di Mario Turci
L’articolo di Grimaldi e Porporato è datato a quegl’anni (che possiamo definire di “precrisi”) in cui in molte regioni si registrava un aumento quantitativo di esperienze espositive orientate all’etnografia. Sono stati anche anni di incontri, discussioni, scambi e dibattiti sul senso museale delle raccolte, sulla loro gestione, sul rapporto pubblico/privato che vide il tentativo, in molte realtà, di collaborazioni fra Enti e privati, sia singoli che associati. Sono stati anni segnati da qualche speranza e di certo animati da quello che amo definire militanza etnografica. Non posso esprimermi sull’attendibilità dei dati presentati da Grimaldi/Porporato, ma di certo la tendenza di quegl’anni registrò indubbiamente, a livello nazionale, un aumento di esperienze d’ispirazione museale (uso il termine “ispirazione” perché molte di queste, seppur dicendosi museali, del museo non avevano lo statuto, trattandosi piuttosto di esposizione di collezioni e raccolte).
Gli anni a cui fa riferimento l’articolo, ponevano al centro dei nostri interessi la pratica etnografica, la critica alla registrazione della memoria come pratica di nostalgia, il museo come presidio politico di militanza culturale, la necessità di uno stretto rapporto fra ricerca e museo, sostanzialmente l’intento fu quello di approfittare della buona salute quantitativa degl’interessi etnomuseali, per aprire spazi di confronto e riflessione sulla qualità e “durabilità” delle esperienze e “prove” di museo.
Oggi, ormai lontani da quegl’anni (di cui spesso ricordiamo il “fervore”, con un po’ di nostalgia), lo stato complessivo della museografia etnografica locale, registra sconfitte, la chiusura o lo “spegnimento” di molte esperienza museali, ed altre in seria difficoltà. Difficoltà in cui si trovano anche molte di quelle realtà che furono spesso punti di riferimento per tutta la comunità etnomuseale. Gli attuali investimenti intellettuali e istituzionali, sul fronte dei patrimoni immateriali, a cui a suo tempo i musei etnografici locali hanno dato cittadinanza, hanno trovato il proprio terreno di sviluppo in ambiti in cui spesso i musei non sono invitati e neppure interpellati. Gli orientamenti e i valori sanciti dalla Convenzione di Faro, ad esempio, che hanno percorso molta parte delle intenzioni museali etnografiche, trovano oggi spazio di discussione lontano dei musei locali, che diversamente potrebbero porsi quali presidi attivi e di prossimità, nel rapporto fra patrimonio, partecipazione e democrazia. Dopo aver praticato un desiderio di museografia etnografica, che diventasse sostanzialmente luogo della politica per un riconoscimento attivo della dignità della memoria, non abbiamo saputo partecipare a quel movimento che ha portato a valorizzare la sostanza di tali temi, i cui protagonisti attuali sono spesso portatori di istanze lontane o lontanissime dalle stanze della nostra museografia.
Di certo, quanto descritto nell’articolo di Grimaldi/Porporato, induce a pensare a quante delle esperienze che hanno fatto parte di quei numeri, siano riuscite effettivamente a essere luoghi della socialità condivisa, di pratica museale di prossimità. Quanto di quei musei abbiano realizzato circuiti di comunità. Allora l’articolo va letto come un segnavia proveniente da un momento della nostra storia etnomuseale, che deve invitarci a ripartire ora dai dati di qualità. Perché avremo una speranza di futuro, solo se sapremo rispondere alle attuali sfide, che spesso mettono in forse anche la stessa esistenza e sopravvivenza dei musei etnografici, riportando al centro dei nostri interessi, quei valori patrimoniali che, nel museo di prossimità, sono occasioni per la realizzazione di “effetti” di comunità, di relazioni, di scambio di visioni e narrazioni del mondo. I musei etnografici del contemporaneo dovrebbero innanzitutto essere capaci di accogliere narrazioni e di narrarsi.
I musei etnografici locali sono sempre musei di frontiera e le difficoltà che vivono, sono sempre relative ad un fattore umano. Spesso non sorretti da istituzioni o da strutture che ne garantiscano la durata, seguono le vicende dei loro creatori (pensionamenti, scioglimenti associativi, calo d’interesse, ecc). Altro limite che ha permesso e permette l’avvilimento dei progetti e delle volontà, è stato spesso nella difficoltà di fare rete, di costruire una comunità. Intenti di rete che, avviati negli anni ’90, hanno visto nell’ultimo decennio un calo di tensione, se non un chiaro disinteresse da parte di molti. A parte il Museo Etnografico di Santarcangelo di Romagna e l’ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico) di Nuoro, che negli anni hanno cercato di offrire occasioni nazionali d’incontro, sotto l’egida di Simbdea, altri musei, che con una struttura istituzionale solida e ottimi finanziamenti avrebbero potuto porsi al centro dello sviluppo di una comunità museale etnografica, hanno scelto di non orientare in tal senso i loro interessi).
