(da «Guerra e pace» di Franco Campegiani)
Tutti abbiamo sperimentato quanto si possa percepire l’altro lontano, diverso da noi; eppure tutti siamo fatti della stessa natura. Diversità e somiglianza non racchiudono di per sé un’accezione negativa; sono due termini che aprono a un’infinità di riflessioni in base al contesto in cui vengono calati, che cambiano a seconda dei parametri presi in considerazione, del punto di vista dal quale si osservano.
La paura del confronto con l’alterità cela spesso il timore di scoprire se stessi, di fare i conti con le proprie incoerenze, difficoltà e ferite. Percepiamo differente quello che non si conosce; l’ignoto perturba e provoca come spontanea reazione di difesa una chiusura. Ma, a ben pensarci, ciò che siamo e che sentiamo corrispondere al nostro gusto e pensiero non è innato e da sempre conosciuto ma è frutto di un continuo processo di negoziazione tra le nostre inclinazioni e il mondo esterno. Questo processo è proprio ciò che forma la nostra personalità rendendoci unici. Non c’è infatti nessun individuo uguale a un altro perché ognuno è il frutto di incontri e rapporti diversi avuti durante il corso della vita e perché ogni cosa passa attraverso il proprio filtro soggettivo generando in ciascuno sfumature diverse. La consapevolezza della nostra molteplicità ci consente di vedere l’altro come un universo dinamico e sfaccettato, permettendoci di percepirne i dettagli e di andare oltre la semplicistica sovrapposizione a qualche idea sommaria e astratta di cultura.
L’appartenenza a una determinata religione, lingua e tradizione ha certamente un’incidenza nella costruzione della propria identità, offrendo all’individuo delle coordinate per orientarsi nella propria complessità soggettiva. Talvolta però questo senso di appartenenza porta a considerare chi è al di fuori di tale condivisione come meno degno di umanità e valore; questo è ancor più frequente quando il gruppo sociale che condivide pratiche e idee costituisce la maggioranza culturale all’interno di una società.
Il lavoro di ricerca Uguaglianze e differenze di Sabina Leoncini (Aracne 2018) offre numerosi spunti in proposito a partire dalla particolare realtà israelo-palestinese. Nello specifico, l’autrice si occupa delle problematiche pedagogiche attuali relative alla minoranza palestinese presente in Israele. L’attenta e approfondita ricerca si muove all’interno di varie istituzioni scolastiche e servizi educativi della città di Jaffa e si focalizza sull’uguaglianza sociale e l’inclusione.
La metodologia utilizzata dall’antropologa è quella della ricerca-azione, dell’osservazione, della somministrazione di questionari e dello svolgimento di interviste al personale, ai genitori e agli alunni. La ricerca sul campo è stata condotta da settembre 2012 a gennaio 2013 all’interno di diversi Istituti come il Weizmann, il College de Frères, la scuola media inferiore e superiore Ironi Zain, il centro educativo Maon Wizzo e la scuola d’infanzia Gan Hashalom.
l testo è suddiviso in due parti che si intrecciano poi nelle considerazioni conclusive: la prima è dedicata alle “coordinate della ricerca”, ossia alla spiegazione del contesto, delle modalità di indagine e dei motivi che l’hanno spinta a condurla; nella seconda, vengono riportate le interviste e i dati raccolti dai questionari con relativi commenti e analisi. Il focus dello studio è posto sulla relazione che intercorre tra la maggioranza israeliana e la minoranza palestinese, questione che apre a tematiche di carattere intimamente umano quali l’identità e la percezione dell’alterità.
La scelta di svolgere questo tipo di ricerca all’interno degli Istituti scolastici ed educativi è legata alla considerazione che essi rappresentano un contesto fertile per sviluppare il cambiamento di una società che aspira alla convivenza pacifica e alla comprensione reciproca. La scuola infatti, come afferma l’autrice, «costituisce il luogo di convivenza, per eccellenza, di persone provenienti da mondi completamente diversi che trascorrono e condividono insieme un percorso di crescita e di maturazione unico e irripetibile».
Da questo studio emerge tutta la complessità della realtà educativa israeliana e della scelta della scuola da parte delle famiglie, poiché questa è influenzata da molti fattori quali la condizione economica e identitaria, la religione, la lingua, la discendenza da una coppia mista o meno e così via.
Uno dei dati più interessanti è quello emerso dalla domanda “chi è l’altro” posta ad alcuni studenti poiché, come afferma il nuovo preside D. Schmidt dell’Istituto Weizman, «il razzismo e il nazionalismo sono cose per gli adulti, i bambini sono innocenti e non sanno di queste cose». È infatti molto prezioso lo sguardo dei più piccoli rispetto alla questione identitaria perché, spesso, emerge quanto essi vedano l’alterità come qualcosa di simile a se stessi: «l’altro per me è una persona di bellezza e di carattere diverso da me, o forse no, ma in realtà siamo due persone uguali» afferma uno degli scolari; «è una persona che può essere diversa da me in abitudini, però, mi assomiglia» dice un altro.
