Portare la Siria a Palermo
Tra il 2 e il 9 dicembre scorsi, durante quella che è stata battezzata come la “Settimana siriana”, a Palermo si sono svolti, in varie parti della città, una serie di incontri dal titolo La parola alla Siria. Voci creative di donne in esilio. Dai Cantieri culturali alla Zisa, presso la Scuola Nazionale di Cinema o il centro Internazionale di Fotografia, al cuore metropolitano, presso la Sala Consiliare Comunale o la Galleria d’Arte Moderna, l’intento itinerante dell’evento ha cercato di restituire una dimensione empatica, volta al raggiungimento del maggior numero di luoghi, ambienti e persone.
“Portare la Siria a Palermo” significa rompere il pesante silenzio, disgregante e colpevole, sulle vicende mediterranee e medio-orientali, attraverso volti e voci di donne in esilio, artiste e scrittrici, che con la loro creatività rendano conto delle vicende di guerra e devastazione. Il messaggio dichiarato, però, resta costruttivo: guarda alla giustizia, alla comprensione e alla conservazione della memoria, cerca di non distaccarsi troppo dalla cronaca in modo tale da non recidere il legame col passato e guardare al futuro con speranza e consapevolezza.
L’idea nasce due anni fa all’interno dell’UDIPALERMO, Biblioteca delle donne e centro di consulenza legale, dalle menti di Mirella Cassarino, Mariella Pasinati e Maria Concetta Sala, ma trova vari ostacoli sul proprio cammino, fino a quando lo scenario geopolitico attuale non irrompe in tutta la sua brutalità, rendendo pressante l’esigenza di concretizzarlo. Sono 500 mila le vittime negli ultimi otto anni, milioni i profughi che a rischio della vita bussano alle porte della “Fortezza Europa”, ma la guerra ha poca risonanza nelle coscienze collettive: se ne parla in termini politico-economici, di contenziosi internazionali, senza che la dimensione umana venga considerata al di là del suo essere percepita dal potere come fastidioso sottoprodotto del conflitto.
Da qui la necessità di superamento delle narrazioni stereotipate, volte alla piatta normalizzazione dell’Altro, sicure e rassicuranti, che inglobano l’altrove e la diversità all’interno di gabbie conosciute e incapaci di stupire e destabilizzare. Il tema dell’esilio, condizione mai risolta e in continuo mutamento, risulta capace di scardinare la visione generalizzata di morte e sradicamento: diventa, inaspettatamente, sinonimo di sopravvivenza e vita.
Il progetto contesta l’idea di un Occidente che discute di diritti, ma dimentica i valori: è necessario, dunque, davanti alle immagini distruttive, mantenere vivo il dolore, pena la perdita di umanità. Nell’intreccio tra più piani, inscindibili, del quotidiano e del simbolico, i sentimenti di angoscia insopportabile e di annichilimento legato alla distruzione fungono da contraltare alla riscoperta di un umano perduto. A discapito del silenzio o, ancor peggio, dei filtri mediatici cui le vicende siriane sono sottoposte, dell’odio verso le migrazioni funzionale al consenso politico, della categorizzazione e della reificazione dell’alterità, le voci delle donne siriane esiliate si levano contro il patriarcato, praticano la bellezza, la comprensione e la giustizia. Si tratta di nuove forme di resistenza all’esercizio brutale della forza, richiamano esigenze di umiltà.
Le singolarità artistiche al femminile, di cui si ha la possibilità di incrociare gli sguardi in queste intense giornate, sono testimonianze dense di coraggio e desiderio di un migliore futuro. Il gusto documentario, i richiami alla conoscenza e alla libertà, rendono possibile la creazione di reti che sfidano la staticità della carta geografica e l’insensatezza del confine, uniscono nella relazione: l’ascolto delle voci crea affinità pluridirezionali, facendo della diversità un vivido generatore di complessità. E così, gli ascoltatori in sala si riconoscono, come direbbe Geertz (1973), «uguali nella diversità». Pesa la consapevole preoccupazione per gli eventi narrati, ma i presenti non possono che sentirsi rigenerati, riscoprendosi, ancora una volta, cittadini di una Palermo mediterranea, cosmopolita, mai uguale a se stessa, nel tempo, nello spazio e nel movimento.
