di Luigi Lombardo
Buccheri con i suoi 820 metri di altitudine è il più alto comune della provincia di Siracusa. In posizione strategica fra le province di Siracusa, Ragusa e Catania, si è sviluppato al centro di un importante nodo stradale che collega i comuni montani della provincia siracusana con Vizzini, Caltagirone e Licodia, con Lentini e Catania, con Monterosso e Giarratana. Conta circa 2300 abitanti. Il paese occupa la conca naturale definita dalle pendici del monte Lauro (986 m.) la più alta cima dei Monti Iblei.
Incerte sono le origini del nome, come pure le esatte vicende della sua fondazione. Varie ipotesi si sono fatte sul nome: alcuni autori lo fanno derivare dal nome del condottiero saraceno Buker, conquistatore del paese; ma si tratta di ipotesi da scartare senz’altro. Per altri l’origine sarebbe mitologica e deriverebbe dalla combinazione dei nomi greci “Bous ed Hera”, cioè a dire i “buoi della dea Era”, da cui il nome di Erei che gli antichi pare dessero agli attuali monti di Buccheri. Ma si tratta dei soliti esercizi etimologici.
Il demologo netino Corrado Avolio dà questa interpretazione: «Buckeri, s. loc. Vsic. Bukeri, bl. buquerium, pascolo comune, dal radicale normanno bouc. Il Trischitta lo fa derivante da: Buccara var.: Buccarino, buccariello, bucceri, Bucchèri: stalla di buoi, armenti di buoi. Il termine deriva dal netino Al-bacara ed è diffuso anche nella provincia di Gela»[1].Come si vede l’etimo rinvia comunque ad un dato preciso: l’essere Buccheri terra di pascolo di grandi armenti e di estesi e ricchi allevamenti, e soprattutto terra di pascoli comuni. La presenza di questi allevatori diede luogo alla nascita di una ben rifornita buchiria, ovvero macello di animali. Proprio la presenza di questi vasti armenti al pascolo negli altipiani delle terre comuni affonda il toponimo in epoche lontane, dove la storia si fonde col mito.
Sugli altipiani e sui pendii del monte Lauro, nelle valli e fra le sorgenti, un tempo assai ricche d’acqua, che dal tavolato vulcanico si dipanano a raggiera, gli antichi immaginarono le sedi di ninfe e satiri, che in epoca cristiana divennero orribili streghe e paurosi demoni, contro cui a scopo esorcistico furono erette croci ed edicole votive. Sui pascoli perenni, dove difficoltosa si presenta ogni coltivazione, sferzati d’inverno dai freddi venti di tramontana (Muncipiddisi), o di maestrale (u Chiaramuntanu), o dal terribile ventu marinu, il grecale chiamato anche Austarisi, su questi pascoli, inframmezzati e cosparsi di nude e massicce rocce vulcaniche, da cui si può forse intuire il terribile cataclisma che in epoca remota colpì le contrade intorno al monte Lauro, secondo il mito, il pastore Dafni, inventore della poesia bucolica, pascolava armenti e greggi, deliziando e deliziandosi col suono della zampogna e col melodioso canto. Dafni nella traduzione latina è laurus, alloro, il nome appunto del monte: il suo mito ci riporta ad antichi culti arborei, propri delle genti indigene, di razza sicula, primi abitatori di questi luoghi.
