di Sergio Todesco
Negli anni ’90, ancora direttore della Sezione per i Beni Etno-antropologici presso la Soprintendenza di Messina, ho avviato un progetto riguardante il censimento e l’eventuale recupero e valorizzazione dei corpora di tutti i fotografi che a vario titolo, da professionisti o come amatori evoluti, avessero documentato la vita e la cultura delle comunità di paese in provincia di Messina nella prima metà del secolo scorso. L’iniziativa consentì nel giro di qualche anno l’individuazione, nel territorio della provincia, di almeno dieci fotografi che avevano lasciato tracce del proprio lavoro, ma alcuni indizi raccolti presso numerosi paesi lasciavano presumere che tale produzione fosse stata nel passato oltremodo ampia e di tutto rispetto, quantitativamente e qualitativamente.
L’indagine mostrò infatti come in molti centri si fosse venuta affermando, a cavallo tra i secoli XIX e XX, la figura sociale del fotografo di paese come artigiano cui venisse demandato, da parte della comunità, il compito di fissare sulla lastra i momenti salienti della vita paesana. Tali personaggi, provenienti in genere dalla piccola e media borghesia (con alcune significative eccezioni) si presentavano come individui organicamente inseriti nella propria comunità ma al contempo in possesso di un’attitudine a riflettere, con atteggiamento più o meno distaccato, sui tratti culturali che la comunità stessa esprimeva.
La pratica professionale era insomma per questi fotografi il frutto di una progettualità lavorativa, in alcuni casi maturata a seguito di un’esperienza fatta all’estero, che nel tentativo di oggettivare in qualche misura il rapporto con la propria utenza li poneva di fatto nella particolarissima condizione di “osservatori partecipanti” in grado di dispiegare “sguardi da lontano”, condizione assimilabile, seppure allo stadio aurorale, a quella dell’etnografo.
Tale atteggiamento, documentabile attraverso una ricostruzione dei contesti condotta sul filo della memoria orale ancora disponibile nei diversi paesi, aveva ad esempio contraddistinto il lavoro fotografico di Andrea Algerì, operante a Militello Rosmarino dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1923, e di Angelino Patti, attivo a Tusa dal 1925 circa fino alla fine degli anni ’50.
Del primo fotografo venne promosso il recupero parziale delle lastre, 190 su un corpus complessivo di circa 10 mila, delle quali gli eredi del fotografo, in anni passati, si erano disfatti gettando in un burrone (sic) la grande cassa che le conteneva. Del secondo fu possibile esaminare alcune centinaia di lastre e ricostruirne la contestualizzazione attraverso la preziosa testimonianza della figlia del fotografo, Mariannina Patti, a quel tempo ancora vivente e lucida nonostante l’età. Tale attività di studio e di lavoro sul campo produsse i due volumi Fotografi di Paese, del 1995, contenente immagini di Algerì, di Patti e del folklorista di San Fratello Benedetto Rubino, e Angelino Patti. Fotografo in Tusa, del 1999, interamente dedicato al corpus del fotografo tusano, con circa 250 immagini sulle 10 mila lastre complessive che lo componevano.
Numerose iniziative volte a valorizzare quest’ultimo patrimonio attraverso uno specifico progetto museale, condotte nell’arco di molti anni, non hanno purtroppo potuto avere un esito a causa dell’incomprensibile indisponibilità dell’attuale detentore delle lastre ad alienare o mettere a disposizione del Comune le stesse ai fini di una loro pubblica fruizione.
Assai più feconda si è rivelata l’iniziativa di tutela condotta sull’imponente fondo fotografico di Mons. Calogero Franchina di Tortorici, un sacerdote dalla forte personalità, colto e poliedrico, e in grado di competere per acutezza di sguardo con quei fotografi come Incorpora, Interguglielmi, Crupi, Brogi etc., che a cavallo dei secoli XIX e XX documentavano nei loro più prestigiosi atelier la vita e la cultura siciliana.
Al fine di promuovere la valorizzazione di questo patrimonio, che consiste di ca. 38 mila negativi in lastre di vetro di diversi formati, documentanti luoghi, realtà, persone, eventi dalla fine del XIX secolo fino alla metà del XX, di ca. 2 mila pellicole, comprendenti un periodo che va dagli anni ’40 al 1980 e di altrettante foto, parecchie delle quali ritoccate e dipinte a mano, e anche di materiali a stampa, apparecchi fotografici, manuali, riviste e cataloghi d’epoca sulla fotografia, foto d’epoca e cimeli di studio, tutti complessivamente connessi all’opera del fotografo e della nipote Marietta Letizia, giungendo dunque a documentare quasi un secolo di storia, nel 2002 ho curato la pratica di vincolo del fondo, transitato dopo la morte della nipote a un erede, riconoscendone il rilevante interesse ai sensi del T.U. sui Beni Culturali di cui al D. Lgs. 29.10.1999 n. 490 – in particolare all’art. 2, in cui vengono altresì individuate come Categorie di beni culturali «le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, o demo-etno-antropologico», comprendendo in tale categoria di beni (…) «le fotografie con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico» – quale singolare testimonianza di un’attività e di una produzione che hanno concorso potentemente a delineare l’identità di Tortorici, costituendo per il paese un vero e proprio serbatoio della sua memoria storica e territoriale.