Letteratura/verità posizionata: Maha Hassan
Maha Hassan è una scrittrice e giornalista curdo-siriana di formazione giuridica, che decide di lasciare la Siria nel 2004 a causa delle persecuzioni di cui è vittima dal 2000, dovute all’appartenenza nazionale e agli argomenti trattati nei romanzi: religione, sesso, politica. Le minacce, ricevute dopo la rivoluzione curda, e il controllo da parte dei Servizi Segreti le impediscono di restare. Stabilitasi in Francia, si interroga spesso sul ritorno, ma la situazione politica le impedisce di farlo: molti fuggono e rientrare per manifestare risulterebbe poco utile. Ciò che ha vissuto, però, le resta addosso. Si chiede cosa possa fare per il suo Paese: trova risposta nella scrittura. Vince nel 2005 il Premio Hellam/Hammett dell’American Human Rights. Dei suoi numerosi scritti, L’infinito racconto dell’Altro, Cordone ombelicale, Metro Halab e I tamburi dell’amore, soltanto quest’ultimo è stato tradotto in italiano.
Il dialogo con Martina Censi, ricercatrice di lingua araba all’Università degli Studi di Bergamo, nell’incontro programmato nella “Settimana siriana” di Palermo, procede in modo disteso, senza, però, nascondere elevate quote di coinvolgimento, percepite e condivise dal pubblico in sala. La traduzione dal francese all’italiano, lungi dall’essere un impedimento al dialogo, permette agli ascoltatori di cogliere la profondità e le sfaccettature della voce della scrittrice, stimola la riflessione interiore, fa sì che l’io disponga se stesso, senza fretta, entro una dimensione intima, necessaria ad accogliere coi giusti tempi lo spessore degli argomenti trattati. La discussione si incentra su I tamburi dell’amore.
Già dalle prime battute, si comprende la forte influenza della vita dell’autrice nell’opera: la protagonista, un’esule siriana che lavora come traduttrice accademica alla Sorbona di Parigi, è costretta a vivere da vent’anni lontano dalla sua terra perché sposa un cristiano contro il volere della famiglia. Quando il matrimonio finisce, decide comunque di restare in Francia e adotta una cagnolina, ma dopo aver conosciuto un avvocato siriano di cui si innamora su Facebook, torna a Damasco e poi ad Aleppo per partecipare alla rivoluzione nel marzo del 2011.
Le domande seguono il filo della trama, ma di frequente la scrittrice inserisce richiami fortemente biografici. Parla dell’esperienza della censura, delle minacce, del desiderio di restare, della fuga, dell’esilio, di politica e del regime di Assad. Non si riscontra nella sua voce alcuna retorica. Colpiscono, la sicurezza, la fermezza e la decisione delle risposte. Nessuna titubanza, nonostante la natura del tema rimandi a un vissuto importante.
Risulta quasi impossibile distinguere il piano della finzione da quello documentaristico. Più volte ribadisce il suo desiderio di cronaca. Da questa esigenza, l’espediente letterario di Facebook: utilizzare un social network è utile a comprendere gli eventi filtrati e taciuti dai media. Le varie sfaccettature, che spesso sfuggono al giornalismo, rivivono attraverso le testimonianze dirette. Maha Hassan asserisce di non lasciarsi andare alle velleità letterarie, al narcisismo: parla di “verità”, di responsabilità morale, di condizione urgente di una “letteratura/realtà”, a cui il lusso dell’immaginazione e della creatività devono cedere il passo. Le idee personali, afferma, sono sacrificate in nome della polifonia e di uno sguardo non appiattito e necessario. La dimensione dialogica del romanzo assolve allo scopo: vari i personaggi del libro, come varie le loro posizioni. In questo senso, è interessante notare come l’esplicita dichiarazione di un punto di vista “neutrale” nasconda piuttosto un deciso occhio sul mondo, certamente complesso, ma privo di tentennamenti.