Su questi tavolati vulcanici, ricoperti in passato, più di quanto appare oggi, da una vasta foresta di lauri, pini, lecci, roverelle, pioppi e castagni (e in cui fanno capolino gli ultimi esemplari di Zelkova sicula), i pastori iblei, o in epoca più recente i nomadi allevatori provenienti dalle Madonie o dai Nebrodi, hanno pascolato superbi buoi e magnifiche vacche in armenti numerosi e opimi, che gli antichi ritenevano sacri perché “della razza del sole”. La toponomastica locale conserva tracce significative di un’antica civiltà agropastorale: una contrada ad ovest del paese si chiama ancora “Terrabou”, forse “terra del bove”, o anche corruzione di “Ierabou”, cioè “bue sacro”, nome con cui pare che i Greci designassero il massiccio del monte Lauro. Anche l’architettura rurale rinvia ad epoche arcaiche: i tipici capanni pastorali, costruiti con scaglie di pietra lavica a cupola o col tetto di legna e paglia, rinviano (o sono addirittura i resti) di forme abitative della civiltà sicula dei pastori indoeuropei. Lo stesso territorio fu diviso non tanto in feudi, ma in “màrcati”, cioè territori segnati da limiti e confini, in cui si praticava l’allevamento, caratterizzati dai grandi recinti, mànniri, dove si compivano le operazioni e i lavori legati alla cura del bestiame: mircàri, tùnniri, mùngiri, e dove si ricoveravano le mandrie in tempore magnae nivis, o in caso di improvvisi e prolungati acquazzoni. Rare erano e sono in questa area le masserie: «nelle aree più elevate degli Iblei, prevalentemente pascolative, questi tipi di dimore si diradano fino a venir meno. Si entra nel dominio dell’allevamento ovino, nell’area tipica della “mandra” iblea. Intorno ai centri abitati, specialmente nel territorio di Buccheri, i pastori – che si dedicano, dove possibile, anche ad una magra cultura di cereali ad uso familiare – vivono permanentemente in campagna: la loro mandra rappresenta di conseguenza un tipo di insediamento stabile. Essa assume proporzioni discretamente notevoli, con stazzi numerosi e capaci [...]»[2].
Chi trovò un habitat felice e consono alla propria cultura abitativa furono le genti del Nord, che vi insediarono una folta comunità di origine lombarda (Buccheri appartiene alla comunità linguistica Gallo Italica). Furono, come detto, forse i Normanni che chiamarono quel luogo la bucherie, mutuando un preesistente toponimo.
Ma la storia economica e sociale di Buccheri si confonde con le vicende del suo territorio “demaniale”. Questo era diviso da antica data in otto màrcati: Piana soprana, Piana sottana, Alberi, Due Fontane, Roccaro Nigro seu Frassino, Suvarita, Rizzolo e Pisano. In questi territori l’Università difese alcuni diritti che derivavano dall’essere, forse, in periodo precedente alla infeudazione (1313), patrimonio demaniale. Dal XVI secolo erano iniziate da parte di nobili e borghesi le usurpazioni di diverse tenute, “appoderate” in epoche diverse: tali poderi (clausurae), su cui era permessa una coltura temporanea, erano divenute possesso permanente di ricchi borghesi ed ecclesiastici, proprietà permessa dal barone. Per regolare appunto i diritti dei singoli sui diversi “marcati” e impedire tali usurpazioni, l’Università, sotto la guida di valenti amministratori, procedette alla promulgazione delle “Pandette” comunali. Negli otto màrcati, da antichissima data, tutti i cittadini esercitavano lo ius lignandi, diritto di far legna, mentre l’Università (il Comune) vi godeva lo ius Pascendi diritto di pascolo, in seguito al quale l’Università “arrendava”, gabellava, i màrcati, ricavandone rilevanti entrate, utilizzate in gran parte per il pagamento delle “tande” regie, cioè le tasse dovute all’erario statale per donativi ed altro. Ma le usurpazioni avevano nel tempo ridotto le aree comuni, sottraendo le zone più fertili.
Molta attenzione fu riservata nelle Pandette ai boschi buccheresi, stabilendosi pene severe contro chi disboscava senza autorizzazione. Nel corso degli anni i boschi si erano ridotti notevolmente: era già scomparso probabilmente il frassineto, nel marcato omonimo. Le Pandette avevano anche l’obiettivo di contrastare le pretese del signore di Buccheri, divenute eccessive in particolare con l’avvento dei Morra, signori esosi e violenti. L’affitto degli otto marcati (o meglio dello ius pascendi, cioè l’erba da pascolare) era dunque una sicura fonte di ricchezza per l’Università, fornendo, come detto, l’occorrente per pagare le “tande” regie. Nel 1715, ad esempio, Buccheri conta un patrimonio fondiario di 603 onze l’anno e delle tenui gabelle che rendono 121 onze (pane che si vende in piazza a grana 2 per ogni tarì, carne a grana 1 per rotolo ecc.); le uscite sono costituite da 359 onze per Tande dei donativi e da 188 onze di spese per l’Università.
