di Flavia Schiavo
Affermando che l’originaria “missione” degli Orti botanici (dalla catalogazione, agli intenti scientifici, alla fruizione)[1] si sia trasformata, si dovrebbe inquadrare tale mutazione in un ambito più ampio, riferendola al cambiamento che le strutture museali hanno vissuto negli ultimi anni, affrontando un discorso di estrema complessità che metta in relazione i musei come luoghi elettivi della produzione culturale e della tutela con: i temi della “cultura”, della fruizione, della produzione e della comunicazione della stessa cultura; il nodo del patrimonio materiale e del patrimonio culturale; il nodo relativo al posizionamento delle persone in un ampio spazio di flussi, in cui i soggetti non accedono più come “passivi” spettatori, ma sono percepiti (e autopercepiti) nonché, almeno in teoria, concepiti dalle stesse istituzioni come attivi partecipanti e proponenti.
Le strutture museali ottocentesche, infatti, fondate su un paradigma che oggi definiamo tradizionale e in gran parte obsoleto, prevedevano un distacco tra “opera” e “fruitore”, inteso quest’ultimo in questa fase più come “testimone partecipante” e come “agente” di tale patrimonio. Il quale, potremmo dire, esce dal confine della struttura che lo ospita e tracima nella città, superando quella, sebbene importante, funzione pedagogica che, pur nella sua permanenza, è stata radicalmente rinnovata.
In una certa misura il “confine” che limitava le strutture museali si è fortemente smaterializzato e non solo per l’accessibilità virtuale agli strumenti didattici, alle immagini e alle collezioni, ma attraverso la decostruzione stessa del concetto di “confine”, inteso come limite e bordo invalicabile, tramite la differente idea di “partecipazione” alla città, al governo e alla gestione urbana, e tramite il potenziamento della inter-relazione tra struttura e persone e struttura e città: la città stessa, intesa nella sua interezza, è il patrimonio. Un sistema complesso, vivo ed evotutivo, fatto di storia, memoria, idee, oggetti materiali, pratiche, flora e fauna, soggetti in azione e interrelazione reciproca.
Se è possibile, con qualche forzatura, includere gli Orti botanici tra i musei va detto che essi sono tra i più atipici, vitali e fragili nel novero di quelli esistenti. Si tratta infatti di specifiche “Opere aperte” che soprattutto in questa fase storica contengono ed esprimono, potenzialmente, alcuni valori e nodi critici che il pianeta deve affrontare. Tra essi il sistema delle risorse e la criticità della sua situazione, nel confronto con il permanere di alcuni modelli energetici di consumo; la questione climatica; la biodiversità; la sostenibilità ambientale; e non ultimo il tema dell’integrazione tra “differenze”. Essendo un potente “giardino di acclimatazione” e dunque un “ponte” tra luoghi e culture, l’Orto ci mostra e ci insegna come specie diverse possano “migrare”, “ambientarsi” e “condividere” il medesimo luogo. Un vero esemplare laboratorio di sperimentazione e di convivenza tra differenze.
L’Orto, forse più di un giardino, possiede, oltre alla valenza didattica, un forte portato politico, simbolico e metaforico: nato da un vigoroso atto intenzionale, ci racconta cosa sia il transito, la migrazione, l’integrazione tra “esseri” differenti, ma uguali nel valore. È inoltre, e forse, il luogo dove si possa esplorare e interrogarsi sull’equilibrio possibile tra la natura addomesticata e la natura naturans, sebbene pensata in senso laico. L’Agorà delle piante, così intesa, ci mostra come e cosa siano equilibrio, mediazione e conflitto in uno spazio dove esistono risorse limitate e una rilevante biodiversità.
L’Orto, infatti, accogliendo potenzialmente le piante di tutto il pianeta, le organizza, le cataloga, le conserva, tutelandole in un’ottica democratica e attiva, che supera la mera elencazione, “risolve” le competizioni, riflette sulle collocazioni e sulle provenienze, esplora le simbiosi, eccedendo il binomio tutela/valorizzazione e trascendendo la semplice visione estetica, fecondata dal portato biologico e culturale.
La vita visibile negli Orti botanici racconta una “biostoria ambientale”, che contiene la storia economica e quella sociale, attraverso un percorso dal quale si può risalire a ritroso ai processi culturali che hanno promosso e accompagnato la nascita dell’Orto. Una storia locale e globale che permette di riflettere su questioni collettive, sociali, produttive, e sul clima.
Oltre ad essere un apparato scientifico l’Orto, che riveste una funzione politica e ambientale, muove stupore ed emozioni, consente l’accesso mediato a luoghi geografici lontani, induce un ridimensionamento dell’autoreferenzialità antropocentrica, limita il consumo di suolo in ambito urbano, agisce sul microclima, come pure sulla rendita urbana, sulla percezione dell’urban landscape, attrae, e interagisce con azioni performative sul paesaggio locale e globale, influenzando anche quegli aspetti che, oltre la mera percezione, riguardano i sistemi di produzione e le economie globali e locali [2]. Un complesso di straordinarie potenzialità funzionali che offre alla città uno tra gli spazi pubblici più significativi in cui l’esperienza della condivisione e della socialità non prescinde dal prendersi cura di un luogo, sia attraverso l’osservazione delle “strategie” e del sistema degli equilibri/disequilibri naturali, sia per mezzo della profonda emozione che si avverte quando ci si trova davanti alla natura, e all’altrove di natura.
L’Orto rende manifesto sul piano empirico il dialogo esistente tra persone e aspetti naturali; esso, così inteso, può attivare consapevolezza ambientale e farsi promotore di “best practices” diffuse a scala territoriale e urbana, da quelle di quartiere a quelle connesse al network dei Botanic gardens, promosso a livello internazionale, essendo l’Orto un soggetto istituzionale attivo dalla scala micro-locale a quella globale (anche in virtù della promozione della rete di cooperazione e scambio tra gli Orti).
