tra cui il collare della Santissima Annunziata [28].
Il 7 gennaio 1839 lo studioso e uomo politico François Jean Dominique Arago, eletto deputato nel 1830, all’Accademia di Francia dà l’annuncio ufficiale della nascita della fotografia! [29] La moda del ritratto fotografico si sviluppa rapidamente e ne usufruiscono tutti i ceti sociali, grazie all’economicità del procedimento. Si temette l’abbandono della pittura o una drastica riduzione della sua pratica. Questo non avvenne. La nascita della fotografia favorì e influenzò il sorgere di importanti movimenti pittorici tra cui l’Impressionismo, il Cubismo, il Futurismo… Ma questo è un altro capitolo della Storia dell’Arte …!
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus, a cura di Anna Laura Trombetti Budriesi, Laterza, Roma-Bari 2007 (prima edizione originale 1260).
[2] Romanini A. M., Arnolfo di Cambio, Sansoni, Firenze 1980; Carli E., Arnolfo, Firenze 1993; Previtali G., Studi sulla scultura gotica in Italia, Eianudi, Torino 1991; Scalini M. (a cura di), Augusta fragmenta. Vitalità dei materiali dell’antico da Arnolfo di Cambio a Botticelli a Giambologna, Sivana ed., Milano 2008.
[3] Il sonetto XI, contenuto nel Codice Estense III D.22, e attribuito a Ulisse Aleotti, si riferisce alla gara tra Pisanello e Bellini. Si veda: Venturi A., Jacopo Bellini, Pisanello und Mantegnain in den sonetten des Dichters Ulisse, in «Der Kunstfreund», XIX (1885): 289-292. Idem, Pisanello a Ferrara, in «Archivio veneto», XXX (1885): 411-414.
[4] AA.VV., L’opera completa di Pisanello, Rizzoli, Milano 1966; Frosinini C. – Rodeschini M.C. (a cura di), Il ritratto di Leonello d’Este del Pisanello, Edifir, Firenze, 2016.
[5] Battisti E., Piero della Francesca, L’opera completa, n.e. (tomi 2), Electa, Milano 1992; Allegretti P., Piero della Francesca, coll. «I classici dell’arte», Rizzoli, Milano 2003: 148-155; Laskowski B., Piero della Francesca, coll. «Maestri dell’arte italiana», Rizzoli, Milano 2007; Blasio S. (a cura di), Marche e Toscana, terre di grandi maestri tra Quattro e Seicento, Banca Toscana, Firenze 2007.
[6] Damianaki C., I busti femminili di Francesco Laurana, Cierre ed., Sommacampagna 2008.
[7] Patera B., Francesco Laurana in Sicilia, Novecento ed., Palermo 1992.
[8] G.B. Cavalcaselle, Storia della pittura in Italia dal sec. II al sec. XVI, I-VIII, Firenze 1875-1898; ediz. riveduta 1866-1908.
[9] La tavola misura 31×24,5 cm.
[10] Varzi Sal. - Varzi San. - Dell’Aira A., Sfidando l’ignoto. Antonello e l’enigma di Cefalù, Torri del Vento, Palermo 2017; Consolo V., Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano 2004.
[11] De Tolnay C., Remarques sur la Joconde, in «Revue des Arts», 1951; Baroni C., Tutta la pittura di Leonardo, Rizzoli, Milano 1952.
[12] Ballarin A., Giorgione e la Compagnia degli Amici: il “Doppio ritratto” Ludovisi, in «Storia dell’arte italiana», parte II, a cura di F. Zeri, vol. V, Einaudi, Torino 1983.
[13] Giorgio Vasari ammise di essere stato tratto in inganno dalle opere di Tiziano, rafforzando l’ipotesi di un «alunnato» di questi presso Giorgione (Vasari G., Descrizione dell’opere di Tiziano da Cador pittore, in «Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri», Parte terza, vol. II, Firenze, 1568:155).
[14] Girardi E. N., Battiferri, Laura, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 7, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma, 1970, ad vocem.
[15] Tantirli G., Il Bronzino poeta e il ritratto di Laura Battiferri, in L. S. La parola e l’immagine: studi in onore di Gianni Venturi», Olscki Biblioteca dell’Archivium romanicum, Serie I, Storia, letteratura, paleografia, Firenze 2011: 357 sgg.
