di Dario Bettati
Il mondo in cui viviamo non è più esclusivamente reale, tangibile, è possibile oramai trasferirci in un mondo parallelo, immateriale e fittizio, dove la nostra presenza è testimoniata “soltanto” da una serie di bit. Sicuramente poca cosa rispetto alla grande complessità di un organismo umano, ma sufficiente a definire ciò che siamo e facciamo in questa nuova modalità come esistenza, nonostante sia doveroso precisare come il web, almeno per ora, si basi ancora sulle nostre esperienze “umane”: nel complesso non è cambiata la vita in sé, infatti continuiamo a nascere, vivere e morire, piuttosto è cambiato il modo in cui sperimentiamo la vita stessa.
La rete ci ha proiettati nel terzo millennio e la “mente in internet”, volendo citare lo psichiatra Tonino Cantelmi (2000), ne è probabilmente la caratteristica principale: il web è un luogo dove si può vivere, dove si può abitare, avere scambi sociali e soprattutto esprimersi. Ma non solo, ad essersi modificata è stato perfino l’esperienza della morte. Margaret Gibson (2008), ad esempio, rileva come la rete abbia ampliato i modi in cui sia possibile accedere alle immagini di morte e come sia ormai facilitata la comunicazione e la narrazione stessa del morire. Le maggiori possibilità di accesso e di comunicazione permettono di estendere il rapporto con la morte e il lutto attraverso pratiche che vanno al di là dell’esperienza fisica e soprattutto della dimensione locale.
In questo articolo tenterò di esporre concetti e nozioni che riguardano il collegamento tra la rete e l’esperienza della morte, cercando di mettere in luce come Internet possa rivelarsi un ambiente dove riuscire a superare l’isolamento e l’individualismo iniziato in età moderna; questo perché l’identità, gli elementi della cultura stessa e le relazioni possono, o forse dovrebbero, essere ripensate all’interno del nuovo paradigma, all’interno di quella che è una nuova proposta di società, di collettività, di esperienza di vita.
Se le scienze sociali ci insegnano come l’uomo sia un essere sociale, che oggi, considerando la realtà odierna, si potrebbe definire “social”, la rete agevola gli scambi e le comunicazioni perché meno rigida della realtà e in grado di superare molte barriere comunicative che possono diventare col tempo vere e proprie limitazioni. L’ambiente dei social network soprattutto agevola la creazione di gruppi e comunità, o meglio, è un ambiente che in sé già presenta le caratteristiche e le potenzialità per diventarlo, anche perché è considerabile proprio come una diretta evoluzione delle comunità e dei gruppi tradizionali offline (o “reali” se si preferisce).
Partiamo da un concetto base: l’interazione. Essa fino ad ora comportava la co-presenza fisica dei soggetti coinvolti; oggi la necessità di questa presenza fisica è sicuramente minore, o meglio, è bypassata. Necessario è soltanto che ad essere presente sia la coscienza, sarà poi il mezzo di comunicazione che fornirà un simulacro di corpo. Molti psicologi come Perret-Clermont e Boldwin considerano, o meglio definiscono, il sistema sociale come una rete di relazioni che costituisce lo spazio di elaborazione delle cognizioni, tuttavia tale spazio oggi non può essere considerato unicamente in termini materiali. Infatti l’interazione è sganciata dalla co-presenza fisica degli interlocutori e necessita più che altro di una co-presenza enunciativa (Galimberti, Riva, 1997).
I social media sono ormai una seconda casa, dove gli utenti si sono portati dietro le pratiche e le abitudini maturate dal precedente utilizzo di internet (Menduni et al, 2011) e ovviamente anche le pratiche della loro “prima casa”, come la possibilità e la capacità di socializzare. È attraverso l’interazione che condividiamo la cultura, e il bisogno naturale dell’uomo a stringere rapporti rappresenta uno stimolo importante per partecipare alla “piazza digitale” [Ibid.]; tuttavia – come afferma Sebastiano Bagnara (2009) – le comunità virtuali si distinguono e si distanziano dalla realtà fisica dell’esperienza umana, questo perché le interazioni in prima persona, face to face, presuppongono una serie di rituali precisi e di schemi più o meno rigidi attraverso i quali si sviluppa la partecipazione alla comunicazione; la rete invece presuppone una maggiore flessibilità, come ad esempio la possibilità di una comunicazione asincrona tra invio di un messaggio e la relativa risposta.