In dipendenza del dispositivo di tutela, ho poi ritenuto opportuno incoraggiare e supportare la scelta di recupero e di valorizzazione del fondo manifestata dalla locale Amministrazione comunale attraverso l’acquisizione del fondo al patrimonio pubblico finalizzata all’istituzione di un Museo della Fotografia.
Calogero Franchina (1876-1946), figlio di Giuseppe Franchina e di Carmela Agliolo Quartalaro, nell’arco di circa mezzo secolo, dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del XX secolo, venne documentando la vita del paese di Tortorici e la sua articolata microcultura fissandone su lastra i momenti salienti, pubblici e privati, e consegnando ai posteri i sembianti della varia umanità che in quello scorcio di anni consumò le proprie giornate storiche nel centro nebroideo.
Don Calogero Franchina nacque a Tortorici il 19 aprile 1876 e nello stesso paese morì il 16 settembre 1946. Egli compì i suoi studi dapprima a Roma e in seguito a Parigi; in quest’ultimo centro egli apprese l’arte della fotografia rimanendone affascinato e per sempre coinvolto. Rientrato in paese, egli si dedicò al ministero sacerdotale, all’insegnamento e all’attività di fotografo, connotando in senso amatoriale ma “evoluto” tale pratica. Partecipò alla Grande Guerra e nel 1939, sotto Papa Pio XII, venne nominato “Curicolario, Cameriere d’Onore in Abito Paonazzo e Monsignore” con decreto firmato dal Sostituto della Segreteria di Stato G.B. Montini. Venne inoltre, per un periodo, investito della carica di Arciprete del centro tirrenico di Gioiosa Marea. Da alcuni documenti ancora in possesso degli eredi emerge una sua iscrizione al Touring Club Italiano negli anni ’20, nonché un incarico di Vice Direttore nell’Istituto Convitto Minerva di Palermo.
Don Calogero Franchina era un religioso assai singolare. Si rivela nelle sue immagini come una sorta di demiurgo, in grado di dischiudere alla sua comunità il sostrato immateriale della propria condizione. Egli ama spesso essere presente nelle immagini di gruppo, in posizione defilata ma significativa. Gli splendidi ritratti femminili lasciano trapelare un suo intimo apprezzamento per l’aspetto fisico delle sue compaesane. Viene altresì, nel microcosmo del suo paese, percepito come un personaggio bizzarro, aduso a operare in camera oscura con misteriose sostanze chimiche. Secondo la testimonianza di un pronipote, deriva proprio da tale percezione la velata accusa, forse montatagli da altri sacerdoti, di dedicarsi ad attività “alchemiche”, accusa che sta probabilmente alla base del suo temporaneo allontanamento dal paese con la nomina ad arciprete di Gioiosa Marea.
L’attività di Franchina si segnala per la peculiare caratteristica della sua produzione, che appare, come già detto, quella di un amatore “evoluto” della fotografia, attento a documentare con accuratezza e puntualità, non scevre da un’intima partecipazione umana, le campagne e il territorio, il lavoro e l’universo dei mestieri, la famiglia e le persone, la socialità e i momenti comunitari, il fascismo, la vita cerimoniale e rituale a Tortorici e nel più vasto suo comprensorio. Un elenco, esemplificativo e non esaustivo, dei soggetti ritratti comprende luoghi e contesti territoriali, chiese e monumenti, vita sociale e momenti conviviali, attività artigianali e lavorative, lavori pubblici ed eventi civili, foto di moda e costumi femminili, persone e figure sociali, feste e pellegrinaggi, il fascismo e la guerra, ritratti e gruppi familiari, religiosi e religiose, fonditori di campane etc.
Alla morte del monsignore-fotografo, avvenuta nel 1946, la nipote prediletta Marietta Letizia (12 marzo 1912-3 febbraio 2000), che lo aveva coadiuvato quale assistente di laboratorio fin dal 1935, ne continuò l’opera fino al 1980, conferendo alla propria produzione un’impronta meno artistica e più marcatamente professionale, da fotografa di paese, unica donna ad aver esercitato tale mestiere in quegli anni nel territorio della provincia. Dopo tale data il fondo venne chiuso in casse entro un umido magazzino del quale la fotografa intese interdire l’accesso fino alla sua morte.
Complessivamente, i due fotografi hanno lasciato un imponente fondo fotografico, esaminando il quale emergono indicazioni preziose sulla comunità tortoriciana e sui suoi orizzonti simbolici lungo l’arco di novant’anni.
In questa successione di immagini e di memorie ricostruite, annotate, chiosate ovvero poeticamente riplasmate, si dipana certo l’identità di una comunità, ma si disvela altresì progressivamente un complesso di “caratteri originari” proprî non già unicamente di quel particolare universo costituito dal solo comprensorio di Tortorici, sibbene di una Sicilia le cui declinazioni iconiche, proposte attraverso l’intera gamma delle loro storiche determinazioni, ci permettono di sentirne, non che conoscerne, l’anima, di cogliere il punctum oltre che lo studium, per prendere in prestito due termini barthesiani.