Un esempio di interconnessione a grande scala è l’International Plant Exchange Network, istituita nel 2002, che permette l’acquisizione e lo scambio di risorse genetiche vegetali viventi nei giardini botanici. Essi, con il mantenimento delle raccolte di piante ex situ, attivano ricerca, conservazione, sensibilizzazione sulla biodiversità. Agendo nel contempo anche sulla dimensione più ridotta del quotidiano e del luogo abitato, gli Orti si propongono come elettiva interfaccia sia con la consapevole cultura ambientale degli “abitanti urbani”, sia con la consapevole cultura ambientale degli “abitanti del pianeta”.
L’Orto, poi, consente di accedere alla storia botanica dei luoghi, in termini comparativi. Osservando specifiche “fotografie” storiche e ambientali: i cataloghi, gli elenchi ragionati, gli stessi patrimoni scientifici contenuti e costruiti in modo incrementale dagli Orti e dagli Erbari, è possibile riflettere sui “flussi” e sul cambiamento della flora in ambito urbano e agricolo [3], rendendo visibile il sistema di costruzione del patrimonio botanico, attraverso le esplorazioni, gli scambi, e la struttura del sistema della flora locale, nell’interrelazione tra specie alloctone e autoctone, in rapporto al clima e alle dinamiche geostoriche. Il transito di alcune specie dall’Orto alla città mostra, per esempio, come alcune introduzioni siano divenute patrimonio urbano, alberi e arbusti che oggi costituiscono e sostanziano alcuni viali e spazi pubblici, alcuni giardini e parchi.
Perché definire l’orto un’opera aperta?
A partire dal lavoro di U. Eco (1979) e di R. Barthes (1967), l’opera aperta è quella che induce e consente multiple interpretazioni, mediate dai “lettori” che, consapevoli interpreti, vengono posti nelle condizioni di partecipare a una rete di relazioni e nessi che si sviluppano via via, generando una risposta libera e incrementale e una sorta di “programma produttivo” in cui opera e soggetti sono chiamati a interagire reciprocamente.
Azioni nell’Orto
Il sistema degli Orti botanici, la cui nascita risale a epoche remote diffusi in tutti il mondo e non solo in Italia o in Europa, inizia a stabilizzarsi tra XV e XVI secolo, con esempi che riflettono l’importante missione originaria, e i paradigmi botanici vigenti nelle varie fasi storiche.
Prescindendo dall’analisi dello sviluppo di tali due questioni nodali, ma sottolineando quanto in un Orto esista una forte integrazione tra piante ed elementi culturali, antropici e architettonici, è opportuno riflettere sulla trasformazione del mandato iniziale, guardando l’Orto come uno specifico giardino, come specchio dell’evoluzione culturale e come occasione per ragionare su numerose questioni, dal politico al sociale, dall’ambientale, all’economico.
Anche le architetture presenti nei Giardini botanici rappresentano, secondo una specifica prospettiva, il profondo dialogo tra cultura e natura. Rivestono un ruolo simbolico e riflettono l’evoluzione dei paradigmi scientifici vigenti intrecciati alla missione stessa dell’Orto. Pongono, inoltre, i progettisti davanti al necessario esercizio di empatia, fondamentale per progettare un giardino, di qualunque tipo esso sia. Il Giardino, infatti, elude le regole dell’architettura e conduce verso l’accordo con le strategie mutevoli della natura. Edifici come serre, fontane, conservatori, erbari, biblioteche, recinti, viali, chiostri ricercano una armonia reciproca e una eufonia con gli elementi naturali.
Il progetto di architettura in un Orto dovrebbe essere sempre subalterno al giardino, se non in termini formali, in termini simbolici e sostanziali. In tal senso può diventare un sistema di raccordo con le rinnovate funzioni del Giardino botanico [4]. Due esempi recenti e significativi, la Biblioteca degli Alberi, a Milano e il progetto di ampliamento del Giardino botanico di Padova, rendono esplicito tale legame.
La Biblioteca degli Alberi a Milano è un giardino botanico urbano, non recintato e aperto nell’ottobre 2018 in piazza Gae Aulenti. Primo parco cittadino a gestione privata, misura 90 mila mq e contiene: 450 alberi, numerose piante, un’area attrezzata per lo sport, foreste circolari tematiche, orti, percorsi didattici, sentieri per bici e podisti. La Biblioteca degli Alberi si pone come anello di congiunzione fra gli spazi pubblici, le infrastrutture e le architetture dei quartieri limitrofi. Il progetto è stato realizzato in seguito a un Concorso internazionale di progettazione, vinto dalla paesaggista olandese Petra Blaisse con lo studio Inside-Outside. Tra gli obiettivi: la costruzione di uno spazio per incontri e attività culturali; la creazione di un Giardino botanico che esalti le piante autoctone evidenziando la nomenclatura botanica e l’origine degli alberi. Il Parco è concepito come una biblioteca botanica urbana, con un notevole patrimonio vegetale arricchito da una serie di citazioni botaniche e poetiche che, disposte sui sentieri che attraversano il parco, creano una scacchiera di stanze verdi.
Un altro progetto, inaugurato nel 2014, per un Giardino botanico esistente, in cui domina il costruito, ma solo in apparenza, è relativo al restauro e all’ampliamento dell’Orto botanico di Padova. Il progetto di ampliamento, fondato sul concept di “biodiversità”, ha recepito le direttive dell’Action Plan for Botanic Gardens in the European Union, implementato dal BGCI, il Botanic Gardens Conservation International [5].