La psicologia ci informa che a caratterizzare l’esperienza sociale sono due componenti: l’identità sociale e la rete sociale (Riva, 2010): la prima rappresenta la propria posizione all’interno del gruppo di riferimento di cui il soggetto fa parte, mentre la seconda indica l’insieme delle persone alle quali si è collegati da una forma qualsiasi di relazione. A caratterizzare una rete sociale quindi non è il tipo di relazione ma la presenza stessa di una relazione. La principale novità dei social network è stata soprattutto quella di permettere la connessione dell’esperienza sociale della nostra vita reale con il cyberspazio, creando un inedito spazio sociale ibrido; in altre parole si è permesso di far entrare il virtuale nel nostro mondo reale e viceversa. Un social network è pertanto una piattaforma che sfruttando le potenzialità dei nuovi media consente di gestire sia la propria rete che la propria identità sociale [Ibid].
Dopo questo breve excursus sulla socializzazione tramite social media si può passare a parlare di lutto e cordoglio e il loro rapporto con la rete da me osservato, consci del fatto che affrontare tali temi non è mai semplice. Si tratta infatti di argomenti vastissimi, ma soprattutto riguardanti risposte emotive spesso difficili non solo da manifestare ma anche da canalizzare, nonché da analizzare. La morte in fondo è un concetto astratto, o meglio, il morire è estremamente naturale, ma la sua interpretazione e le domande che scaturiscono in sua presenza variano a seconda del punto di vista e del terreno di analisi, sia esso la religione, la filosofia o la scienza. Tuttavia l’ambiguità risiede nel fatto che morte è un universale che da sempre accompagna la storia umana, le cui procedure di superamento, di accettazione o semplicemente i tentativi di spiegarla, si sono manifestati in svariatissimi modi all’interno delle moltissime culture umane. Proprio la cultura, ad esempio è ritenuta da Borkenau (1987) una delle forme di organizzazione sociale sorte in risposta alla minaccia della fine, una tesi che riprende a sua volta l’opinione di Fuchs (1969, il quale sosteneva che ogni forma di organizzazione sociale sia in realtà un adattamento protettivo proprio contro la morte.
In questa sede non mi pongo certamente l’obbiettivo di spiegare la morte o di ricostruirne una storia generale, mi limiterò a presentarne alcune caratteristiche peculiari e alcuni aspetti sociali caratterizzanti, concentrandomi nello specifico sull’esperienza delle comunità definite occidentali.
Normalmente viviamo come se non dovessimo mai morire, realizzando ciò che Freud chiama “negazione”; ci rendiamo conto della morte soprattutto tramite quella altrui. La morte e il morente che la sperimenterà in un certo senso non si incontrano mai, pertanto l’unico mezzo di conoscenza diretta è attraverso quella degli altri (Di Nola, 2011) e la cultura, come detto, crea risposte, meccanismi di difesa e/o sistemi ideologici che permettono di rendere la situazione accettabile, attraverso sostanzialmente due meccanismi: un primo ideologico, che sostituisce alla realtà fisiologica della fine una diversa realtà culturale, ossia una nuova vita nell’aldilà; il secondo è di tipo operativo ed è rappresentato dai rituali e i sistemi di lutto.
