di Sabina Leoncini
Premessa
L’insegnante di sostegno dovrebbe cercare di influenzare il contesto e migliorare la qualità della vita di tutti i bambini, non solo di quelli certificati e di non lavorare solo con il bambino disabile, ma ciò spesso non è possibile. C’è un grande fermento tra le insegnanti di sostegno di nuova formazione che uscendo da corsi abilitanti (TFA, tirocinio formativo attivo) come quello che ho frequentato alcuni anni fa presso l’Università di Bologna, vede la scuola come un sistema di ingranaggi molto difficile da cambiare, trovando poco spazio e difficoltà ad esercitare un proprio ruolo. Spesso ci sentiamo in bilico tra ciò che faremmo se potessimo lavorare in base a come ci siamo formati e ciò che è possibile e reale fare, mediando con le strutture a disposizione e i conflitti con le colleghe. Anche se si parla di inclusione di persone disabili (cambiando le proprie abitudini e il contesto che ci sta intorno, per il benessere di tutti), non siamo poi così lontani dal concetto di inclusione sociale delle minoranze di cui mi sono occupata in altri contesti fuori dall’Italia durante la mia formazione dottorale. Ci si trova in entrambi i casi a confrontarsi con la paura del diverso, i timori del mescolarsi, le riserve ad imparare insieme o meglio a far parte del processo di apprendimento insieme (un processo in cui ci si mette in discussione anche come insegnanti se davvero si vuole includere).
Come sfruttare al meglio gli strumenti acquisiti durante il corso di specializzazione, contenuti nella famosa “cassetta degli attrezzi” dello specialista d’inclusione, ovvero l’insegnante di sostegno? In questo breve saggio vorrei quindi dare alcuni consigli pratici agli/alle insegnanti di sostegno che, come spesso succede nelle nostre scuole a settembre, sono letteralmente “catapultati” in una classe, spesso senza alcun tipo di esperienza pregressa, ma solo perché inseriti in una graduatoria; lo farò, servendomi di alcuni strumenti che sono tipici del sapere antropologico. Il primo passo da compiere ad inizio anno scolastico, quando ancora non sappiamo che cosa ci aspetterà, è sicuramente quello di guardarsi intorno, osservando, scrupolosamente e attentamente, quello che succede in classe. Può sembrare banale ma per tutti i tipi di disabilità un’osservazione del contesto classe e del bambino certificato che vi è inserito, è fondamentale per la stesura del Piano Educativo Individualizzato. Grazie all’osservazione possiamo definire al meglio gli obiettivi e le strategie per attuarli, partendo da una descrizione del contesto all’interno del quale il bambino è inserito e in funzione del quale vogliamo lavorare, cercando di prendere in considerazione il deficit come lo svantaggio dovuto non tanto all’handicap del bambino ma alla situazione complessiva spesso non adatta per garantirgli un ambiente sostenibile, un clima favorevole e il fondamentale diritto all’apprendimento.
Cercherò in questa breve riflessione di soffermarmi brevemente su alcuni aspetti che caratterizzano il concetto di diversità, e sul legame tra antropologia e disabilità per poi approfondire i modi come condurre un’osservazione partecipante in un contesto educativo. Ho avuto infatti l’occasione di osservare pratiche di inclusione durante il periodo di tirocinio che ho svolto nel 2016; all’epoca ero un’insegnante precaria di seconda fascia, alle prime esperienze nel mondo della scuola, soprattutto alla mia prima pratica nella rete di scuole “Senza Zaino”, e frequentavo il corso di specializzazione per il sostegno presso l’Università di Bologna.