Se il Piano di azione si propone di rafforzare il ruolo degli Orti botanici nel panorama culturale, il progetto per Padova traduce gli intenti del Piano in luogo. In evidenza il tema della biodiversità da comunicare ai visitatori, attraverso la specifica narrazione dei biomi terrestri quali elementi di riferimento per un approccio descrittivo alla diversità vegetale nel pianeta. Alla stessa stregua del globo, diviso in regioni climatiche, l’ampliamento del Giardino è stato articolato in fasce parallele con andamento est-ovest. I visitatori, entrando da un passaggio stretto, possono vedere contemporaneamente le cinque serre che rendono visibili la biodiversità, notando, grazie ai supporti didattici, come le piante che si sviluppano anche in ambienti estremi, non siano casualmente distribuite, ma si consocino in base alle esigenze ecologiche, alle condizioni ambientali, climatiche, edàfiche, biotiche.
Se uno degli obiettivi dell’Orto è quello di trasmettere didatticamente ed emotivamente i valori ambientali, il progetto, in questo caso, consente di compiere un viaggio planetario, di entrare nella sezione del globo terrestre, esplorando le varie zone climatiche: dal clima tropicale a quello arido caldo, sino a quello temperato, sino al clima subartico. Va detto, inoltre, che il progetto coglie la suggestione originaria compresa in ogni Orto: il cui primo obiettivo fu la “sapienza” in stretta connessione con i luoghi. In tutti i primi Orti botanici, infatti, la collezione era sovrapposta a una “mappa del mondo”, connessa ovviamente a quell’idea concepita al momento della fondazione. Il Giardino botanico di Padova è quadripartito, così come quello di Oxford, e riflette l’imago mundi conosciuta, rappresentata da quattro fiumi e quattro continenti.
Le scelte architettoniche dei progettisti sono, dunque, interconnesse alla storia materiale, alla storia delle idee e al contesto paesaggistico, salvaguardando il cannocchiale ottico degli apparati architettonici storici circostanti. Il tema dell’acqua, anch’esso centrale, viene espresso secondo numerose chiavi di rappresentazione: acqua come limite o come fondamento dell’agricoltura; acqua in canali e vasche. Due esempi diversi che mostrano come e quanto, secondo paradigmi contemporanei, le “architetture” dei giardini, sia quelle del verde sia quelle di “ferro”, pietra e vetro, ambiscono a stabilire un profondo dialogo paritetico tra cultura e natura, tra natura e persone.
Va ribadita l’importanza del Botanic Gardens Conservation International, una importante associazione, attiva a livello mondiale, il cui team supporta gli Orti botanici nel loro impegno pubblico ed educativo. Con alcuni obiettivi generali che forniscono una pluralità di percorsi:
- per l’interpretazione, volta ad esplorare la percezione del visitatore e a potenziare il suo ruolo spingendolo sia a “portare a casa” immagini, idee, concetti, sia a produrre idee, progetti, immagini; per la destinazione a “pubblici” diversi con piani che sviluppino tecniche partecipative e di accoglienza (vd. i progetti: “Communities in Nature” e “LearningToEngage”, citati più avanti);
- per la comunicazione scientifica che, in termini basilari, punta al trasferimento della scienza alle persone comuni, nella consapevolezza che la comunicazione scientifica contemporanea trascende il mero trasferimento dei dati, richiedendo maggiormente le questioni nodali come i cambiamenti climatici un approccio interdisciplinare e transdisciplinare (vd. il progetto: “Roots”, citato più avanti);
- per la valutazione e la ricerca, la quale punta a condividere e scambiare le esperienze con i colleghi e i membri, a comprendere gli obiettivi dei progetti prefigurati e ad occuparsi della formazione con moduli pilota, per educatori dei giardini botanici;
- per il ruolo sociale come elemento vitale della trasformazione del compito degli Orti botanici, agendo anche sull’inclusivitá (vd. il progetto: “Communities in Nature”);
- per gli approcci partecipativi, prima concepiti come processi passivi, oggi intesi diversamente, che mirano ad ampliare il pubblico, a dare voce alle persone, offrendo contenuti e nuove abilità, abbattendo le barriere tra struttura e persone; infine per la formazione scientifica basata sull’indagine, orientata a sviluppare abilità attraverso pratiche, indagini, domande, e che si pone come strumento per l’alfabetizzazione scientifica [6].
Alcune esperienze, in Europa e in America
La comparazione tra le azioni (didattica; divulazione; coinvolgimento dei visitatori; interazione con la “città”) portate avanti dagli Orti europei e quelli americani, espressa in sintesi e attraverso alcuni casi studio, mostra che, pur nella condivisione di alcuni obiettivi comuni, esistano strategie differenti per raggiungere obiettivi condivisi. Differenza probabilmente attribuibile a una difforme impostazione del rapporto tra persone e istituzioni nei contesti in esame. In America, in termini generali [7], le iniziative bottom up sono maggiormente incardinate nella prassi comune di quanto non accada quanto meno in Italia. Ciò comporta una più intensa capacità di proposizione da parte degli abitanti e una maggiore capacità da parte delle Istituzioni non solo di promuovere, ma anche di accogliere una progettualità insorgente tra gli abitanti.
In ambito europeo l’Action Plan for Botanic Gardens in the European Union, (APBG), del 2000 (prima citato) ha, con chiarezza, indicato, tra gli altri punti, la rinnovata missione mirata all’educazione, alla didattica, alla divulgazione, e alla comunicazione tra persone e Giardini botanici (anche grazie alla rete tra Orti), riconoscendo che i Giardini botanici siano luoghi dove si formi una nuova cultura ambientale, rivolgendosi a differenti soggetti, da quelli istituzionali ai singoli individui, a persone di ogni età, con un approccio “lifelong learning”.