La protagonista del romanzo, infatti, mostra una parte di sé: è voce di Maha, è voci di donne arabe. Anche in questo passaggio non vengono mostrati dubbi: le donne arabe prendono il loro posto nella società in cambiamento, gli uomini perdono potere e queste si fanno sentire. Le storie personali e familiari nutrono l’artista riversandosi nella scrittura. Da qui la volontà di parlare a musulmane, arabe, capaci di vedere ciò che non si mostra chiaramente: «storie di donne orientali che hanno superato l’uomo, come ne Le mille e una notte», afferma l’autrice. La dimensione femminile nel libro è fatta di pluralità eccentriche, non conformi, spesso in contrasto, ma ognuna di esse veste l’abito dell’intellettuale.
Nella fermezza della voce dell’artista si riscontra quasi un gusto essenzializzante, una “verità” senza mezzi termini, estrema, come la posizione assunta da chi lotta. «Le donne – afferma Maha Hassan – portano sulle spalle gli uomini: vendute e schiavizzate, violentate e spesso ostracizzate per questo, pagano nei conflitti il prezzo più alto». Sono, però, capaci anche di grande riscatto: combattenti, curde, arabe, che nel Rojava diventano modello di democrazia particolare, dando vita a un federalismo impregnato di giustizia, equità e uguaglianza di genere. Nonostante la scrittrice rifiuti la guerra, riconosce come la presa delle armi permetta loro di ricoprire il ruolo di leader, inserendole all’interno di un panorama geopolitico mondiale complesso e spietato.
Temi, eventi, personaggi, reali e fittizi, sono lontani dall’ascrizione a semplici categorie cosificanti/rassicuranti. Spontanea, dunque, la domanda sull’identità ibrida di cui l’Hassan è “portatrice”: donna, francese, curda, siriana, araba? «Scrittrice» risponde. Scrittrice che dice di sacrificare parte della propria immaginazione letteraria nell’intento di dar voce alle pluridirezionalità dell’altrove, senza, però, mettere a tacere le mille sfaccettature dei suoi strati interiori. Questi ultimi, figli di un passato controverso, vivono un presente che sembra non discostarsene, diventano vivido motore nel cammino verso un avvenire migliore.
Alla decostruzione della narrazione canonica si affianca la costruzione di una letteratura solida, consapevole, mai uguale a se stessa. La presunta immobilità del discorso di potere viene spezzata dalla nascita di un grido di riscossa al «sapore di latte materno», come Hassan asserisce. Si ferma e poi continua: «la libertà, scontata, per i cittadini occidentali che non hanno mai lottato per ottenerla, è pesce in scatola se paragonata a quella per cui oggi si combatte nei luoghi dov’è da guadagnare: in queste terre è pesce che nuota nel mare, vivo e ancora da catturare».
La mistica desacralizzata di Hoda Barakat
Tra le personalità intervenute al convegno spicca un’autrice/giornalista Libanese, Hoda Barakat, in esilio in Francia dal 1989. Insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordine delle arti e delle lettere nel 2002 e dell’Ordine nazionale al merito nel 2008, vince il Premio Al Owais nel 2018 e l’International Prize for Arabic Fiction nel 2019 con Corriere di notte, suo ultimo romanzo.
La scelta di inserire una donna non siriana, ma libanese, appare perfettamente in linea con l’intento decostruttivo degli incontri. Se, infatti, le narrazioni proposte si oppongono alla semplicistica rappresentazione categoriale dell’Altro, la voce di una “non-siriana” restituisce l’idea dell’esilio come esperienza intima e personale. In questo senso, analogie e differenze travalicano i confini nazionali e imposti dall’alto e lo stesso termine “esilio”, inflazionato e frequentemente spogliato della sua criticità, ritrova vigore.