Come condurre un’osservazione a scuola
Fino a poco tempo fa, lo studio della disabilità da parte degli antropologi era molto legata a quella medica con poche eccezioni. Nonostante ci sia oggi una maggiore attenzione al tema, l’antropologia della disabilità soffre ancora di una confusione terminologica. Negli ultimi dieci anni, alcuni antropologi interessati all’attivismo hanno sperimentato lo studio della disabilità in diverse parti del mondo come un’arena entusiasmante di cambiamento sociale fondamentale (Ginsburg and Rapp). A questo proposito Lepore scrive che:
«L’antropologia ci sostiene anche nel renderci consapevoli che la diversità culturale non è un patrimonio museale dell’Altro, ma riguarda anche Noi, noi occidentali, con le nostre forme storiche di umanità. Inoltre, un uso serio delle categorie antropologiche ci allontana anche dalle letture più essenzialiste delle “culture”, quelle letture retoriche e folcloriche degli Altri che li irrigidiscono in facili stereotipi della loro diversità, staticizzando le appartenenze altrui e immaginando la cultura di un certo luogo come un vestito uguale indossato dai componenti del corpo sociale allo stesso modo» (Lepore, 2011: 2).
In questa riflessione vorrei quindi analizzare come condurre un’osservazione partecipante in un contesto scolastico dove sono presenti soggetti con disabilità. Le basi metodologiche di un’osservazione in contesti educativi sono costituite dalle tradizionali tecniche di indagine tipiche della ricerca in campo etnografico, oggi ampiamente utilizzate anche nell’ambito pedagogico: osservazione partecipante, ascolto e interviste. L’ausilio di tecniche visuali è inoltre molto adoperato, soprattutto per quanto riguarda osservazioni in contesti di nido d’infanzia. Per osservazione partecipante, s’intende la partecipazione alle lezioni in classe per un determinato numero di ore in cui si osservano gli avvenimenti, le interazioni, i dialoghi, le relazioni tra gli studenti e tra gli studenti e gli insegnanti all’interno della classe. L’osservazione, solitamente, viene registrata con videocamera o con mp3 e accompagnata da delle note di campo andando poi a costituire con altre riflessioni quotidiane il diario di campo (o diario di bordo nel caso di un’esperienza di tirocinio), strumento fondamentale per procedere in seguito all’opera di scrittura.
Altro metodo che può essere utilizzato sono le interviste e le storie di vita, da svolgere con i genitori, con il personale scolastico, con le insegnanti, con le istituzioni locali, con i bambini. Naturalmente altre metodologie tipiche delle scienze umane (il questionario, l’intervista strutturata e semi-strutturata, il focus group, la ricerca d’archivio, le tecniche visuali ecc.) possono essere utilizzate, in particolare per ovviare a problemi di tipo linguistico o per una maggiore adeguatezza teoretica. L’importanza del lavoro sul campo è ciò che caratterizza l’etnologia in rapporto alle altre scienze poiché, al contrario di queste, la dialettica fra teoria e raccolta dei fatti avviene durante la ricerca sul campo; talvolta anche la raccolta quotidiana delle osservazioni provoca importanti cambiamenti nell’orientamento teorico della ricerca e questo è il motivo per cui l’etnologia considera il campo come un laboratorio (Cresswell, 1981). A questo proposito anche le osservazioni di Ogbu, che ha dato un prezioso contributo all’evoluzione dell’etnografia in campo educativo, in merito alla “micro-etnografia” e alla “etnografia di multilivello” sono da tenere in considerazione. Per “micro-etnografia” s’intende la concentrazione su un’analisi degli eventi che si verificano in classe, a scuola o nella famiglia ma che probabilmente non è sufficiente a chiarire molti dei fattori che influenzano l’esperienza scolastica di appartenenti a diversi gruppi sociali, anche se spiega la variabilità del rendimento scolastico dei gruppi sociali stessi. Nella “etnografia di multilivello” la ricerca e la raccolta di dati avvengono su diversi livelli, dalla classe scolastica alla famiglia, alla società fino agli eventi storici e sociali più vasti (Gobbo-Gomes, 2003). Lo spazio di osservazione (la scuola) diventa quindi anche spazio legato all’immaginazione, alle rappresentazioni, alla sperimentazione di nuove identità che racchiudono in sé elementi dell’immaginario collettivo che vanno a smaterializzarsi per prendere forme nuove, complesse, inestricabili. Accennando ai limiti e agli eventuali punti critici dell’utilizzo delle metodologie sopra discusse, è importante riflettere su una questione basilare che riguarda il punto di partenza per la definizione del metodo da utilizzare durante l’osservazione: cosa accade all’interno della scuola in quanto istituzione?