Si tratta di una condizione ideale di bilancio, poiché consente una pressione fiscale poco gravosa per la popolazione. Si comprende bene l’interesse mostrato dagli amministratori succedutisi nel tempo a difendere il possesso degli antichi marcati contro ogni usurpazione. Restava da pagare come tassa angarica il solo Ius quinterni o Colta magna, cioè le tasse che il feudatario incassava sui beni immobili dei cittadini. Nel 1782 con una transazione fra i Giurati e il principe fu data a quest’ultimo la possibilità di scambiare il suo “Ius Quinterni” (cioè la tassa sui beni posseduti dai Buccheresi) con i due marcati di Rizzolo e Frassino, i territori più fertili e produttivi. Si trattò di un errore assai grave. In pratica l’errore fu verificato nel 1812 con l’abolizione del feudalesimo, che tolse ai feudatari la possibilità di riscuotere tasse dai cittadini.
L’arrendamento dei marcati era annuale e si faceva in genere per ciascun marcato. Gli affittuari, provenienti dalla schiera dei più grossi borghesi della zona, a loro volta subaffittavano porzioni di terre a contadini, pastori e piccoli imprenditori, che avessero bisogno di pascolare i loro armenti. Tale situazione era certo assai favorevole per il Comune, che non si vedeva costretto ad imposizioni di altre tasse sui beni dei cittadini, oltre a quelle consuete dovute al principe. Ma la situazione fondiaria presto cambiò sotto le pressioni e le usurpazioni dei ceti economicamente più forti. Così se agli inizi del ‘700 l’Università possedeva il 68 % dell’intero territorio (3807 ettari su complessivi 5707), mentre i nobili possedevano il 14%, i borghesi il 10%, la Chiesa il 6%, già alla fine del ‘700 la situazione è radicalmente mutata: il Comune possiede appena il 21 % delle terre pari a 1243 ettari, i nobili il 48 % pari a 275, i borghesi 1250 ettari pari al 21 %, il clero 385 pari al 6 %. La situazione muta ulteriormente agli inizi del ‘900: le quotizzazioni e le legittimazioni di ulteriori usurpazioni da parte dei privati intaccano ancora il patrimonio comunale. Così ormai il Comune possiede appena 838 ettari cioè al 14%, mentre intatta resta la quota dei nobili e borghesi pari al 48%. Si attua pertanto una preoccupante polverizzazione della proprietà, che inciderà negativamente sullo sviluppo economico futuro.
Oggi le entrate comunali derivate dall’affitto delle terre demaniali, rimaste al Comune, sono irrisorie: le terre vengono affittate in particolare a famiglie di allevatori provenienti dai Nebrodi e Madonie (i muntagnisi), che praticano la transumanza, attività tradizionale di migrazione appena pochi giorni addietro riconosciuta dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità. Più redditizia si è rivelata la forestazione praticata su porzioni di territorio comunale. La forestazione consente l’avviamento periodico di operai, i quali integrano in questo modo il reddito principale derivante dall’attività agricola e in particolare dalla olivicoltura, che a Buccheri è assai sviluppata. I boschi di sughero poi vengono affittati dal Comune ad imprese del calatino che vi praticano la decortica ogni 8 o 9 anni; la resa economica è tuttavia assai esigua.
Fra le attività economiche scomparse sono le viticoltura e la commercializzazione della neve, raccolta un tempo nelle numerose neviere del Comune [3]. Le rocce laviche del monte Lauro forniscono un’ottima pietra utilizzata dagli scalpellini in pietra nera, che un tempo a Buccheri erano numerosissimi: oggi sono ridotti a pochi orgogliosi ma sfiduciati artigiani.
