In tempi bui e confusi come i nostri, la parola di Edgar Morin si leva chiara e forte con una proposta etico-politica cui fa da sfondo un’analisi storica. Pensare il Mediterraneo. Mediterraneizzare il pensiero (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2019) è la prima edizione italiana di un saggio già pubblicato in Francia nel 1999: un breve testo che, tenendo in debita considerazione l’idea che siamo nell’era planetaria, si chiede con quali attrezzi concettuali affrontarla, cosa si è perso nel corso dei secoli, cosa si è conservato, cosa si è trasformato. La prefazione, le note in calce, una presentazione in appendice del pensiero generale di Morin (tutte a cura di Augusto Cavadi) e una postfazione (di Alberto Cacopardo), inquadrano lo scritto nel presente, ne mostrano alcuni limiti e suggeriscono alcune integrazioni.
Pensare il Mediterraneo vuol dire ricondurre un termine dal significato ridotto di frontiera tra continenti e mare di conflitti a «matrice e veicolo di pienezza civilizzatrice» come fu in epoca romana; mediterraneizzare il pensiero significa pensare come cittadini desiderosi di comunicazione pur coscienti della complessità delle problematiche planetarie. Ma vediamo più da vicino. Quattro, a mio avviso, le idee che sostengono il dipanarsi di questa riflessione e che possono servire da chiave interpretativa della sua talora nodosa articolazione: il riflusso verso il passato e la perdita di futuro; il ruolo dell’Europa e del Mediterraneo nella costruzione di un futuro di pace; lo sviluppo di un pensiero complesso, non lineare, che colga complementarietà e antagonismi; la coltivazione di processi di consapevolezza.
Il riflusso verso il passato e la perdita di futuro
Da sempre per concepire il Mediterraneo è stato necessario «concepire contemporaneamente l’unità, la diversità e gli opposti», ma molteplici fattori hanno contribuito a renderlo poco intelligibile e ne hanno messo a dura prova la comprensione: i contrasti etnici e religiosi del passato sono stati aggravati dall’idea di “nazione” che, trapiantatasi in modo nefasto nel ‘900 dall’Europa continentale al Mediterraneo, ha causato lo sviluppo di forti antagonismi nazionali. Essi, mano a mano, nel tempo, si sono congiunti ai grandi antagonismi dell’era planetaria, alle minacce globali che pesano sul pianeta e agli effetti dell’ondata omogeneizzante e standardizzante dei processi tecno-industriali. Il risultato è stato soprattutto la destrutturazione delle solidarietà tradizionali con la reazione di ripiegamento sulle identità nazionali/religiose e per ciò stesso con il riaccendersi delle ostilità identitarie.
Questo ripiegarsi nel passato è stato accentuato da un altro fenomeno mondiale: «la perdita di futuro». E qui torna l’Europa con le sue responsabilità: avere diffuso la fede nel progresso in tutto il pianeta (una fede comune all’ideologia democratico-capitalista e all’ideologia comunista) come promessa di ben-essere e di salvezza terrena. Ma questa fede ha vacillato a partire dagli anni Settanta mostrando limiti e ambivalenze: la triade Scienza/Tecnica/Industria ha perso il carattere di garanzia provvidenziale e viene messa in discussione proprio nel mondo del benessere, tuttavia continua a sedurre. A che prezzo?
In questo mondo l’individualismo significa «non soltanto autonomia ed emancipazione, ma anche atomizzazione e anonimizzazione»; la secolarizzazione significa «non solamente liberazione rispetto ai dogmi religiosi, ma anche perdita dei fondamenti, angoscia, dubbio, nostalgia delle grandi certezze»; «la differenziazione dei valori sfocia, non più soltanto nell’autonomia morale, nell’esaltazione estetica, nella libera ricerca della verità, ma anche nella demoralizzazione, nell’estetismo frivolo, nel nichilismo». La crisi di futuro che si è profilata suscita «la rivincita del passato»: «quando il futuro è perduto e il presente è malato, allora non resta che rifugiarsi nel passato, cioè a dire nel ritorno alle radici etniche, nazionali, religiose». Si regredisce a stadi anteriori in cui lo Stato-nazione assicura identità, protezione, sicurezza. Ma viviamo nell’era planetaria e la richiusura aggrava l’incapacità di trovare forme associative che permetterebbero di civilizzare questo tempo e di superare la preistoria dello spirito umano. A tutte queste prove cui è sottoposto il Mediterraneo si aggiungono gli effetti perturbatori della mondializzazione del liberismo economico: le nuove crisi locali si sommano ai conflitti planetari e questi rendono virulenti i problemi preesistenti della zona mediterranea.
Un vero caos mondiale sembra avvolgere il mondo e non restano né l’idea-forza dell’umanismo, «quasi-religione della persona umana» (che si era imposta dopo la Rivoluzione francese «nel mondo laicizzato») né l’idea-forza dell’internazionalismo (tipico del pensiero socialista). «Disgraziatamente, dappertutto – ribadisce Morin – la coscienza planetaria è sottosviluppata, dappertutto la coscienza umanistica è in crisi, dappertutto acquistano vigore le formule nazionaliste integrali, integriste o nazional-religiose. Il nazional-religioso succede al nazional-socialismo e al socialismo nazionale, ricomprendendo per conto suo in maniera chiusa ed etnocentrica i valori della fraternità e della comunità».