La letteratura, come chiave di accesso all’esperienza umana, rende visibile l’invisibile: sfumando, e non definendo, i contorni dell’appartenenza, svela il gioco geopolitico. Corriere di notte, parla al lettore in termini post-strutturali: i vincitori di oggi possono essere i vinti di domani e le guerre, viste in questa prospettiva, sembrano muoversi a casaccio. Ne scaturisce una contronarrazione posizionata, opposta rispetto all’occhio oggettivizzante/neutralizzante della narrazione di potere (De Certeau, 1980). Quest’ultimo si sforza di rendere l’inconoscibile conosciuto e di ricondurre la diversità entro le linee rassicuranti del contorno: lo sguardo prospettico, nella pretesa di eliminare la relazione, si autocolloca al di fuori del contesto, nello spazio d’eccezione (Agamben, 1980). Che si guardi al movimento come minaccia all’integrità “nazionale”, o piuttosto come mancanza di scelta, si è in presenza della negazione dell’individualità. Tanto la retorica dell’invasore, quanto quella della vittima priva di agency, spogliano le singolarità della loro unicità. Da qui l’impossibilità di esistere come soggetti attivi mai uguali a se stessi: l’astrazione rifiuta l’esistenza dell’altro dell’altro e dell’altro da sé. L’esilio, come esplicitazione di una condizione ibrida e in continuo cambiamento, al contrario, rimanda all’individualità soggettiva dell’io: è nel corpo, nel mio corpo si innesta la lotta contro il potere della normalizzazione (Rich, 1987). Hoda Barakat non incarna il Libano, non incarna nulla, se non se stessa.
Durante il dibattito, Samuela Pagani, docente di lingua araba presso l’Università del Salento – interlocutrice, già traduttrice de Corriere di notte –, fa subito riferimento alla potenza della prosa. In esso vengono alla luce aspetti impensati dei conflitti: dalle radio che trasmettono notizie errate se confrontate col vissuto, alla noia del quotidiano in cui il pericolo di vita impedisce il movimento. La pluralità di senso che attraversa il testo rende estremamente facile ed estremamente difficile tradurlo in lingua italiana. Spesso, è necessario un confronto serrato con l’autrice e, ancora più frequentemente, una traduzione letterale. La scrittrice stessa ammette che, come per la poesia e i testi sacri, bisogna mantenersi aperti al significato che ognuno vi ritrova.
Una tale letteratura sfugge agli schemi di astrazione che rendono precario il riconoscimento dell’umano; è concepita come ricerca spirituale, non distinta, e interesse politico radicale; si spinge al punto da dar vita all’incontro di due mistiche apparentemente inconciliabili, islamica e cristiana. Hoda Barakat diventa ciò che è concependo l’esilio, non come nostalgia della patria – prospettiva da lei fortemente rifiutata –, ma come il sentirsi stranieri a questo mondo – concetto caro all’Islam, pronunciato dal Profeta e ispirato al monachesimo.
La componente mistica diventa quasi imprescindibile: da bambina la scrittrice soffre molto per la crocefissione di Cristo, tanto da meditare a dodici anni di entrare in convento. Il racconto dell’aneddoto assume i tratti dell’ironia – elemento che sembra non lasciare mai l’autrice – quando viene spiegato il motivo dell’abbandono del proposito: le suore sono troppo brutte. Si comprende, dunque, dai primi scambi, quale sarà il tono dell’incontro.
La scrittrice, che poco partecipa ad eventi di questo tipo, si dice contenta di essere a Palermo, ma subito aggiunge che gli autori dicono sempre così. Passa con disinvoltura da un registro leggero, desacralizzante, ad uno grave e solenne, quasi che il rapporto controverso e sfaccettato con il sacro, presente nei testi, sia lo specchio di un approccio all’esistenza. Convivono, in Hoda Barakat, punti di vista diversi sul mondo, stratificazioni estreme, prova dell’inafferrabile condizione ibrida delle singolarità situate. Così, islamismo e cristianesimo, ironia e amarezza, rifiuto e nostalgia, lungi dall’essere dicotomie esatte, si sovrappongono in un groviglio indistricabile. «I temi di oggi, dice, mi sono cari: nella scrittura, la lotta tra spiritualità e mondo vero». Pensando alla spiritualità come esilio della religione, diventa possibile essere atei e amare Gesù, essere educati al Cristianesimo e leggere il Corano.