La transumanza nei marcati di Buccheri: i Muntagnisi
Sulla moderna transumanza a Buccheri abbiamo notizie certe, ricavate da fonti dirette (interviste ai muntagnisi fatte in diverse epoche), fin dagli anni ‘40 del Novecento. Il primo transumante fu un certo Liuzzo, chiamato u vecchiu dô frascinu, dal nome dal marcato buccherese che egli prendeva in affitto e dove io l’ho incontrato senza poterlo però intervistare. Era una figura mitica fra i pastori, molti dei quali appartenenti alla sua stessa famiglia, o meglio clan (Liuzzo Iapichino e Liuzzo Scorpo). Le altre famiglie tortoriciane sono i Bontempo Scavo, i Miraglia e gli Armeli. Quest’ultima nel corso degli anni ha acquistato delle proprietà a Buccheri divenendo così stanziale. Il resto delle famiglie praticano ancora la transumanza, ma non più a piedi, come avveniva fino a dieci anni orsono, ma con i camion, che in uno o due giorni trasferiscono gli animali alle loro destinazioni.
Al tempo della musca
La transumanza si compie in due date: a partire dal 20-22 maggio dai màrcati di Buccheri, a partire dal 20-22 novembre dai pascoli dei Monti Nebrodi. A maggio, quando il caldo nei màrcati di Pisano, Rizzolo e Frassino si fa più insopportabile, sono gli stessi animali a reclamare la partenza. Essi sono presi da una agitazione che i pastori attribuiscono alla musca che le infastidisce. In questo caso i pastori osservano il comportamento di alcune mucche che loro chiamano i vacchi mastri, le quali cominciano a farsi notare dai padroni con comportamenti bizzarri, fino al punto di tentare la fuga diverse volte. I pastori conoscono i singoli animali e sanno quali sono i vitellini. Ognuno ha il suo nome: baronessa, nebbia, messinese, palermitana, catanese, maiurana, vespa, murtilla, ecc.
Gli animali considerati più robusti e resistenti al caldo e al freddo transumavano più tardi (a dicembre anziché a Novembre; a Giugno anziché a Maggio): cioè capre, i cavalli e i maiali. Alle date stabilite transumano gli animali meno resistenti al freddo, come mucche, vitelli e pecore (poche). In questo modo si sfruttava il residuo pascolo autunnale e gli ultimi scampoli di primavera. Per economia il trasferimento avveniva a piedi ma, quando le condizioni del tempo erano proibitive, bisognava trasferire gli animali con i primi camion. Con i quali si trasferivano gli armenti tardivi, cioè quelli più robusti che venivano trattenuti fino a dicembre in montagna. In questo modo si economizzava anche il pascolo del luogo di destinazione.
Con i bovini la transumanza si svolgeva in quattro giorni, con le giumente in due giorni. Le tappe erano tre e alla quarta si arrivava a destinazione. A cchianari (a salire) ci si fermava di giorno a causa del caldo e parte del viaggio si svolgeva anche di notte. A scènnere (scendere) si sostava la notte dove c’era qualche riparo naturale.
Le vacche mastre
Le vacche mastre sono le regine della mandria, quelle più robuste ed insieme più esperte. Erano esse a guidare gli armenti nella strada a salire per le montagne, o a scendere al ritorno per Buccheri. Esse erano in grado di guidare l’armento fino a destinazione, «conoscono il tempo, sentono l’aria». Quando è l’ora della partenza le vacche mastre muggiscono insistentemente (bbràmunu) e si gettano in frequenti scontri con le altre mucche che contendono loro il primato. Arrivata l’ora della partenza, che avveniva alle prime luci dell’alba, i pastori con un fischio che essi fanno solo in questa occasione e che le mucche conoscono bene, richiamano le vacche mastre, che automaticamente si dispongono per uscire dal recinto e prendere la trazzera antica: solo quella. Aperta la vara della mànnira, le mastre si dispongono in testa alla lunghissima fila di vacche, buoi, vitelli, vitellini, capre, e un certo numero di equini, quando è necessario trasferire tutti gli armenti. Le vacche mastre richiamano le altre con frequenti muggiti, mentre i cani i mànnira fanno il resto. Iniziano così a percorrere il tratto siracusano della Trazzera dei Messinesi, una strada segnata anche nelle mappe topografiche, in particolare nel tratto Buccheri Francofonte.