Nella pratica educativa come nel lavoro “sul campo” ci si trova spesso di fronte a situazioni e questioni impreviste: impreviste dalle teorie, dai saperi disciplinari, dalle ipotesi di ricerca. L’antropologia (così come una certa filosofia dell’educazione) ci mette a disposizione una modalità di indagine che, valorizzando la riflessività, l’immaginazione, la flessibilità e, innanzi tutto, l’ascolto, permette di affrontare tali situazioni e questioni, e di restituirle in tutta la loro complessità al lettore, provocandone ulteriori riflessioni, congetture e rielaborazioni. Numerose sono le difficoltà nel condurre una ricerca sul campo in un contesto di disagio sociale, di periferia, di mancanza d’inclusione. Primo fra tutti i rischi è quello di trovarsi “incliccato” in un gruppo piuttosto che in un altro (Piasere, 2002). In questo caso il ricercatore deve scegliere a quale schieramento avvicinarsi senza perdere la possibilità di confrontarsi anche con l’altro o con gli altri gruppi sociali presenti sul territorio. Potrebbero infatti essere compromessi i contatti con un gruppo sociale o con l’altro.
L’altro rischio che ne consegue è quello di identificarsi nella sofferenza di un gruppo sociale escludendo la sofferenza dell’altro o degli altri gruppi, divenendo parte integrante dell’attivismo che ha come presupposto l’emancipazione di quel determinato gruppo. In questi casi è importante mantenere comunque in maniera sobria le regole del metodo e della critica delle fonti e un certo distacco. Vorrei fare un breve riferimento all’auto riflessione del ricercatore e alla sua importanza. Egli infatti è parte della ricerca in quanto la sua presenza è partecipe degli avvenimenti che osserva. É indispensabile quindi raggiungere la consapevolezza del proprio ruolo, della propria identità, dei propri valori che diventano parte del bagaglio interpretativo di cui si serve il ricercatore stesso. Edgar Morin (2003) sostiene che oggi si vive in un mondo cronometrato, affrettato, e in cui i tempi della riflessione e dell’auto riflessione mancano, che non ci sia abbastanza investimento riflessivo, né in politica, né altrove, che si viva giorno per giorno e che si sia presi dalle pianificazioni, dalle programmazioni.
Da tener presente nell’ambito di una ricerca etnografica in contesti scolastici è l’idea di una ricerca dialogica che tenga conto delle voci degli osservati, quindi dei protagonisti del processo educativo: i bambini. L’etnografia non presenta un obiettivo resoconto non contestato delle altre esperienze ma deve dare chiara voce agli osservati. Una ricca descrizione etnografica dovrebbe includere l’analisi dei dati emersi e la voce dei soggetti osservati come anche quella del ricercatore che rivela se stesso e la sua soggettività nel racconto. Il resoconto etnografico odierno rimanda alla volontà del ricercatore di porre la dimensione dialogica come intenzionalmente presente, allo scopo esplicito di voler mettere al corrente il lettore delle condizioni in cui è avvenuta la ricerca. Se da un lato, quindi è importante condurre un’osservazione formale all’interno delle classi, altrettanto importanti sono le informazioni alle quali si può accedere attraverso l’osservazione di un piano informale all’interno della scuola ma fuori dalla classe. Questo può avvenire grazie al costante lavoro di creazione e di mantenimento di contatti e di relazioni con il gruppo di insegnanti e di collaboratori scolastici, in una prospettiva di collaborazione.