Questa dimensione multidirezionale si scorge anche nel rapporto, astioso, con il proprio Paese, nel decidere di dimenticarlo, e scoprirsi entusiasti per la rivoluzione in atto. La letteratura libanese, cerca miti da rompere, ma sono storie che si nutrono di rancore. «Lasciando il mio paese, pensavo non mi somigliasse; lo chiamavo paese di merda e adesso piango guardando le immagini alla tv». La messa a distanza del Libano, dunque, non è un processo compiuto. Storia e religione si mischiano e la mistica permea il politico. Ciò è chiaramente visibile negli aneddoti familiari in cui si individua una forte matrice contestuale. Nel racconto del passato, ancora una volta, si scorgono tracce ironiche e dissacranti: la nonna, volendo affermare una verità incontrovertibile e desiderosa di invocare il castigo più temibile, giura sulla testa di Mussolini convinta sia un santo. L’autrice, più volte commenta le sue posizioni: «sono mostruosa. Descrivo la mostruosità dei nostri buoni sentimenti. Sono ingenua. Ingenua e diabolica allo stesso tempo».
Tattiche altre
Volendo tirare le fila di una settimana densa di riflessioni, i propositi esplicitati all’apertura degli incontri sembrano raggiunti. L’arte, nella sua capacità di svelare il potere che si insinua nel quotidiano, nell’ovvio normalizzato e nel dato-per-scontato (Foucault, 1976), riesce, seppur mai pienamente, a proporre vie altre di significazione, contestatrici di violenze e discriminazioni. Ci si interroga sul deciso posizionamento di queste donne. Se, da un lato, la posizione prospettica resta inseparabile dall’essere-nel-mondo – il Dasein heideggeriano (Heidegger, 1927) –, dall’altro, si corre il rischio di nuove categorizzazioni ed essenzializzazioni. Certamente, nella lotta, nella presa di coscienza di una condizione politica mai libera dalle asimmetrie di potere, non c’è spazio per l’indecisione. Paradossale appare l’idea che la contestazione, in armi e di pensiero, pratichi il dissolvimento dei confini per poi professare un nuovo limes genderdizzato. Come risolvere tale nodo stridente? Se nell’attraversamento degli ostacoli sta la natura imprescindibile al movimento (Deleuze-Guattari, 1980), la consapevolezza dell’impossibilità di uno sguardo neutrale sugli eventi, mai slegato dal contesto, resta il fulcro di una letteratura in lotta, promotrice di un avvenire migliore, ma aperto alla tolleranza dell’altrove inconoscibile.
Così, alle strategie istituzionali che mappano lo spazio, si oppongono le tattiche di chi cammina nei luoghi e si mischia al rumore del quotidiano. Lo sguardo a volo d’uccello si contrasta praticando il movimento aperto all’imprevedibile (De Certeau, 1980). Le protagoniste degli incontri sono donne che hanno calpestano il suolo di cui parlano, scegliendo poi di abbandonarlo per salvare la propria vita. Questa esperienza segna, come una cicatrice, i loro corpi e si trasforma, attraverso il genio artistico che le contraddistingue, in voce contestatrice che rompe il silenzio vuoto delle dinamiche e delle retoriche geopolitiche.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1990
M. de Certeau, L’invention du quotidien, Paris, Union gènèral d’èditions, 1980
M. Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976
C. Geertz, The Interpretazion of cultures, NewYork, Basic Books Inc.,1973
M. Heidegger, Essere e tempo, Halle, Niemeyer, 1927
Deleuze e Guattari, Milles Plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris, Les Editions de Minuit, 1980
A. Rich, Notes Toward a Politics of Location in A. Rich, Blood, Bread and Poetry: Selected Prose 1979-1985, London Virago, 1987
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Maria Rosaria Di Giacinto, si è laureata con lode nel 2017 in Studi Filosofici e Storici presso l’Università degli Studi di Palermo. Nello stesso anno ha partecipato come relatrice al convegno internazionale Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto, da cui è stato tratto nel 2019 un volume da lei curato e in cui è inserito il suo saggio Politiche di migrazione irregolare. Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto. Nel 2019 è relatrice nel convegno Dai Vespri Siciliani a Strade Sicure, ne ha raccolto gli atti per la pubblicazione che comprende un suo contributo: Ricerca sul campo e cambiamenti di prospettiva. Ha, inoltre, partecipato a numerosi scambi all’estero, all’interno di progetti UE. Laureanda in Studi Storici, Antropologici e Geografici, si occupa attualmente di migrazioni e cambiamenti climatici.
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