Lo spazio dei pastori: la trazzera dei Messinesi
La transumanza è una forma specializzata di nomadismo, particolarmente adatta per ambienti saturi. Essa consiste, come scrive Giacomarra [4], in uno «spostamento alternativo e periodico delle greggi tra due regioni determinate di clima diverso», spostamento cioè «quasi esclusivamente verticale dai pascoli invernali situati a bassa quota a quelli estivi». Il nomadismo si differenzia dalla transumanza «per essere caratterizzato da proprie organizzazioni comunitarie: nel primo si spostano al seguito degli animali intere tribù con le famiglie al completo; nella seconda invece si spostano solo gruppi di pastori che lasciano le famiglie nei luoghi di residenza [...]».
Lo spazio della transumanza si definisce come luogo di attraversamento, dove lo spazio è perennemente da conquistare in mezzo alle ostilità dei residenti che nei movimenti delle greggi transumanti vedono una minaccia continua, una rottura dell’ordine esistente. «Il che vuol dire che lo spazio di attraversamento viene talora vissuto dai pastori guardiani con tensione e ciò li porta a prediligere, fino a identificarsi quasi, certi itinerari, a rifarli ogni volta nel trascorrere degli anni». È il caso appunto della “buccherese” o “trazzera dei Messinesi”. Si tratta di un lunghissimo percorso che inizia (o termina a seconda se si tratta del tragitto di andata o ritorno) a Buccheri e termina nelle montagne di Cesarò, Floresta, Tortorici, Capizzi e San Fratello, anche se questi due ultimi gruppi svernano alla marina tirrenica.
Le razze protagoniste sono: per le capre mureddi niuri, bennarde, masciddhina. Le capre figliano verso il 20 ottobre per avere i capretti nel periodo di Natale. Allora si separano le capre dai becchi. Si riuniscono il 20 maggio. Certe volte il becco fa fesso il pastore e in un’ora è capace di coprire fino a 20 capre. Il becco è pericoloso e arriva a morire per il troppo desiderio. Ad agosto si ferma per il caldo e alla fine del mese si rimette in movimento.
Nel viaggio di notte si guardano le stelle e in particolare le tre stelle dette u tri i bastuni (i tre re, cioè il triale o cintura di Orione), che indica l’ora. La stella del mattino, a levante. La luna in particolare è la vera guida dei transumanti: essi distinguono a luna a primu scuru, secunnu scuru, terzu scuru e così via.
A scendere e salire: dagli Iblei ai Nebrodi
La transumanza dei pastori dei Nebrodi data da antica epoca. Nasce dalla necessità di muovere gli armenti alla ricerca di pascoli e soprattutto di climi più caldi dove svernare. I pascoli dei Nebrodi o delle Madonie infatti si trovano a quote alte per cui d’inverno sono soggette a nevicate e gelate continue. In passato si trattava di piccole migrazioni di una o al massimo due famiglie. Ma dal dopoguerra il fenomeno si è amplificato ed è divenuto una forma di transumanza di massa. Ciò probabilmente è dovuto alle riforme della piccola proprietà contadina, alla divisione del latifondo, alla riduzione conseguente dei pascoli liberi nelle terre comuni, alla forestazione degli anni ‘70.
I primi contratti datano a Buccheri dal 1944 ed erano ad invito. Percorso discendente: le mandrie venivano radunate a Cesarò, quindi si arrivava in località Grottaffumata, Portella di S. Lorenzo, Catenanuova, Biddhuni, Depositu i Bullaci, ponti i brazzu, Ciruni, Scurdia, Francofonte, Pisano (in territorio di Buccheri). Molte delle famiglie tortoriciane praticano ancora la transumanza, altre sono ormai integrate con le realtà locali.