Il ruolo dell’Europa e del Mediterraneo nella costruzione di un futuro di pace
«Il pianeta è in regresso: la crisi del progresso colpisce l’umanità intera» – tuonava Morin nel 1999 – e tuttavia, a suo avviso, in un modo correlativo e antagonista rispetto alla mondializzazione tecnico-economica, all’inizio dell’era planetaria, si è innescata nel mondo una seconda mondializzazione, la mondializzazione dell’idea di democrazia e di solidarietà umana. Egli auspica una politica per una «seconda mondializzazione […] animata dallo spirito di un civismo terreno», «planetario». E qui rispunta il Mediterraneo: situato in questo complesso contesto, porta in sé, nella sua crisi specifica, la crisi del mondo intero.
Il Mediterraneo si può intendere come metafora del mondo: Morin la chiama «zona sismica» dove si concentra in maniera virulenta lo scontro di tutto ciò che, opponendosi, è problema nel pianeta. Nella risoluzione dei problemi tra Nord e Sud, Est e Ovest, ricchezza e povertà, che in esso si palesano, l’Europa potrebbe intervenire, come già nel passato, e stavolta, però, fornire un apporto culturale costruttivo per il dialogo politico con l’esempio associativo dell’Unione Europea e con la nozione di Europa policentrica, in cui la zona del Mediterraneo e delle sue terre si distinguerebbe dalle altre zone (baltico-nordiche) per il suo carattere “latino”.
Lo sviluppo di un pensiero complesso
In un progetto di riconoscimento dell’interdipendenza fra le zone del Mediterraneo e di promozione di una vera comunicazione, attraverso la reciproca comprensione delle differenze, risulterebbe decisivo il ruolo degli intellettuali. I quali, attingendo a una tradizione millenaria, potrebbero realizzare «una riforma del pensiero» che lo rendesse capace di cogliere tanto «l’unità nella diversità quanto la diversità nell’unità». Riprendendo molte suggestioni dell’antropologo pugliese Franco Cassano, Morin tesse qui le lodi del «pensiero meridiano», contrapposto al «pensiero del Nord anglo-sassone»: questo secondo, infatti, tende ad essere «riduttivo, quantitativo, disgiuntivo», laddove il primo costituisce un approccio che «collega, che riconosce e difende le qualità della vita, che sono arte di vivere, saggezza , poesia , comprensione».
La coltivazione di processi di consapevolezza
Il saggio si chiude con la speranza che, recuperando l’idea di Mediterraneo come mere – nel duplice significato “mare” ma anche di “madre” –, se ne possa valorizzare la valenza sacrale fondatrice di fraternità: «Senza maternità non c’è fraternità. È il nostro legame affettivo, mistico, religioso con nostra madre Mare che, attraverso dolori e miserie, rifiuti e ingiustizie, può tuttavia darci la gioia di essere mediterranei. Ritroviamo la nostra “madre nostra” nel nostro mare nostrum. Poiché il Mediterraneo è all’incrocio fra tre continenti, il recupero in esso dell’apertura e della comunicazione costituirebbe una chance per l’intero pianeta.
Che fondamenti ha una tale speranza? «È una possibilità incerta, che dipende molto dalla presa di coscienza, dalle volontà, dal coraggio, dalle possibilità…». Da qui l’urgenza di «processi di consapevolezza» personali e collettivi: nulla avviene necessariamente, ma neppure del tutto casualmente. Emerge qui l’inspirazione fortemente pedagogica che attraversa l’intera opera di Morin, a giudizio del quale – come ricorda Cavadi – «la democrazia non è solo un insieme di regole ‘formali’ per contabilizzare maggioranze e minoranze», ma “una mentalità” e può funzionare solo se si abbatte «la ‘frattura’, la ‘dualità’ fra coloro che sanno (anche se in forma frammentata, ‘frazionata’) e coloro che non dispongono di conoscenze, cioè l’insieme dei cittadini». In particolare, per la tematica che qui ci interessa, sapere quali disastri comporterebbe una terza guerra mondiale potrebbe costituire un buon motivo per evitarla: come scrive Cacopardo, a conclusione della sua bella postfazione, «è proprio l’enormità di questo rischio che ci può fare sperare che saremo capaci di scongiurarlo e di deciderci a cambiare strada. In questo caso, quello che oggi può apparire il sogno di un illuso visionario diventerà, fra tutti i futuri possibili, uno dei più probabili».
Dialoghi Mediterranei, n.41, gennaio 2020
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Rosalia Leone, insegna a Palermo Storia e Filosofia nei licei pubblici. Dopo anni di attivo impegno nella formazione docente da corsista e formatore, al fine di lavorare a scuola coerentemente con i nuovi e vecchi bisogni educativi e culturali delle giovani generazioni, ha assunto da tre anni l’incarico di Presidente della “Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone”, un’associazione di volontariato culturale, concepita nel 1992 come uno strumento di lotta intellettuale al dominio mafioso. È autrice di articoli e di pubblicazioni di carattere storico.
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