L’atto del morire è un atto tutt’altro che individuale e sono proprio le scienze sociali che ci insegnano come la morte rompa l’equilibrio dinamico della vita in comune, infatti una delle conseguenze della morte è proprio un vuoto sociale (Blauner, 1987). Detto ciò, è possibile riconoscere alla ritualità funebre sicuramente la funzione di riaffermare l’ordine, dopo il disordine portato dalla crisi. È nel rito che si nota il bisogno di rassicurazione ed emerge la condivisione con la comunità dell’angoscia; tutto ciò sarà molto più evidente man mano che con lo scorrere del tempo l’individuo si allontanerà da questo stato di totale condivisione orientandosi verso una gestione individualista. Il coinvolgimento, soprattutto oggi, in realtà fortemente urbane, è ormai passato da una dimensione macro ad una più piccola: la società nell’avvicinarsi alla modernità ed entrandoci a pieno titolo si è rivelata sempre meno disposta alla condivisione dell’esperienza della morte.
Ariès (1992) fornisce una ricostruzione dettagliata dell’esperienza sociale della morte partendo dal Medioevo e distinguendo vari periodi ai quali fa corrispondere diverse immagini. Nel primo Medioevo l’autore parla di “morte addomesticata”, evidenziando come tutti i rituali riflettevano la consuetudine familiare con il morire così che l’intera comunità partecipava a tutti i momenti rituali; a prevalere era pertanto la caratteristica pubblica dell’evento. Intorno al XII secolo l’autore individua poi la cosiddetta “morte del sé”, una concezione che mostra i segni di un sempre crescente desiderio di conservare la propria identità, nonché di affermare e riconoscere l’individualità del defunto. Sarà la famiglia ad essere al centro dell’organizzazione sociale e non più la comunità in toto; chi muore è un membro della famiglia, coinvolto in legami di tipo sentimentale. I sentimenti diverranno il nuovo focus che secondo Ariés introdurranno alla cosiddetta “morte romantica”, in cui si ha interesse ad esprimere il proprio dolore anche in maniera spettacolare; tale dolore non sarà più socialmente sotto controllo, la collettività stessa viene messa da parte e morire diverrà un affare privato connesso ad una cerchia ristretta di persone care (Vovelle, 2000).
Tali schematizzazioni per quanto funzionali appaiono oggi molto rigide e si affidano ad un’ipotesi di ciclicità della storia; ho ritenuto comunque doveroso citarle, proprio perché descrivono in maniera chiara ed accessibile le condizioni socio-culturali del tempo.
Il XX secolo si apre lasciandosi alle spalle la concezione della morte come fine inaccettabile di una relazione affettiva irripetibile (Micalizzi, 2012) e ancora Ariès (1992) fornisce una precisa immagine per descrivere anche questo periodo parlando di “morte proibita”, descrivendola come un allontanamento del pensiero della morte fino alla sua completa rimozione. A questa fase corrisponde, nel caso di esperienza diretta, un trauma maggiore rispetto al passato; ci si rifugia nel “nulla è cambiato, la vita continua come prima”. Tutto ciò è permesso proprio dallo sgretolarsi di quelle strutture familiari e/o collettive che costituivano la rete di supporto nell’assistenza dei superstiti, compito ormai trasferito a strutture “professionali”: le onoranze funebri. Lo stesso mantenimento del corpo che precede la morte è oramai affidato alle strutture ospedaliere o specializzate nella lunga degenza e non più all’attenzione dei familiari. Potremmo parlare di una morte che va oltre quella proibita di Ariès, che potrei definire come “morte delegata”. Accanto a questo termine è possibile poi accostare, in base a ciò che si è detto in precedenza, l’espressione suggerita da Mantegazza (2004) di “morte amministrata”, inserita in un vero e proprio ciclo di consumo, dove il corpo è alla pari di un prodotto che va in un certo senso commercializzato, va reso innanzitutto presentabile [1] e va “inscatolato” [2] per bene. Un altro aspetto interessante delle società occidentali odierne è poi la tendenza a non usare direttamente il termine “morte”, al suo posto sono preferite perifrasi ed eufemismi. Così sempre più di frequente si sente parlare di persone che “se ne vanno” o che “passano a miglior vita” [3].