Pur proponendo uno schema strategico irregimentato in punti (anche in tal senso diventa stimolante la comparazione con quanto attuato in alcune città americane, ove l’articolazione è più fluida), il Plan (APBG) riveste notevole interesse ed elenca più di trenta obiettivi, raggruppando le numerose funzioni degli Orti in sei principali punti e indicando le azioni da compiere. Dalla promozione della ricerca, alla facilitazione dell’accesso alle informazioni, alla tutela della biodiversità intesa in termini di conservazione, secondo un approccio sostenibile, cercando di coinvolgere, oltre ai cittadini e agli operatori culturali, vari attori economici e istituzionali.
Un aspetto interessante è dato dalla promozione e dal consolidamento del ruolo dei Giardini botanici come maggiori centri di “horticultural expertise” e dalla promozione del patrimonio culturale e del turismo, mostrando come la funzione di polarizzazione dell’Orto, una struttura che attrae, sia profondamente integrata da una funzione centrifuga: luogo affascinante per turisti, “bene comune” per la cittadinanza (oltre che, ovviamente, per i visitatori) può effettivamente essere inteso come luogo da cui irradiare un immaginario simbolico e progettuale da tradurre in azioni a differenti scale.
In tal senso emerge quanto gli Orti possano fungere da catalizzatori culturali e della partecipazione, soprattutto se siano attuati indirizzi che spingano i visitatori e i cittadini a trasformarsi in soggetti proponenti.
Una tra le sei principali funzioni, “Education, training and awareness” fonda su tre basilari elementi, posti intenzionalmente in rete, “istruzione, formazione e consapevolezza”, il reale cambiamento di alcuni comportamenti nella popolazione che, messa a contatto con la ricchezza dell’Orto, suggestionata dalla sua ecologica bellezza, coinvolta in progetti partecipativi, possa scoprire e potenziare la propria coscienza ambientale e la propria capacità immaginativa e progettuale.
L’Action Plan for Botanic Gardens ha promosso in numerosi Orti europei, varie azioni orientate al coinvolgimento delle scuole e degli abitanti con metodi che, spesso, tentano un superamento della didattica tradizionale: attraverso il capovolgimento dei metodi convenzionali, nessun sapere viene direttamente trasferito come semplice nozione, quanto piuttosto attivando uno scambio mutuato dal gioco e dall’esperienza. In un progetto condotto dall’Orto botanico di Catania, nel 2013, ad esempio, i giovani partecipanti hanno ricavato dei colori da alcune piante e li hanno utilizzati per costruire uno schema che mostri come da un seme possa crescere un albero.
Oltre tale suggestivo esempio, elemento ricorrente è l’apprendimento basato sulle emozioni, fortemente indotto in luoghi come gli Orti, dove si accede a un mondo coinvolgente che è possibile esplorare in termini “non formali”, penetrando la sfera emotiva degli individui, suscitando una empatia nei confronti della natura che, oltre a meravigliare, assume in tal modo un ruolo attivo che induce trasformazioni.
Anche a partire da tale impatto, introiettato e persistente nei giovani partecipanti, le azioni promosse sono in grado di indurre comportamenti virtuosi non direttamente connessi al mondo vegetale, come andare a scuola in bici, riciclare i rifiuti, costruire oggetti con elementi di scarto, sperimentare alternative riguardo al cibo (aspetto, questo, maggiormente sviluppato negli States).
Osservare e “coabitare” con le piante consente ai soggetti coinvolti di compiere un viaggio in luoghi lontani e sconosciuti, di trasformarsi in esploratori che, dallo sguardo sul mondo vegetale, scoprono oggetti, azioni, interazioni, ritualità che si formano intorno alle piante, inclusa la cultura sul cibo che caratterizza l’identità culturale (in fieri e contaminata) di ogni enclave e di ogni popolazione. Se tali esplorazioni pongono l’osservatore in diretto contatto con quella fondativa relazione esistente tra piante ed esseri umani, la didattica fondata sulle emozioni e su esperienze empiriche accende un interesse e produce un maggiore radicamento delle competenze che, per esempio nei piccoli, si traduce in una crescente capacità di osservazione, riconoscimento e di consapevolezza anche rispetto al concetto complesso di biodiversità.
È in tal senso che figure come The International Agenda for Botanic Gardens [8], un “policy framework” internazionale per i giardini botanici finalizzato alla conservazione della biodiversità, ponendo l’accento sul coinvolgimento del pubblico, sottolineano implicitamente quanto un Orto possa essere un luogo elettivo sia come promotore di valori civici e ambientali fondanti, sia riguardo al coinvolgimento e alla formazione delle persone.
Riassumere la moltitudine di progetti condotti dagli Orti è impossibile, ma appare utile identificare alcuni temi ricorrenti che vanno dal cibo al clima, alla promozione della biodiversità, alla formazione della coscienza ambientale. Gli obiettivi sono tutti diretti verso il coinvolgimento e la formazione, concepita in termini “formali” e “non formali” e verso lo sviluppo di una coscienza di “comunità” fortemente ancorata a esperienze da condurre non solo nell’Orto, ma in ambito urbano. Il progetto “Communities in Nature”, ad esempio, attivo da cinque anni, ad oggi completato, e promosso dalla International Agenda for Botanic Gardens, mira a potenziare il ruolo sociale degli Orti, definendo il Giardino come un luogo in grado di lavorare per e in collaborazione con la comunità locale sui temi collettivi di rilevanza sociale e ambientale, promuovendo azioni che si fondino anche sul concetto di responsabilità. Nello specifico il programma ha condotto sei progetti pilota nel Regno Unito che hanno coinvolto numerose persone, giungendo sino alla redazione di un manuale concepito in termini operativi e caratterizzato da un regesto di casi studio esemplari. Un ulteriore progetto, “The Big Picnic” (uno dei partner è il Royal Botanic Garden di Edinburgh), ponendosi ambiziosi macro-obiettivi, propone il coinvolgimento della popolazione in relazione al cibo, mira a indurre un dibattito, coinvolgendo una dozzina di Orti in Europa e uno in Uganda, attraverso l’organizzazione di mostre itineranti, attività, incontri ed eventi partecipativi tesi a esplorare la “sicurezza alimentare”.