Durante un processo di osservazione a scuola, un ruolo fondamentale per la comprensione delle dinamiche e delle interazioni tra studenti e insegnanti e degli studenti tra di loro è quello giocato dal linguaggio. Il legame tra il linguaggio utilizzato e il contesto di diffusione è di vitale importanza perché il ricercatore possa comprendere le relazioni sociali che intercorrono nella classe studiata. Spesso le parole che pronunciamo contribuiscono alla costruzione delle azioni del quotidiano e così tra i banchi di scuola le interazioni linguistiche costruiscono la rete di significati condivisi appartenenti ai “micro-mondi” ai quali accennavo precedentemente. Individuare e comprendere tali interazioni, in connessione al contesto di riferimento è parte del lavoro di ricerca dell’osservatore e permette di capire e descrivere i meccanismi attraverso i quali viene costruita l’identità personale (Lelli, 2007). Le scelte discorsive dei soggetti osservati, e la tempistica che regola tali scelte (ad esempio quanto uno studente interviene, in quale contesto, con che frequenza ecc.) nonché gli “atti linguistici” che ne fanno parte sono campi privilegiati da osservare perché possono essere letti come atti che descrivono la classe nel suo insieme ma anche il singolo al suo interno, il suo modo di vivere il gruppo, di relazionarsi all’insegnante e agli altri coetanei. Infine l’insegnante stesso/a, che vede o ascolta la sua registrazione, permette di cogliere, attraverso le interazioni linguistiche, la relazione che intercorre tra lui/lei e il gruppo classe, i singoli individui, nonché la sua rappresentazione di essi.
Contesto di ricerca
La scuola dove ho svolto il tirocinio formativo per il corso di specializzazione per le attività di sostegno si trova a Fauglia, in provincia di Pisa. La scuola è capofila del progetto “Senza Zaino” così brevemente descritto dalla Dirigente sul sito della scuola:
«Nelle nostre scuole non si usa lo zaino, ma una semplice valigetta per i compiti a casa. Lo zaino non è necessario perché gli ambienti sono ben organizzati. Nelle classi troviamo schedari, computer, giochi, enciclopedie, libri, materiali per scrivere e ascoltare, disegnare e dipingere, modellare e costruire, registrare e riprodurre, strumenti didattici per le varie discipline di studio, materiali di cancelleria. Inoltre attrezziamo gli spazi con tavoli, angoli, pedane, mobili a giorno, archivi, pannellature. Tutto ciò serve per un apprendimento efficace che si basa sul metodo dell’Approccio Globale al Curricolo (Global Curriculum Approach)».
L’apprendimento globale prevede un curricolo fondato su:
1. l’autonomia degli alunni che genera competenze;
2. il problem-solving che alimenta la costruzione del sapere;
3. l’attenzione ai sensi e al corpo che sviluppa la persona intera;
4. la diversificazione dell’insegnamento che ospita le intelligenze, le potenzialità, le differenze;
5. la co-progettazione che rende responsabili docenti e alunni;
6. la cooperazione tra docenti che alimenta la formazione continua e la comunità di pratiche;
7. i diversi strumenti didattici che stimolano vari stili e metodi di insegnamento;
8. l’attenzione agli spazi che rende autonomi gli alunni;
9. la partecipazione dei genitori che sostiene l’impegno della scuola;
10. la valutazione autentica che incoraggia i progressi.
Il grado di partecipazione degli studenti e dei genitori è molto alto. La scuola dispone di spazi adeguati per le attività didattiche e uno spazio comune di socializzazione (l’agorà) in cui ai bambini di tutte le classi insieme riuniti vengono proposte varie attività; all’interno di ogni classe c’è una piccola agorà da utilizzare durante le pause. La classe in cui è inserito il bambino disabile che ho osservato per alcuni mesi nell’a.s. 2015-2016 è una classe terza di scuola primaria con 16 bambini. C’è un alto livello di competenze all’interno della classe e un clima che favorisce l’apprendimento attraverso le attività pratiche. Ci sono però talvolta episodi di conflitto che sfociano in momenti di rabbia e frustrazione che influenzano negativamente il clima di apprendimento del bambino disabile.