Questa ricostruzione della morte come fenomeno sociale, prima spettacolarizzato, poi negato, non fa altro che motivare l’ipotesi che l’odierna pratica della mediatizzazione della morte, del renderla pubblica (condividendo il lutto all’interno di luoghi virtuali ben frequentati, come i social network, arrivando persino a crearne di nuovi ad hoc come lo sono i cosiddetti cimiteri virtuali o le pagine memoriali) possa essere proprio una risposta, addirittura una necessità inevitabile. La morte in passato era pubblica e coinvolgente, oggi la comunità stessa si presenta con una nuova interpretazione e l’uomo istintivamente abbandona quell’elaborazione di tipo privato per recuperare quella socialità perduta di cui ha bisogno, riproponendola in nuove forme, sfruttando gli strumenti che il progresso ha aiutato a generare.
Al centro delle nuove forme di ritualità funebre sembra esserci la biografia del singolo, quindi una ri-narrazione della sua vita che costruisce un ricordo condiviso e condivisibile (Micalizzi, 2011). La rete consente da un lato di archiviare e condividere il ricordo di una persona, dall’altro permette di modificarlo attraverso commenti e post successivi. Non solo, il ricordo può essere usato anche da altri, manipolato, nonché arricchito dai differenti punti di vista.
L’auto-narrazione e la riproposizione testuale della propria esperienza, secondo studi e sperimentazioni di tipo psicologico, consentono di ordinare non solo l’evento traumatico ma anche il percorso che ne ha favorito il superamento attraverso un atto che per il suo carattere pubblico assume la valenza se vogliamo di un rito. Walter (2001) è uno degli studiosi che sottolinea proprio il carattere terapeutico della narrazione del ricordo del defunto: i cari concentrandosi sul ricordo sono incoraggiati a nutrire affetto per lo scomparso, a parlare di lui e a riattualizzare i valori per i quali egli è vissuto traendone sostegno e conforto. Un esempio importante a tal proposito, secondo me, è rappresentato dalle comunità online di self help, ambienti entro i quali viene effettuata la rielaborazione collettiva della perdita, proprio come nelle società del passato. Kaplan (1996) sostiene come il superamento del lutto implichi la ricostruzione della condizione di scambio e di relazione col defunto; mantenere una forma di dialogo con chi si è perduto è un aspetto che secondo la psicologia ha un forte potere terapeutico. Lo spazio che prima era del dolore viene riconvertito in uno spazio della memoria. Per memorie si intendono racconti biografici, solitamente incentrati su aneddoti specifici o su aspetti caratterizzanti del defunto. Questa è una delle massime attività di tipo social, infatti le memorie non sono rivolte a se stessi, ma chi le pubblica, nel tentativo di mantenere vivo il ricordo, le rivolge agli altri utenti.
Una linea va tirata: tutto quel che si è detto è estremamente legato alla psicologia, alle risposte emotive e a un processo di elaborazione appartenente soprattutto ad una realtà laica, all’interno della quale, rispetto ad una legata ad una religiosità che potremmo definire più tradizionale, la presenza di un artefatto tecnologico come può essere un computer è ben accetto. Heidi Campbell (2005), parlando di spiritualizzazione di Internet, ci dimostra come le tecnologie possano essere ridefinite e ridiscusse in modo da essere integrate nella pratica religiosa. La domanda che possiamo porci è come reagisca il “credente vero”, quello legato al corpo del defunto, che crede nell’immortalità dell’anima, che visita la tomba di persona e che prega davanti ad essa. La risposta potrebbe sembrare semplice: il credente vero non usa Internet per elaborare il proprio lutto, la sua religione fa già il lavoro per lui, tuttavia molti studiosi ci informano come le tradizioni religiose si stiano progressivamente avvicinando alla realtà della rete. Molte sono le chiese che offrono, ad esempio, servizi di preghiere online e si è visto come da un punto di vista simbolico esse sembrino avere la medesima potenza di quelle reali. Partendo da questi microfenomeni si potrebbe allora ipotizzare il completo trasferimento di tutte le realtà religiose e con loro di tutte le relative componenti rituali sul web? Siamo lontani dall’ipotesi di un’unica religione online, ma appare possibile adeguare, nel caso rigenerare, i vari rituali affinché riescano ad adattarsi alla rete e sopravvivere in questo spazio vituale. La possibilità non è da escludere e forse per potersi avverare tale cambiamento è necessaria principalmente un’unica rinuncia: quella del corpo.