Va sottolineato, allora, che il potenziamento del ruolo sociale dell’Orto condotto sia attraverso l’identificazione dei temi, sia dichiaratamente attraverso un approccio partecipativo, mostri quanto il concetto di museo ottocentesco sia stato abbondantemente superato, ripensato, sostanzialmente rinegoziando la relazione con la società e con gli individui che la compongono. La società stessa, come emerge dai progetti esaminati, viene concepita come sistema culturalmente eterogeneo. Il nodo della “diversità culturale” cui corrisponde la biodiversità del mondo vegetale, tutelata, promossa e realmente accessibile negli Orti, diviene una sfida per i Giardini botanici impegnati a perseguire il coinvolgimento di una moltitudine umana che, vivendo nelle città, ha negli Orti un punto di aggregazione potenziale. Ciò presuppone un intervento sulle “barriere” non solo fisiche di accesso al patrimonio e un lavoro mirato a coinvolgere un pubblico a volte difficile da raggiungere: accogliere e far sentire rispettate le persone è il primo passo per veicolare un sistema di valori sociali e ambientali condivisi a scala planetaria. Tali ambiziosi obiettivi spingono anche verso programmi di formazione destinati a nuove professionalità, in grado di interagire con il pubblico, mediante progetti che intersecano più livelli, dalle Università agli stessi Giardini botanici.
Il XX secolo ha segnato un punto di svolta nella didattica e in alcuni ordinamenti degli Orti, mentre la riduzione del sostegno finanziario pubblico spingeva a potenziare le attività di intrattenimento, mostre botaniche speciali, musica, teatro o film, integrate dall’istituzione di organizzazioni esterne di volontari. Ciò rende chiaro come siano mutati nel contempo gli obiettivi, i temi e le strategie. Come esemplificato dai progetti portati avanti, tra essi l’Eden Project che, varato in Cornovaglia, nel 2000, prevede un giardino che esplora il tema della sostenibilità. O un altro, inaugurato recentemente a Bergamo nel 2014, “Orti e giardini per scuole che crescono: coltiviamo progetti e seminiamo conoscenza”, prevede un corso di formazione per docenti e la creazione di un orto-giardino nelle scuole per l’infanzia, in quelle primarie e nelle scuole secondarie. Tali iniziative mostrano con chiarezza le linee e i percorsi elaborati e sostenuti dai numerosi laboratori. Spesso tenuti all’aperto, sono orientati a far conoscere la natura da vicino, rivolgendosi a un tessuto molto vario, dai bambini alla terza età, ai turisti. Molti di questi laboratori impiegano KeyToNature – Dryades, una chiave dicotomica interattiva per il riconoscimento delle piante.
Per comprendere comparativamente le due realtà, quella europea e quella americana, è utile esplorare alcune azioni promosse dall’American Public Gardens Association, molto avanti dal punto di vista della partecipazione e del reperimento dei fondi. L’Associazione ha inaugurato, tra i molti, un interessante progetto, denominato “Engagement, Outrech, & Education”, che punta all’interconnessione tra i Giardini e la comunità locale, coinvolgendo le persone e sostenendo biodiversità e resilienza culturale. Responsabilizzare la comunità, accoglierne le idee e incrementare la sua capacità di partecipazione, ha portato a implementare alcuni progetti; tra questi, uno condotto a Detroit dal 2014, per giovani giardinieri è mirato a potenziare l’interesse per i piccoli per il cibo sano e per la sua produzione all’interno dei quartieri di residenza. Tali azioni sono sostenute da ricerche, come quella condotta in Arizona, che attesta quanto i bambini impegnati in attività di giardinaggio introiettino sani comportamenti alimentari.
Gli esempi americani mostrano la determinazione e il lungo cammino in corso, che vede sempre più il coinvolgimento di cittadini e di numerosi volontari che, nel 2019, hanno discusso e pianificato, in un simposio tenutosi a ottobre, a Phoenix in Arizona, azioni e linee di condotta per potenziare le interconnessioni tra i Botanic gardens; per reperire fondi; per implementare nuove iniziative aperte alla formazione, alla cittadinanza e alla città.
Le sfide per le responsabilità future in un mondo che cambia vedono negli Orti botanici dei punti nevralgici attivi anche su campi come l’orticultura, importante per la conservazione delle piante e per la biodiversità e per alcuni comportamenti, per es. quelli connessi alla nutrizione. Coniugando la capacità di esplorazione della diversità nel mondo vegetale, la nuova idea di conservazione della biodiversità, in tal senso, prevede l’integrazione tra metodi più tradizionali e nuove tecnologie, nonché il coinvolgimento attivo dei cittadini promotori e ricercatori, impegnati nel campo del monitoraggio, della coltivazione, della nuova didattica sperimentale, come promoter di iniziative e progetti concreti.
La scienza dei e ai cittadini e i cittadini come “ricercatori” (Kruger e Shannon, 2000) è progetto che nasce dal concepire il sapere non come condizione elitaria, e i cittadini non come soggetti passivi ma al contrario come soggetti che, dall’iniziale ruolo di volontari, diventino attori partecipanti e coautori dei processi di interpretazione e di monitoraggio. Nella considerazione che, nel rapporto tra locale e globale, i residenti abbiano una conoscenza localizzata e un legame speciale con i luoghi.
In tale ottica il Giardino botanico newyorchese del Bronx ha recentemente varato un progetto: “Citizen Science” che si avvale dell’entusiastico contributo di volontari che lavorano a fianco dello staff tecnico e scientifico. I partecipanti, inseriti in percorsi di training, propongono e seguono progetti per acquisire abilità per il management degli Erbari o delle collezioni botaniche. Il progetto “Roots”, prima menzionato, nello specifico coinvolge numerosi giovani per la coltivazione di fiori o piante eduli e segue obiettivi mirati allo sviluppo della coscienza ambientale.