La presenza dello studente con disabilità non causa cambiamenti nella didattica praticata dagli insegnanti curricolari. La sua presenza risulta indifferente o positiva per alcuni insegnanti, disturbante e negativa per altri a causa di frequenti vocalizzi (stereotipie vocali). Vengono attuate didattiche diverse dalla lezione frontale quando sono presenti le insegnanti formate alla “filosofia del senza zaino”, al contrario quando sono presenti insegnanti non orientate né formate a questo indirizzo teorico-metodologico. Lo stesso vale per la meta-riflessione degli studenti durante le attività. L’obiettivo del mio progetto di tirocinio è stato quello di osservare attraverso gli occhi ma anche attraverso le lenti della fotocamera e della videocamera gli spazi, i tempi, le persone della scuola attraverso i cinque sensi (più uno, quello 2.0!) e indagare su quello che piace e non piace ai bambini della propria scuola.
La domanda che i bambini si ponevano era infatti la seguente: «la mia scuola è una scuola accessibile a tutti, uguali e diversi da me?». Attraverso questo percorso conoscitivo i bambini hanno posto l’attenzione su spazi (ad esempio la mensa, il cortile, l’agorà) e persone (ad esempio l’insegnante di sostegno, il personale ausiliario, insegnanti di altre classi) attraverso una prospettiva diversa, cogliendo particolari e specificità che nel quotidiano passano spesso in secondo piano rispetto alle attività della routine scolastica. Grazie al supporto dell’insegnante di Italiano e Storia ho avuto modo di condurre una lezione teorico-pratica sulla scoperta degli strumenti del “ricercatore di uguaglianze e diversità”: l’antropologo che osserva mondi lontani ma anche vicini, si mette nei panni dell’altro, imparando usi e costumi locali, cibi e lingue diverse, osservando in maniera partecipante contesti “altri”. In questo caso “mi sono spogliata” del mio mestiere di insegnante per raccontare attraverso oggetti, cibi e libri come fuori dalla scuola, come del resto anche i bambini, sia impegnata in altre attività e indossi “altri occhiali”. Ho spiegato ai bambini che la tecnica dell’osservazione partecipante descritta può essere utilizzata anche all’interno di un contesto che già si conosce, in cui già siamo immersi ma che può essere osservato e descritto da un punto di vista diverso, ad esempio la scuola.
Dopo questa riflessione sull’identità dell’antropologo ho poi sviluppato un percorso di altre sette lezioni con attività osservative, descrittive, di raccolta di interviste e di realizzazione infine di un libro utilizzabile dal bambino certificato nei momenti ricreativi. Contemporaneamente ho anche osservato le dinamiche che intercorrono tra i bambini all’interno della classe in cui lavoro e tra le insegnanti all’interno non solo della classe ma anche in generale all’interno del plesso. Se dal punto di vista didattico i bambini della classe in cui lavoro possono essere definiti molto autonomi e diligenti, ben preparati sia a ragionamenti scolastici che a riflessioni più metacognitive, sul piano relazionale ci sono molte problematiche che emergono. Per quanto riguarda invece le insegnanti, ho notato che quelle formate e talvolta persino formatrici dell’approccio al “senza zaino”, spesso tendono ad aggregarsi e confrontarsi tra di loro distaccandosi dalle altre. Anche le insegnanti neo-immesse in ruolo, dovendo seguire incontri di formazione insieme, tendono ad aggregarsi e confrontarsi su tematiche relative all’anno di prova. Infine le docenti precarie, che prevalentemente sono in servizio su posti di sostegno, si trovano sovente a discutere ed aggiornarsi in merito a concorsi, corsi e formazione a loro indirizzati. Si creano in questo modo delle “isole” in cui difficilmente ci si confronta tutte insieme condividendo strategie didattiche comuni per tutto il plesso. L’unico momento in cui emergono esperienze di reale condivisione e compartecipazione sono le ore di programmazione, svolte solitamente il martedì, che consistono in uno spazio condiviso in cui confrontarsi su scadenze uguali per tutte le classi. L’altro momento di condivisione è quello dell’agorà, in cui tutti i bambini di tutte le classi riuniti svolgono varie attività: dal canto al gioco del “mostra e dimostra”, alla discussione con persone importanti invitate a scuola, alle decisioni relative ai progetti ai quali la scuola partecipa.