La rete appare sempre di più come un ottimo surrogato per tutte quelle attività non esclusivamente fisiologiche come il mangiare o il respirare. Nel caso specifico di un rituale funebre probabilmente il rapporto col corpo e con il territorio sono gli unici veri grandi scogli da superare per una completa digitalizzazione. Se le emozioni di lutto e cordoglio sono trasferibili e condivisibili virtualmente, basterebbe allora solo fare il passo successivo, abbandonare carne e sangue, modificare sostanzialmente il trattamento del cadavere e creare soluzioni che col tempo rendano obsoleti i cimiteri reali e le sepolture, ad esempio incentivando le cremazioni.
Le alternative? Qualcuna è già osservabile: i cimiteri virtuali. Tali realtà fanno la loro comparsa sul finire degli anni Novanta, precisamente il primo nasce il 28 aprile del 1995 per volontà di Michael Stanley Kibbee, il quale, malato di cancro, decide di creare e organizzare uno spazio virtuale in cui familiari e amici avrebbero potuto in un certo senso erigere monumenti inalterabili per i loro morti: opere commemorative che a differenza di quelle non avrebbero subìto l’usura del tempo e che potevano essere facilmente visitate da qualsiasi punto del mondo. Accedere ad un cimitero virtuale è molto semplice, non vi sono vincoli di tempo o spazio, non vi sono orari di apertura e chiusura e non servono particolari procedure burocratiche, basta soltanto possedere o avere accesso ad un computer o dispositivo in grado di collegarsi ad Internet.
Volendo citarne alcuni tra i più importanti, se si considera anche soltanto la quantità di account attivi, i portali degni di nota per quanto riguarda l’Italia sono: Cimitero Online, (www.cimiteronline.org), Sepolcri.it (www.sepolcri.it) e Funeras (www.funeras.it). Mi limito a citare questi soli esempi italiani perché sono quelli che ho osservato direttamente, ma è importante menzionare anche lo World Wilde Cemetery (www.cemetery.org), il primo del suo genere, fondato proprio dal sopracitato M. S. Kibee.
Tra un sito e l’altro, un cimitero e l’altro, non si rilevano varianti significative, le modalità di funzionamento restano le stesse, viene sempre permessa la creazione di account e tutti sono provvisti di motori di ricerca che permettono una facilitata localizzazione del profilo interessato; le uniche differenze sostanziali risiedono nell’estetica e nella grafica.
L’illusione data dai cimiteri virtuali è quella di far parte di una comunità in virtù della condivisione di una o più esperienze (in questo caso di morte) e per di più essi si presentano come veri spazi social dando la possibilità di realizzare profili e instaurare una rete di contatti con i quali comunicare. La creazione di una memoria collettiva libera dai limiti architettonici di un cimitero reale dà l’impressione di rendere giustizia al defunto in virtù del fatto che in un “cybermemoriale” si può raccontare di più rispetto ad un’iscrizione tombale (Martini, 2001). C’è, in un certo senso, l’intento implicito di coinvolgere gli altri dal punto di vista emotivo, traducibile in un invito a partecipare al dolore. Parafrasando De Martino, potremmo definire questi gesti come dettati da un’urgenza interiore di lasciare una traccia della propria presenza nel mondo.