[16] Nel corso della sua permanenza in Italia (1621-1627) il pittore realizza il cosiddetto Italian sketchbook, conservato al British Museum di Londra, un taccuino formato da centoventuno fogli, contenente appunti, riflessioni, disegni, per la maggior parte eseguiti a penna e bistro, copie tratte da opere di artisti italiani del XVI secolo.
[17] Van Dyck nel Taccuino scrisse dell’incontro con Sofonisba Anguissola: «Mentre le facevo il ritratto mi diede molti spunti, come quello di non prendere la luce troppo dall’alto, altrimenti l’ombra delle rughe della vecchiaia diventa troppo forte, e molti altri buoni consigli, mentre mi raccontava episodi della sua vita [...]».
[18] Larsen E., L’opera completa di Van Dyck 1626-1641, voll. 2, Rizzoli, Milano 1980; Bodart D., Van Dyck, Giunti, Prato 1997.
[19] Un documento dell’8 gennaio 1633, conservato presso l’Archivio di Stato di Modena, riporta che su commissione del Pontefice, Bernini realizzò un busto in marmo del Cardinale Borghese, per il quale fu pagato con 500 zecchini e con un diamante del valore di 150 scudi. Una lettera di Fulvio Testi, indirizzata il 29 gennaio 1633 al conte Francesco Fontana riferisce che il busto costò 1.000 scudi, e che la persona rappresentata era viva. Un altro documento di Lelio Guidiccioni, datato 4 giugno 1633, accredita ulteriormente la datazione dell’opera all’anno 1632. Negli archivi di Villa Borghese è conservata una ricevuta di pagamento di 500 scudi al Bernini.
[20] Pinton D., Bernini. I percorsi dell’arte, ATS Italia, Roma 2009: 22. Secondo la testimonianza di Filippo Baldinucci (Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua …, voll. 6, Firenze 1681-1728, Roma 1976), l’impresa occupò quindici notti di indefesso lavoro, mentre il figlio di Bernini, Domenico (Vita del Cavalier Gio. Lorenzo Bernini, Roma 1713), sostiene che il nuovo busto fu completato in appena tre giorni.
[21] White J. M., Diego Velazquez: painter and courtier, New Haven, London 1969; Carminati M., Las Meninas di Velázquez, 24ore Cultura ed., Milano 2011. Il dipinto, considerato una costruzione perfetta, è stato fonte di ispirazione per Pablo Picasso, Salvador D’Ali e John Singer Sargent.
[22] Perreau S., Hyacinthe Rigaud, Catalogue concis de l’oeuvre, Le peintre des rois, Montpellier, 2013.
[23] Baillio J. – Salmon X. et alias, Elisabeth Louise Vigée Le Brun, Encyclopediae Universalis, Paris 2015.
[24] David eseguì il ritratto da un balcone di un palazzo del ’600, posto all’angolo tra Rue Saint-Honorè e Rue des Prouvaires. Il palazzo è stato fotografato nel 1912 da Eugène Atget.
[25] Castelot A., Maria Antonietta. La vera storia di una regina incompresa, Fabbri ed., Milano 2000; Lee S., David, Phaidon, Londra 1999; Pinelli A., David, Elèuthera, Milano 2004.
[26] Canova e la Venere vincitrice, catalogo della mostra, a cura di Anna Coliva e Fernando Mazzocca, Roma, Galleria Borghese, 18 ottobre 2007 – 10 febbraio 2008, Milano 2007.
[27] Lissoni E., Vincenzo Vela, Milano 2010.
[28] Scandariato D., La scultura celebrativa del secondo Ottocento nelle collezioni del Museo Pepoli, in «Unita nelle Arti. Dai Mille ai Padri del Risorgimento», Trapani 2011: 9-11.
[29] Gunter A., Poivert M., Storia della fotografia, Mondadori Electa, Milano 2008.
Lina Novara, laureata in Lettere Classiche, già docente di Storia dell’Arte, si è sempre dedicata all’attività di studio e di ricerca sul patrimonio artistico e culturale siciliano, impegnandosi nell’opera di divulgazione, promozione e salvaguardia. È autrice di volumi, saggi e articoli riguardanti la Storia dell’arte e il collezionismo in Sicilia; ha curato il coordinamento scientifico di pubblicazioni e mostre ed è intervenuta con relazioni e comunicazioni in numerosi seminari e convegni. Ha collaborato con la Provincia Regionale di Trapani, come esperto esterno, per la stesura di testi e la promozione delle risorse culturali e turistiche del territorio. Dal 2009 presiede l’Associazione Amici del Museo Pepoli della quale è socio fondatore.
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