Certamente la composizione degli spazi (classi in cui non esistono banchi ma tavoli in cui siedono sei bambini), la condivisione dei materiali da lavoro e la struttura della scuola stessa (in stile nord-europeo, con grandi finestroni e due grandi cortili immersi nel verde) creano i presupposti per una didattica partecipativa, laboratoriale e cooperativa. In realtà poi solo alcune insegnanti, le promotrici del “senza zaino” che da anni sono in servizio a Fauglia, lavorano in questo modo; le insegnanti neo immesse in ruolo e quelle precarie (in realtà su posto comune ce n’è solo una, un’altra insegna religione ormai da diversi anni e le altre sono su posti di sostegno) arrivano infatti da realtà completamente diverse e nella maggior parte dei casi hanno scelto quella sede, piuttosto che altre, solo per esigenze logistiche e non perché particolarmente legate alla “filosofia senza zaino”. Questo divario è percepito dai bambini che ovviamente si adattano alle diverse metodologie didattiche, ma a livello di comportamento non mostrano sempre un adeguato rispetto nei confronti delle insegnanti nuove arrivate e/o più inesperte.
Tutto questo si riflette sul lavoro che svolgo insieme al bambino autistico della classe presso la quale sono in servizio, in quanto egli è molto suscettibile all’atmosfera in cui si lavora (è più calmo se c’è silenzio, si agita e inizia a correre in giro per la classe se c’è confusione…), al tono della voce delle insegnanti, alla loro volontà di essere inclusive attraverso il coinvolgimento nelle attività e ancor di più alla loro capacità di istituire con lui una relazione, basata fondamentalmente sul contatto visivo. Ma per un bambino “normale” non valgono forse le stesse condizioni? Non è forse altrettanto difficile concentrarsi mentre c’è confusione ed essere invece più sereno se chi ci parla utilizza un tono più basso della voce? Questo non si discosta poi così tanto da ciò che descrive Roberta Bonetti nell’introduzione da lei curata al volume La trappola della normalità. Antropologia ed etnografia nei mondi della scuola. Spiega infatti Bonetti:
«[…] anche laddove le sindromi paiono più palesi, definite e circoscritte, vi sono molti aspetti che rompono con i clichè delle loro eziologie e indicazioni diagnostiche. Nella relazione emergono, infatti, molti mondi che cozzano con l’assunto divenuto senso comune, secondo cui esisterebbero categorie di soggetti tutti uguali […]» (Bonetti, 2014: 22).
Nel corso di questi mesi ho metabolizzato concetti e attività pratiche che ci venivano proposte al corso per riproporle poi nell’ambiente classe, con un riscontro positivo e attraverso un percorso di inclusione che ha fatto riflettere non solo i bambini ma anche le insegnanti e i genitori sul ruolo della scuola, sui suoi limiti e sulle sue potenzialità. La scuola è infatti il primo luogo in cui i bambini si confrontano con gli altri, con le uguaglianze e le differenze che caratterizzano tutti noi, i nostri vissuti, le nostre esperienze, quelle che ci permettono di trasformare delle mere conoscenze in abilità e competenze vere e proprie. In particolare la sfida che riguarda l’insegnante di sostegno è quella di riuscire a modificare il contesto classe e l’ambiente di apprendimento per renderlo più accogliente possibile non solo per il bambino disabile ma anche per gli altri bambini, favorendo così l’apprendimento di tutti e l’inclusione del bambino con disabilità, nella prospettiva di miglioramento della qualità di vita e di benessere dell’intera classe e comunità.
Conclusioni
All’interno delle scienze sociali l’etnografia risulta uno strumento in grado di descrivere quelle “micro-pratiche” che sfuggono alla ricerca quantitativa. È per questo che pedagogia e antropologia trovano negli studi di antropologia dell’educazione, già presenti dalla seconda metà del Novecento, una sorta di “sincretismo disciplinare” che in qualche modo cerca di studiare i problemi dell’una attraverso la metodologia dell’altra, determinando riflessioni come quella di Margaret Mead che sosteneva che le differenze tra i popoli hanno basi culturali e non razziali e che quindi l’educazione è alla base di questo fenomeno (Simonicca, 2011). Altro motivo per cui è importante indagare il mondo della scuola attraverso l’osservazione è la necessità di analizzare e comprendere la presenza e il ruolo di culture subalterne e culture dominanti che attraverso la scuola vengono tramandate, creando o meno disparità insanabili che condizionano spesso l’intera vita degli studenti.