Non credo che questi pensieri siano figli di un atteggiamento buonista; i bambini mi pare si caratterizzino piuttosto per essere schietti e avere una sincerità spesso tagliente. La percezione dell’altro come simile è probabilmente data piuttosto dal fatto che le sovrastrutture sociali, le convinzioni politiche e religiose non sono ancora radicate permettendo loro di rimanere aderente a un’idea di identità più semplice e spontanea, meno condizionata da sovrastrutture ideologiche e più legata al riconoscimento di sé e dell’altro come appartenenti ad un medesimo universo di abitanti e di rappresentanti del genere umano. Infatti, come suggerisce una frase di Gallissot e Rivera riportata nel testo dell’antropologa, «parole, concetti, categorie come razza, etnia, cultura o nazione non hanno niente a che vedere con la natura o l’essenza delle cose. Essi sono artefatti, costruzioni sociali, prodotti storici e in quanto tali mutevoli, arbitrari, convenzionali».
Tali costruzioni sono tuttavia ciò che permette all’uomo di crescere e maturare; esse sono quindi preziose e fondamentali per lo sviluppo della civiltà. In questa prospettiva, la diversità diventa fonte di arricchimento e risulta decisiva per il consolidamento dell’identità collettiva e individuale. Quest’ultima infatti si crea attraverso gli incontri e le relazioni che abbiamo durante la nostra vita, è la risultante di un processo in cui l’altro è essenziale poiché abbiamo sempre bisogno almeno di due termini per poterne definire uno.
La mutevolezza delle idee e delle convenzioni sociali di cui parlano Gallissot e Rivera include, a mio avviso, il concetto di identità che si caratterizza per essere fluida, in continua trasformazione. Essa infatti non può definirsi a-priori poiché, come suggerisce lo psicoanalista Pierre Fedida, la sua complessità si edifica sull’assenza di un’essenza propria; essa è dunque un percorso che accompagna l’individuo durante tutta la vita, un processo di costruzione “senza fine”.
Se la famiglia è la prima situazione in cui l’individuo comincia a intraprendere questo percorso, la scuola dovrebbe essere l’ambiente in cui egli può sperimentare il confronto con soggetti provenienti da contesti educativi differenti, un vero e proprio campionario della complessità sociale. Questo è ancor più fondamentale in un contesto quale quello israeliano dove la compresenza di due popoli con tradizioni, lingue e culture diverse è segnata da conflitti, tensioni, chiusure e incomprensioni.
Attraverso l’ambito delle istituzioni scolastiche si veicolano e si sperimentano messaggi e valori che vanno al di là dell’istruzione, a cominciare proprio da come questa viene impartita. Una programmazione che tenga conto della storia, della lingua e della religione delle minoranze che vivono nel territorio israeliano ed in particolare di quella palestinese intimamente intrecciata alle vicende della sua costituzione, permette una reale conoscenza reciproca e quindi la possibilità di una relazione pacifica e proficua. Diversamente, non può verificarsi un incontro tra due (o più) soggetti di eguale valore e meritevoli della stessa considerazione, libertà e rispetto, bensì si configura una linea di contrapposizione in cui chi ha una posizione dominante, nella migliore delle ipotesi, concederà all’altro di adattarsi.
L’integrazione infatti non è un’operazione unilaterale, un tentativo da parte della minoranza di assimilarsi il più possibile alla maggioranza, bensì cooperazione. È così infatti che i bambini delle scuole medie Ironi Zain la definiscono. Cooperazione, connessione, condivisione sono le parole chiave emerse dalle loro affermazioni e tutte racchiudono un significato di reciprocità. Alcuni saltano persino questo passaggio (probabilmente dandolo per scontato) e vedono l’integrazione come un’alleanza, una complicità; ritengono infatti che essa significhi «essere insieme e collegarsi nella società», «essere amici ed essere uniti».
Il contesto educativo in cui un ragazzo è inserito è certamente rilevante nella formazione delle proprie idee, nella creazione di un clima favorevole allo sviluppo di un pensiero così responsabile, attivo e costruttivo. In diversi Istituti dove Sabina Leoncini ha svolto la sua ricerca emerge un atteggiamento da parte di docenti ed educatori che sottende la volontà di sviluppare un ambiente che vada in questa direzione. Ad esempio, nelle parole di Yael, coordinatrice dell’asilo nido gestito dall’organizzazione Wizzo Canada, emerge il concetto di parità; afferma infatti che per lei non ci sono cristiani o musulmani ma solo studenti, persone. Martine, del College de Frères, rimarca invece la responsabilità di ciascuno rispetto all’integrazione perché essa è a tutti gli effetti un lavoro su se stessi. Una breve affermazione di Matilde, di Terra Santa School, racchiude infine il concetto base senza il quale tutti gli altri non potrebbero svilupparsi: «l’altro è un uomo».