Sempre il NYBG ha varato il programma #plantlove. Una recente manifestazione che consta di programmi, progetti, mostre per esplorare la connessione tra piante, ambiente e persone. In connessione con Citizen Science, il 13 aprile scorso si è tenuto il Citizen Science Day per accrescere la consapevolezza dei volontari e sensibilizzarli su temi chiave, sempre puntando sull’esperienza e su specifiche azioni (vd. il progetto: Thain Family Forest).
Oltre alle innumerevoli iniziative (es.: Earth Day Weekend; Brazilian Modern: the Living Art of Roberto Burle Marx; Annual New York City EcoFlora Conference; Chorus of the Forest; Kiku: spotlight on Tradition) promosse dal Botanic garden nel distretto del Bronx, va citata la Edible Academy. Aperta nel 2018 presso il New York Botanic Garden del Bronx, e dotata di un giardino dove si coltivano piante commestibili, ha un principale obiettivo: promuovere una sana alimentazione in città, ma la questione riguarda per intero gli States, dove la consapevolezza è abbastanza debole, dove esiste un tasso elevato di obesità e di patologie correlate e dove si registra una scarsa accessibilità alle verdure e frutta fresche (Schiavo, 2019).
Il distretto in cui sorge il Botanic garden, il Bronx, è una tra le aree dove si registrano i maggiori tassi di insicurezza alimentare del Paese, ma come numerose ricerche hanno dimostrato, i bambini che coltivano e raccolgono i propri prodotti hanno maggiori probabilità di sviluppare comportamenti sani e di mangiare verdura e frutta fresche. I principi appresi nel Giardino, infatti, possono tradursi in abilità di lunga durata e in investimenti critici, non solo per i residenti coinvolti del distretto, ma per gli abitanti di NYC nel suo insieme.
La struttura è stata progettata dallo studio Cooper Robertson, con tecnologie sostenibili e il programma di gardening per i bimbi rinnova un piano esistente e fondato nel 1956, per offrire ai ragazzini la possibilità di connettersi con la natura. La nuova struttura della Edible Avademy è’ in grado di accogliere 100 mila persone all’anno, e si avvale del sostegno del sindaco, Bill de Blasio e delle politiche condotte dalla Città (vd. Schiavo, 2017) finalizzate anche a porre la questione del cibo al centro, tra salute, gestione, benessere.
La Edible Academy fonde le nuove tecnologie con le pratiche tradizionali, adottando un linguaggio architettonico vernacolare, tetti verdi, pozzi geotermici, sistemi di energia solare, compostaggio. È costituita da orti, da edifici che accolgono le classi e le cucine, di cui una può essere allestita su una terrazza coperta dalla quale si può vedere il Bronx River e la Thain Family Forest, la più grande foresta residuale a NYC, inoltre un anfiteatro consente di accogliere 350 persone e una serra didattica consente di fornire alle piantine le migliori condizioni climatiche prima che esse siano piantate nel Giardino.
Conclusioni
Come riporta Simon (2010), alla fine del 2009, il National Endowment for the Arts ha editato un rapporto ricco di dati, relativo anche alle presenze nei musei negli Stati Uniti. Da tale rapporto si evince che il pubblico nei musei e nelle gallerie d’arte è diminuito; quello prevalente è bianco e di età elevata. Anche se le istituzioni forniscono programmi e consentono l’accesso a valori culturali, il pubblico, in particolare quello più giovane, si rivolge ad altre fonti di intrattenimento, comunicazione e apprendimento.
Le istituzioni, quindi, si trovano dinanzi a una sfida: veicolare contenuti civici e culturali elevati, con tecniche comunicative efficaci in un mondo trasformato che pone i fruitori, soprattutto i giovani, in attesa di forme di accesso e comunicazioni più facili e flessibili. In quale modo un museo, in questo caso un Orto, può mettersi in connessione con il pubblico? Coinvolgendo le persone come “partecipanti culturali” e facendo in modo che l’istituzione stessa divenga centrale per la vita comunitaria.
Quindi l’istituzione così intesa dovrebbe:
- “centrarsi” sul pubblico, senza ovviamente disattendere il proprio mandato originario;
- concepire l’idea che i visitatori costruiscano il proprio significato a partire dalle proprie esperienze culturali;
- pensare i progetti di coinvolgimento insieme ai fruitori, ascoltandoli, istituendo reali feedback nella elaborazione dei progetti stessi, concependo una “comunità di progettazione”.
Non sono necessarie grandi mostre costose, spettacoli dispendiosi, ma capillari canali di comunicazione fondati sul rispetto, sull’interesse per le storie di vita, per le abilità, per i desideri dei visitatori.
Un Orto partecipativo, allora, è un luogo dove i visitatori possono immaginare, creare, condividere, proporre, interconnettersi. Creare vuol dire realizzare e contribuire ai fini dell’istituzione, con le proprie idee; condividere vuol dire discutere, rielaborare, “portare a casa”, portare con sé, ciò che si vede e ciò che si fa durante la visita o le attività condotte; interconnettersi vuol dire socializzare con altre persone che condividono i medesimi interessi.
Le azioni partecipative così intese non vogliono sostituirsi alle tecniche tradizionali, ma intendono integrarle e spostare l’asse di equilibrio ponendo l’istituzione e le persone su un piano orizzontale. L’istituzione dovrebbe riflettere criticamente su alcune questioni: le persone non frequentano un luogo di produzione culturale, come un museo o un Orto, perché lo ritengono irrilevante per la propria vita; perché non colgono cambiamenti; perché non si sentono ascoltati; perché non reputano l’istituzione un luogo creativo o un luogo sociale.