La scuola costituisce il luogo di convivenza, per eccellenza, di persone provenienti da mondi completamente diversi che trascorrono e condividono insieme un percorso di crescita e di maturazione unico e irripetibile, che i libri di testo, i programmi e le Indicazioni nazionali cercano di indirizzare, coadiuvati dagli/dalle insegnanti. La scuola oltre a questo ha anche una funzione sociale, di aggregazione, che naturalmente può avere anche dei risvolti negativi. Il racconto di ciò che avviene in questo “micro-mondo” ci serve quindi a capire e migliorare il futuro della società intera, ed è per questo che i ricercatori devono, a mio avviso, entrare nella scuola, nel vero senso della parola, cercando non solo di incidere sulla didattica, ma cercando di descrivere ciò che avviene, comunicando con essa e con chi ne fa parte (non solo studenti e insegnanti ma anche le altre figure presenti), per creare per quanto possibile un modello di scuola sostenibile, di qualità, che rispetti i diritti umani, che porti avanti l’idea di benessere e di serenità per tutti, uguali e diversi. In uno dei laboratori durante il Corso di Specializzazione per le attività di sostegno che ci sono stati proposti, uno dei docenti ci ha detto che dovremmo provare ad immaginare i bambini che seguiamo come dei futuri adulti. Solo in questo modo possiamo renderci conto del prezioso impatto che abbiamo su di loro, sulle loro vite e sul loro futuro, insegnando loro ad imparare ad imparare.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Riferimenti bibliografici
AA VV, I minori disabili stranieri, “Minori Giustizia”, fasc. 3/2011, Franco Angeli Editore, che contiene il saggio di Lepore:https://www.cittametropolitana.bo.it/immigrazione/Engine/RAServeFile.php/f/lepore_per_uno__sguardo_antropologico_sulla_disabilita.pdf
Bonetti R. (2014), La trappola della normalità, Firenze, Seid.
Cresswell R. (1981), Elementi di etnologia, Bologna, Il Mulino.
Ginsburg F. and Rapp R. (2013), Disability Worlds, Annu. Rev. Anthropol, 42: 53-68
Gobbo F.- Gomes, A. M., a cura di, (2003), Etnografia nei contesti educativi, Roma, CISU
Lelli S. (2007), Tras-Formazioni: Guaraní della Bolivia tra paradigma sciamanico e scuola, Roma, CISU.
Piasere L. (2002), L’etnografo imperfetto, Roma-Bari, Laterza.
Morin E. (2003), Dialogo. L’identità umana e la sfida della convivenza, Milano, Scheiwiller.
Simonicca A. (2011), Antropologia dei mondi della scuola. Questioni di metodo ed esperienze etnografiche, Roma, CISU.
Todorov T. (2009), Gli altri vivono in noi e noi viviamo in loro, Milano, Garzanti.
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Sabina Leoncini, antropologa, è Dottore di Ricerca in Scienze della Formazione. Il suo principale ambito di interessi è l’educazione mista in Israele/Palestina; si è occupata anche del significato socio-culturale del muro che separa Israele e Cisgiordania. Ha collaborato con alcune Università straniere tra le quali l’università Ebraica di Gerusalemme (HUJI), l’Istituto Universitario Europeo (EUI) di Fiesole, l’Università Ludwig Maximilian (LMU) di Monaco. Ha usufruito di varie borse di studio (MAE, DAAD) e partecipato a progetti ministeriali tra cui PON e progetti europei, in particolare all’interno del programma Erasmus Plus per i quali è referente presso l’Istituto Comprensivo dove lavora come insegnante di scuola primaria dal 2017.
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