Religione, cultura e tradizioni possono infatti essere dei parametri che definiscono valori e pratiche in cui un individuo si riconosce ma non possono coincidere con la sua identità. L’essere umano ha una complessità soggettiva che lo rende unico e lo spinge a porsi costantemente in dialettica sia con tutte le parti che lo formano sia con l’altro, altrettanto multiforme. Come afferma il filosofo M. Foucault nel saggio Dits et écrits,
«Si nous devons nous situer par rapport à la question de l’identité, ce doit être en tant que nous sommes des êtres uniques. Mais les rapports que nous devons entretenir avec nous-mêmes ne sont pas des rapports d’identité; ils doivent être plutôt des rapports de différenciation, de création, d’innovation. C’est très fastidieux d’être toujours le même. Nous ne devons pas exclure l’identité si c’est par le biais de cette identité que les gens trouvent leur plaisir, mais nous ne devons pas considérer cette identité comme une règle éthique universelle».
Foucault conclude questa riflessione sull’identità invitandoci a non considerarla come un processo etico universale. Tale affermazione non nega che il lavoro identitario interroghi e quindi coinvolga tutti gli esseri umani bensì mette in guardia dalla tentazione di pensare che il proprio modo di definirsi sia l’unico e che quindi debba coincidere con quello degli altri. È, in altre parole, un monito a non considerare il proprio sistema di riferimento come verità assoluta, posizione che automaticamente esclude la possibilità di un confronto sincero.
Questo pensiero si ricollega alla considerazione della ricercatrice sul fatto che «costruirsi un’identità in un contesto plurale significa quindi essere disposti ad accettare l’idea della propria identità come “costruzione” per potersi incontrare con gli altri sconfiggendo l’assolutizzazione dell’identità». Sotto questa luce, l’inter-cultura è «apprendere a non iper-investire nessuna delle identità che possediamo», come afferma Chiozzi nella frase riportata dalla Leoncini.
Nonostante nel testo si evidenzino dei presupposti favorevoli a questa possibilità di incontro tra le diverse culture che compongono la realtà israeliana, affiorano anche numerose criticità utili a prendere atto di quanto lavoro sia ancora necessario affinché tale possibilità diventi una pratica reale, diffusa e condivisa. I punti deboli che l’autrice mette in evidenza sono, ad esempio, la difficoltà di calendarizzare le diverse festività religiose e di creare una programmazione che tenga conto delle differenze linguistiche e culturali; la disparità sul piano socio-economico e la mancanza di rappresentanza a livello istituzionale da parte della minoranza palestinese.
Due punti fondamentali messi in rilievo dalla ricerca sono, in primo luogo, il valore strategico di un insegnamento bilingue poiché, come afferma l’antropologa, imparare un’altra lingua significa anche imparare una nuova cultura e «il linguaggio gioca indiscutibilmente un ruolo cruciale nell’interazione sociale e nella trasmissione di valori culturali e sociali»; in secondo luogo l’importanza di costruire una storia comune che superi la contrapposizione tra la percezione israeliana della questione israelo-palestinese come “guerra d’indipendenza” e quella palestinese come “distruzione”. In questo caso, un esempio molto positivo citato nella ricerca è quello dell’Associazione Zochrot che promuove il superamento di due narrative antitetiche, raccontate in due lingue diverse, per orientarsi invece verso un’unica nuova storia in cui sia israeliani che palestinesi possano identificarsi.
Tenere in considerazione le difficoltà e le disfunzioni presenti è utile per ragionare su un modo più efficace e costruttivo di pensare al sistema educativo. In tal senso, uno spunto prezioso ci viene offerto dalla Leoncini nelle conclusioni, là dove sottolinea l’importanza di dare rilievo al significato che i bambini attribuiscono alle cose in modo da avvicinare il ruolo educativo al loro mondo, alla loro prospettiva. È dal suggerimento di pensare a bambini e ragazzi come soggetti portatori di cultura che si potrebbe partire per costruire un modello di scuola sostenibile e rispettosa, portatrice dei diritti umani e promotrice di un confronto proficuo e pacifico.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
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Silvia Pierantoni Giua, si specializza in arabo e cultura islamica durante il corso di Laurea Magistrale in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università degli studi di Milano. Approfondisce poi la tematica della radicalizzazione islamista in occasione della stesura della sua tesi di laurea di Ricerca in Psicoanalisi diretta dallo psicoanalista F. Benslama, che ha discusso nel giugno 2016 all’Università Paris VII di Parigi. Attualmente si occupa della stesura di un progetto per la prevenzione del fenomeno del fanatismo.
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