In Breve storia del futuro, Jacques Attali immagina che la sopravvivenza di una condizione democratica del vivere sociale, possa realizzarsi in futuro attraverso piccole comunità democratiche, nuclei resistenti capaci di proliferare nel tempo. In questi anni di alti e bassi, ho voluto seguire, e anche sostenere quando ho potuto, un piccolo gruppo resistente, una bella esperienza di museo di comunità, che negl’anni ha saputo tenere ferma la barra degl’intenti iniziali ed anche rilanciare. Si tratta del Museo Uomo/Ambiente di Bazzano (Provincia di Parma).
«Il Museo Uomo Ambiente. Il territorio nel tempo di Bazzano – ci racconta Desolina Ghirardi, insegnante in pensione, animatrice del museo e punto di riferimento per la vita del museo – è stato inaugurato il 14 dicembre 2003, all’interno di una casa torre del 1200, posta nel centro storico del paese. L’immobile, di proprietà della famiglia Cantini, è stato concesso in uso gratuito al Comune di Neviano degli Arduini che ne ha curato il restauro. L’attività del museo è curata e gestita dal Gruppo Culturale “Il Camino” che ha avuto in convenzione dal Comune di Neviano Arduini i locali restaurati ed ha sviluppato il progetto di un museo in cui fare entrare non solo gli oggetti della civiltà contadina, ma anche il territorio, il paesaggio, l’uomo.
La “voglia di museo” è nata grazie alla trentennale attività di ricerca sul territorio, condotta da alunni e insegnanti della locale scuola primaria. Nei locali del museo vengono allestiti percorsi periodici a tema della durata di circa due anni. Ciò è possibile grazie al fatto che gli oggetti che entrano nel museo sono concessi in comodato dagli abitanti del paese, restano lì per tutto il tempo necessario, poi tornano dove sono rimasti per tanto tempo, in una casa, in una stalla, in un fienile. Questa scelta è dettata dal fatto che in nessun modo si vuole impoverire il territorio e dalla consapevolezza che l’originalità e la ricchezza di questo museo sono determinate dalla straordinaria interazione con la popolazione.
Il museo è stato pensato, e così continua a svilupparsi e a crescere, come luogo di incontro. Qui i bambini incontrano nonni che costruiscono giocattoli, giocano, lavorano, raccontano, chi vuole imparare antiche abilità e scoprire la gioia di vedere nascere dalle proprie mani un cesto, una scopa, una tela, incontra chi, nell’infanzia ha imparato a sua volta da una nonna o da un nonno.
Qui, davanti al camino, il centro della casa contadina, ci si incontra per “Le chiacchierate” che possono essere d’arte, di letteratura, di antropologia, di musica. La soffitta del museo è da sempre il luogo magico da cui bimbi e adulti fanno fatica a staccarsi, è il luogo in cui si può giocare con il frumento o rivivere attraverso alcuni oggetti momenti che tornano alla memoria dolcemente e intensamente» (Desolina Ghilardi).
Nello stato attuale delle cose, mi chiedo se non sia utile orientare i nostri progetti di rete verso quelle realtà museali “resistenti”, ancora capaci di fare “comunità”, anche attraverso piccole pratiche democratiche patrimoniali. Una tale rete potrebbe rispondere non solo al bisogno di molti, di uscire dalla solitudine per condividere esperienza e riflessioni, ma anche ad una auspicabile “contaminazione” di quel modo di “fare museo” e al sostegno di coloro che, oggi in difficoltà, non vogliono darsi per vinti.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
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Mario Turci, antropologo e architetto, direttore del Museo Etnografico di Santarcangelo di Romagna dal 1980 al 2018 e della “Fondazione Culture Santarcangelo” dal 2008 al 2018. Attualmente è Direttore del “Museo Ettore Guatelli” (Ozzano Taro di Collecchio). Docente presso Scuole di specializzazione in beni Dea a Perugia e a Roma, è socio SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i beni Demo-Etno-Antropologici), ICOM (International Council of Museums), SIAC (Società Italiana di Antropologia Culturale), SIAA (Società Italiana di Antropologia applicata). Ha progettato diversi Musei ed è autore di numerose pubblicazioni. Si segnalano tra gli scritti più recenti: Per una critica del Paesaggio Culturale. Sguardo, relazione, percezione (2016); Un’estetica del trattenere; Raccogliere, collezionare e dar voce agli oggetti (2018); Plastica del pensiero. Appunti per un’etnografia della cultura materiale (2018); Guatelli contemporaneo (2018).
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