Le immagini scattate da Calogero Franchina illustrano la storia di una comunità di paese e costituiscono pertanto, parimenti, una testimonianza preziosa di universi culturali e simbolici, segni come esse sono di culture restituite tanto alla loro dimensione realistica e documentaria quanto alla loro capacità di veicolare l’immaginario, i sogni e le pulsioni che, pur storicamente determinati, garantiscono alle culture stesse la loro dinamicità, la perenne tensione tra persistenza e mutamento. In tale veste, la pratica fotografica quasi si oggettivizza e le immagini dialogano tra sé, ormai definitivamente affrancate dai loro originari referenti somatici. Parafrasando ciò che Carlo Marx scriveva nel suo Manifesto, si potrebbe affermare che «le fotografie hanno fin qui documentato il mondo, ora vogliono interpretarlo».
Che raffiguri un’anziana contadina, una parata di giovani Balilla, una festa o il personaggio ‘perturbante’ del paese, Franchina intende consegnare i suoi scatti ben oltre la contingente committenza, consapevole come egli è di star lavorando a un progetto comunitario attraverso la paziente, quotidiana produzione di singole minute tessere di uno sterminato mosaico la cui effigie viene consegnata, in progress, a coloro che verranno.
Per verificare ciò, sarà sufficiente che il lettore confronti il proprio sguardo con gli sguardi più antichi custoditi in queste immagini, a misurare l’impietoso trascorrere del tempo in un unico sguardo o, come scriveva Walter Benjamin, «non a vivere proiettandosi fuori di quell’attimo, bensì a sprofondare nel suo interno», a crescere «insieme e dentro l’immagine».
Franchina gioca con le fotografie, le assume nella loro natura di fragili supporti materici di esistenze che vengono da lui trasfigurate e chiamate a significare ben oltre la loro vita biologica. Gioca con gli infiniti e ambigui rimandi connessi al rispecchiamento della persona, come nell’esemplare foto in cui si ritrae, in un interno, riflesso in uno specchio mentre attende a predisporre un teatro di posa a beneficio di una coppia. I tre personaggi, l’Operator e gli Spectra, guardano lo Spectator, e l’obiettivo stesso dell’apparecchio fotografico, riflesso nello specchio, è puntato verso chi guarda la foto, quasi volesse rovesciare la direzione degli sguardi proponendo l’egemonia del “guardato” sul “guardante” e il suo diritto a non rimanere passivamente fissato sulla lastra per balzare fuori e riaffermare la sua prepotente realtà esistenziale.
In uno dei suoi romanzi, Alberto Moravia espresse un’acuta, ancorché poetica, considerazione sulla fotografia: «Una volta ci si guardava negli specchi ma non si era mai naturali. Adesso abbiamo la fotografia per guardarci e vederci come siamo realmente». È forse proprio questa la vocazione di tale singolare attività, quella di consentire agli individui e alle comunità di gettare uno scandaglio sulla propria identità nascosta.
Rimane da aggiungere che la straordinaria carrellata di volti proposta in questo corpus ancora una volta ci induce a riflettere sulla natura del tempo e dei corpi che in esso si muovono; all’apparente immobilità del primo, che si sostanzia di un continuo stream of consciousness, si contrappone la brulicante attitudine dei secondi, che nel loro andare verso la morte esibiscono la propria vocazione proteiforme. Come aveva già magistralmente scritto Roland Barthes, la foto è «la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti».
Il corpus fotografico tortoriciano propone dunque l’organizzazione accurata di sequenze iconiche, consistente nella produzione di immagini che si dispongono nel loro complesso come le innumeri tessere di un mosaico, destinate come tali a delineare – quando tutte ordinate – un’identità ben precisa; a tale apparato visuale è affidato il compito di fissare e quasi congelare il divenire mostrandone un breve segmento. La natura affatto immaginifica e, direi, sentimentale di tali “scritture iconiche” non è veicolata perciò dall’esigenza di fissare i sembianti del mondo fisico, quanto piuttosto dalla necessità di rapportarsi al mondo e al complessivo sistema che tiene insieme le cose, le parole e i segni.
In tale prospettiva le memorie orali ancora registrabili in paese fanno acutamente da contrappunto alle immagini, come queste indirizzandosi più che alla descrizione delle cose alla conoscenza della loro anima interna. Non conosco altra arte in grado di documentare al pari della fotografia tale articolata rete di rapporti immateriali.
Per concludere con un lieto fine, mi piace ricordare che nel 2003 si è inaugurato il Museo Etnofotografico “Franchina-Letizia”, struttura ospitata dapprima in un unico piano dell’ottocentesco Palazzo Comunale e, dopo una chiusura dovuta ad esigenze di ristrutturazione, nel 2018 riaperta al pubblico nell’intero capiente edificio con una cerimonia e un Convegno inaugurale.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Riferimenti bibliografici
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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