I vari studiosi e ricercatori che si stanno attualmente occupando del fenomeno, o che se ne sono occupati, hanno prodotto giudizi contrastanti: se Roberts e Vidal (2000), ad esempio, suggeriscono che tali ambienti web possano rappresentare valide alternative ai classici rituali, studiosi come Brendan O’Neill (2014) fanno notare come la facilità con cui si può commentare su un social network possa aver diluito la sincerità di queste espressioni pubbliche di dolore, insistendo poi su come la natura praticamente perpetua della mediatizzazione del lutto significhi un processo di elaborazione dello stesso che non giunge mai ad una conclusione naturale.
È dunque abbastanza chiaro come nell’era digitale l’esperienza e la percezione culturale della morte siano destinate a modificarsi. Nel corso degli ultimi anni i termini interattività e partecipazione sono divenute le due parole chiave per descrivere la società odierna. Le logiche che spingono all’uso dei social network intervengono non solo nella gestione delle relazioni interpersonali ma anche nella costruzione e nella condivisione dei tratti del proprio sé. Oggi ci troviamo nell’era dell’Identità 2.0 (Helmond, 2010) a cui corrisponde pertanto una Vita 2.0 e necessariamente una Morte 2.0, che a differenza delle versioni precedenti risulta distaccata dall’esperienza corporea.
Internet si presta a dare conforto grazie non solo alla facilità di accesso ma soprattutto al senso di protezione psicologica offerta dalla mediazione dello schermo che funge da paravento. La rete svolge a tal proposito svariate funzioni: contenitiva, in cui trova spazio la necessità di uno sfogo soprattutto durante le prime fasi di elaborazione; commemorativa, attraverso le pagine dedicate; terapeutica, attraverso l’atto narrativo. Nel web, grazie alle sue caratteristiche e princìpi di funzionamento, possono trovare compimento le azioni per il superamento e l’accettazione della morte e del lutto: accettare, esperire, preparare, accompagnare, salutare, celebrare e tacere. Infatti attraverso la narrazione si può ad esempio celebrare una scomparsa e in contesti sociali online dedicati al lutto si può addirittura arrivare ad accettare il dolore.
È probabile che in rete attualmente la forma più simile ad un rituale siano l’atto narrativo stesso e la condivisione degli stati d’animo di chi vive un lutto. Condividere e ri-socializzare l’esperienza di morte è una pratica che oggi sembra possibile solo attraverso l’uso della rete, in quanto mezzo che si presenta, come detto, in virtù delle sue caratteristiche adatto a farlo e abbastanza potente da poter superare il senso di solitudine e di individualismo ereditato dall’epoca postmoderna, proprio perché Internet si presenta come un mondo fatto di ‘condivisioni’, dove solitudine e individualismo sembrano apparentemente destinati ad essere ‘socializzati’. Le narrazioni sul web non hanno solo uno scopo e una funzione terapeutica in risposta ad una perdita, sicuramente la scrittura e la rilettura ne consentono la rielaborazione, ma narrare e condividere in luoghi digitali può significare paradossalmente raggiungere una sorta di immortalità.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] Si fa riferimento a tutte le pratiche volte a cancellare i segni della morte dalla salma. In America queste pratiche vengono identificate col termine funeral-homes.
[2] Mi riferisco agli aspetti più burocratici come la scelta del luogo di riposo, la scelta del tipo di funerale e la scelta del feretro stesso, parlo di scatola proprio perché ormai esistono dei veri e propri stock di prodotti industriali o no, di modelli pre-confezionati di feretro e di tipologia di funerale messi a disposizione dalle agenzie funebri.
[3] Tale pratica è definita Death Talk.
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Dario Bettati, laureato in Teorie e Pratiche dell’Antropologia e laureato magistrale in Discipline Etno-Antropologiche presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Studioso e appassionato delle “declinazioni” più contemporanee della cultura e della società, nonché divulgatore scientifico impegnato in vari progetti tra i quali il più significativo quello presso l’Associazione Culturale Antro di Chirone, realtà che da anni si occupa di divulgazione online delle scienze umane.
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