Per reagire a questi livelli di critica, l’istituzione dovrebbe: rispondere alle idee e alle sollecitazioni dei visitatori, coinvolgendoli nell’organizzazione dell’istituzione; sviluppare progetti in cui i visitatori possano condividere idee e connettersi tra loro, e offrire esperienze mutevoli realizzate anche a basso costo; ascoltare e introiettare le storie e le voci delle persone, per fondare una relazione utile a veicolare i principi culturali dell’istituzione, comprendendo la visione dei fruitori e le loro diverse prospettive; invitare i fruitori a partecipare, coinvolgendo attivamente chi preferisca fare, piuttosto che osservare in modo passivo; progettare opportunità esplicite per il dialogo e l’incontro interpersonale.
Concentrandosi su un dialogo creativo tra Orto e fruitore, fondando i progetti sulla comunicazione come condivisione delle conoscenze, attribuendo al fruitore un ruolo centrale, sia riguardo alle sue abilità creative sia rispetto alla considerazione dell’interpretazione delle esperienze compiute dal friutore stesso, vuol dire pensare a spazi e a circostanze creative e di gioco, per condividere e produrre conoscenza, per discutere su cosa sia il patrimonio culturale e quale sia la rete di conoscenze che una parte del patrimonio, ad esempio quello botanico, apra.
I visitatori sono partecipanti, collaboratori, co-autori, non spettatori passivi. Il modello educativo che sostanzia tale immagine non è di tipo unidirezionale, ma è maggiormente centrato su un approccio empirico in cui le persone interagiscono e sono chiamate a proporre e a risolvere, a immaginare e a realizzare concretamente, sviluppando, come già affermato, nuovi comportamenti socielmente e ecologicamente sostenibili.
Fuori da una logica aziendalistica tarata su domanda e offerta, o su semplici, se pur utilissimi, Laboratori didattici, il nodo sta nella chiamata alla partecipazione degli abitanti e dei visitatori, sia attraverso strumenti virtuali, ma soprattutto attraverso l’esperienza empirica che – dal “pensiero” sull’Orto, dalla visita all’Orto, dalla lettura di “testi” verbali o visivi (non solo specialistici, ma soprattutto evocativi, letterari o cinematografici) e dalla stessa qualità del luogo, nonchè dalle azioni promosse dalla struttura – possa innescare un sistema di in e out in cui la relazione non abbia solo il carattere del semplice coinvolgimento didattico delle persone ai programmi presentati dagli Orti botanici, ma possa attivare un sistema di proposte realmente bottom up in cui i cittadini, gli individui, gli abitanti, i visitatori, i produttori, le piccole economie locali, le scuole, siano reali proponenti di idee, percorsi, progetti. Un sistema in cui l’immaginazione creativa, i desideri, le idee, delle istituzioni e delle persone possano convergere verso valori comuni.
Pur trovando stimolante la trasformazione della missione degli Orti, legata alla divulgazione e al coinvolgimento dei fruitori, è opportuno riflettere sulla delicata relazione esistente tra apertura e tutela. Ciò porta ad assumere un atteggiamento critico rispetto ai più recenti modelli. Muovendo dal concetto di “cura”, e consapevoli che l’Orto, quale singolare mappa del mondo, sia prezioso, é importante impedire che il progetto di accesso e divulgazione venga banalizzato.
In metafora potrebbe dirsi che l’Orto è come un Tempio. Lo spazio sacro del tempio é un bene comune, accoglie e promuove una cura consapevole che alimenta la sacralità. La cura consapevole, se introiettata, ha valore civico, sociale, politico, emozionale, culturale non solo riguardo all’Orto, ma riguardo alla città e al pianeta.
È da tale circuito che può nascere una consapevolezza radicata che travalica la mera componente ambientale. Ed è in tal senso che l’Orto botanico, fatto di natura e intriso di città, riveste anche una funzione politica, oltre che sociale. Si tratta, infatti, di una specifica forma di Agorà, l’agorà delle piante, in cui persone e flora, persone e fauna, persone e Natura convivono cercando un equilibrio mediato.
L’Orto botanico possiede specifici caratteri in grado di indurre tale fertile interazione. Fatto di materia viva che si trasforma, l’Orto è un luogo in cui si fa esperienza all’aperto; in ambito urbano, è un luogo vivo che “sente” la presenza delle persone, chiamate a essere attente e consapevoli, che risponde alla loro presenza e dunque muove processi di consapevolezza riguardo al prendersi cura, che avverte e vive del cambiamento del clima e delle stagioni, che integra un bene prezioso e comune, l’acqua, indispensabile insieme agli altri elementi: l’aria (il vento), la terra, il fuoco (simboleggiato dall’azione del sole e del calore). Tutto esiste nelle e per le piante che, in modo differente dalle opere d’arte contenute nei musei, non sono artefatti statici, ma vivono nella propria, e a volte fragile, sfera di natura con la quale le persone interagiscono attivamente, facendone parte. Visto in tale chiave l’Orto, dunque, offrendoci un dono – l’essere uno spazio addomesticato di natura in città – ci mostra la relazione tra empatia e competizione, ci addomestica a propria volta, ci abitua alla “cura”, conducendoci all’osservazione e al cambiamento, all’integrazione tra differenze.