La guerra dei pascoli
A guardar bene, il conflitto o comunque la latente ostilità del contadino ibleo verso i transumanti, in definitiva, sembra innestarsi nel più generale e radicale tema antropologico delle due polarità, riconducibili alle strutture dell’immaginario: le strutture dell’antitesi e le strutture sintetiche. Ne vengono fuori forme culturali dispiegate attraverso un continuo rapporto dialettico tra natura e cultura nelle loro diverse determinazioni storiche e territoriali: bosco vs coltivi; montagna vs marina; campagna vs città; pastori vs contadini; spazi vs chiusure; alto vs basso; natura vs cultura.
L’espressione muntagnisi stessa, che qualifica le genti transumanti, nasconde un immaginario legato alla capacità di dominare il diverso, lo straniero: il pastore pur nella sua estraneità appartiene al regno in certo modo definito della montagna, dell’alto, del forte e del luminoso. In questo senso si connota con tutte le valenze di chi vive a contatto diretto con le forze e gli elementi originari della natura: il cielo e l’aria, la terra e il pascolo, il fuoco e il cibo, il cielo e l’acqua. Per i contadini allevatori iblei il pastore transumante è insieme temuto e rispettato, come si fa con una forza della natura, con uno degli elementi: figurarsi quando si incontra un essere che in sé assomma le qualità primordiali della natura i suoi elementi costitutivi.
La bivalenza sociologica. Dumezil e Piganiol
Siamo dinnanzi al costituirsi di una bivalenza sociologica che rinvia alla tripartizione delle società indoeuropee secondo le note tesi di Piganiol e di Dumezil, che in definitiva si riduce a due partizioni: quella dei re sacerdoti-re guerrieri vs quella dei produttori. Il mondo pastorale si delinea e si raccoglie attorno alla verticalità, quella dei contadini coltivatori attorno alla orizzontalità; i primi guardano il cielo, i secondi seppelliscono nella terra. Ne derivano due immaginari: quello del pastore che vede nel contadino sedentario la staticità, quello del contadino che vede nel pastore il movimento, l’uomo senza fissa dimora, il pericoloso.
La stessa idea di spazio varia da pastore a contadino: lo spazio del pastore è l’infinito, quello del contadino è il limite, la chiusa, l’orizzonte familiare e domesticato. Le produzioni mentali del pastore vivono, parafrasando Durand [5], in regime diurno, quelle del contadino in regime notturno. Il primo è mondo eminentemente maschile, il secondo femminile.
Il pastore è solitario, il contadino si ricongiunge alla moglie. Il primo dorme nello iazzu, un letto improvvisato, il secondo è chiamato strazzalinzola strappa-lenzuola; il primo è beffeggiato dal secondo per via delle sue assenze dal talamo domestico: è fin troppo nota la satira del villano sulle corna del picuraru.
Ancora oggi la parola muntagnisi evoca paura e in un certo senso repulsione. La loro lotta per i pascoli, lecita o illecita, li porta ad essere marginalizzati, pur se alla fine, come avviene con gli extracomunitari, sono proprio i detrattori proprietari terrieri che fanno affari d’oro, grazie alla gabella decennale delle loro terre date ai “nemici” delle montagne.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] C. Avolio, Introduzione allo studio del dialetto siciliano, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, 1975: 51.
[2] A. Pecora, Gli Iblei in La casa rurale nella Sicilia Orientale, Firenze, Olschki, 1973: 289.
[3] L. Lombardo, L’impresa della neve in Sicilia, Ragusa, Le Fate, 2018.
[4] M. Giacomarra, I pastori delle Madonie. Ambienti tecniche società, Palermo, Fondazione Ignazio Buttitta, 2006: 37.
[5] Cfr. G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari, Dedalo, 1987.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate ha di recente pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa.
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