Ci spinge quindi verso la comprensione della “democrazia” delle piante, offrendoci paradossalmente nel mondo naturale un modello culturale, una lezione di civiltà. L’Orto in tal senso ci può insegnare quale sia la relazione possibile con l’ambiente, non quale altro da sé, ma come valore intrinsecamente interno alla comunità delle persone. Può indicarci in traslato quale possa essere il rapporto tra le persone stesse, tra differenza, condivisione, integrazione, tra ragione biologica e percorsi di cultura.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] La funzione originaria degli Orti botanici è assai difficile da sintetizzare. Oltre al primo obiettivo, la sapienza, tra l’utile e il simbolico, gli Orti hanno raccolto, catalogato, organizzato il mondo delle piante con intenti che nel tempo sono cambiati, si sono specializzati, sono divenuti sempre più complessi. In Italia, dal XIV secolo, con l’Orto della Minerva e con gli Orti dei Semplici, il Giardino botanico diviene sempre di più un supporto per le attività mediche e farmaceutiche, mentre dalla metà circa del XVI secolo iniziano a nascere in Italia gli Orti botanici universitari (Pisa, 1544; Padova e Firenze, 1545), mentre in Europa vengono fondati Orti a Leida (1577), a Lipsia (1580) a Montpellier (1593). A Parigi il Jardin des Plantes fu fondato come giardino medico, tra il 1626 e il 1635, fu aperto al pubblico nel 1640 e successivamente ampliato. Uno tra gli Orti più significativi in Europa, i Kew Gardens a Londra, fu fondato nella seconda metà del XVIII secolo e fu di ispirazione per uno tra gli Orti botanici americani più importanti, nel Bronx a New York City. Per la nascita e l’evoluzione dei Giardini botanici americani, vd. F. Schiavo, We have a shared dream. Il giardino botanico in America, fra trasmigrazioni e radicamenti, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 40, novembre 2019, testo disponibile al sito: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/we-have-a-shared-dream-il-giardino-botanico-in-america-fra-trasmigrazioni-e-radicamenti/.
[2] Un esempio generale collegato al rapporto tra nuovo e vecchio mondo, post scoperta dell’America, rende chiaro come dopo il 1492 si sia innescato ciò che A. Crosby chiama “scambio colombiano”: i paesaggi e l’agricoltura furono influenzati da tali scambi di specie animali e vegetali; un ulteriore esempio, connesso all’agrumicultura siciliana e rappresentativo dell’interazione tra Orti ed economia, è dato dall’intruduzione del mandarino in Sicilia, nei primi dell’Ottocento e grazie a uno scambio con i Kew Gardens di Londra (la pianta di mandarino è ancora conservata nell’Orto palermitano). La coltivazione agrumicola siciliana si ampliò non solo grazie a tale introduzione, ma anche per l’arrivo di altre piante, tra cui il pompelmo.
[3] In tal senso, tra gli innumerevoli esempi, uno è dato da uno studio portato avanti da alcuni ricercatori bolognesi. Vd. “Fiori tra il cemento: come sono cambiate le piante che crescono nel centro di Bologna”, testo disponibile al sito: https://www.lescienze.it/news/2019/07/30 news/fiori_tra_il_cemento_come_sono_cambiate_le_piante_che_crescono_nel_centro_di_bologna-4495243/, dà conto di una ricerca comparativa che confronta le piante presenti in ambito urbano a Bologna, grazie a uno studio condotto nel 1894 dal botanico bolognese Lucio Gabelli, con quelle attualmente rilevate. Oltre alla registrazione di alcune specie vegetali che crescevano lungo le strade o nelle crepe dei muri, e che rendevano visibile il viaggio delle piante, e alla mutazione del patrimonio vegetale già fin dal tardo Ottocento, tale ricerca muove riflessioni fondate sul sistema di interrelazioni reciproche tra fattori in trasformazione, come le mutazioni climatiche, il mutamento dell’architettura cittadina, l’intervento umano sull’ambiente. Condizioni che hanno indotto un moltiplicarsi di specie aliene, a scapito delle native che si sono in modo rilevante, ridotte. Uno sguardo sul cambiamento della biodiversità, possibile grazie alla missione portata avanti dall’Orto, un prezioso organismo scientifico.
[4] Vd. https://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/progetti/orto-botanico-padova-096;
https://www.festivaldelverdeedelpaesaggio.it/nel-giardino-botanico-di-houston;
https://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/progetti/biblioteca-alberi-milano-giardino-187;
https://www.uffizi.it/opere/botanica-superiore-boboli.
[5] Il Botanic Gardens Conservation International (BGCI) è un’organizzazione che rappresenta i giardini botanici in più di 100 paesi in tutto il mondo. È un ente indipendente del Regno Unito istituito nel 1987 per collegare i giardini botanici del mondo in una rete globale per la conservazione delle piante. BGCI mira a tutelare la biodiversità e a responsabilizzare i membri e la comunità. La missione è quella di mobilitare i giardini botanici e coinvolgere i partner nel garantire la diversità delle piante per il benessere delle persone e del pianeta. Le direttive del BGCI hanno un anno orizzonte (2050); mentre il piano è strutturato tramite: azioni di leadership e patrocinio; conduzione di progetti innovativi e strategici; azioni di coordinamento e di sviluppo per la conservazione delle piante negli Orti botanici e in una società planetaria; fornitura di finanziamenti.
[6]Vd. N. Simon (2010), The Participatory Museum, Santa Cruz, CA. 2010. Testo diponibile al sito:http://www.participatorymuseum.org.
[7] Una affermazione che andrebbe argomentata in modo più dettagliato; in questo caso si intende sottolineare che in alcuni contesti degli Stati Uniti le istituzioni non solo promuovono la partecipazione ma “imparano” da essa, concependo l’interazione tra persone e istituzioni in modo meno formalizzato. Ciò non produce unicamente un feedback tra soggetti diversi, ma potenzia l’immaginazione progettuale delle persone che acquisiscono maggiore fiducia nella possibilità che una proposta, un desiderio o un loro progetto possa svilupparsi e tradursi in realtà. In termini concreti, quindi, le differenti istituzioni articolano modalità più semplici di interazione reciproca e pratiche meno di rigide di quanto non accada in Italia.
[8] Vd. https://www.jstor.org/stable/24810073?seq=1#metadata_info_tab_contents. ttps://www.bgci.org/our-work/public-engagement/
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. La sua ultima pubblicazione, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.
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