Un viaggio è spesso auspicabile per molte ragioni, oltre a quelle legate al proprio lavoro. Vivere a lungo nel Paesi arabi mi ha portato ad osservare in chiave comparativa le realtà culturali diverse dal mondo islamico, oggetto specifico dei miei studi. Anche se il viaggio non è finalizzato alla ricerca, porta comunque a rileggere le nostre conoscenze e la nostra realtà con altri occhi.
Accade così che in occasione di una visita di famiglia in Canada ho l’occasione di vedere gli aspetti positivi della politica di accoglienza del Governo canadese nei confronti delle comunità immigrate, ed inoltre la visita dei musei rivela una visione diversa e innovativa della concezione espositiva in questo Paese. Quando si è abituati ai musei tradizionali della vecchia Europa o a quelli dei Paesi arabi, come ad esempio della Tunisia o dell’Egitto, ci si trova di fronte alla celebrazione del passato classico: i monumenti dell’antica Roma, in Italia come a Tunisi, o dell’Egitto faraonico al Cairo.
Il museo rappresenta l’immagine identitaria che una nazione costruisce per sé e per presentarsi agli altri, ed è espressione della propria forza culturale, come ad esempio la Galleria Borghese di Roma. Quando si passa alle esposizioni e agli allestimenti delle gallerie di arte moderna e contemporanea si esprime l’evoluzione nella propria conoscenza, nel gusto e nella capacità di acquisizione di nuove opere.
Per restare in Italia, l’apertura all’arte internazionale è testimoniata dal MAXXI di Roma progettato dall’architetta irachena Zaha Hadid. Anche nell’accogliere le mostre si legge una volontà di apertura politica oltre che culturale, come testimoniano le esposizioni degli artisti africani o dell’esercito di terracotta cinese alle scuderie del Quirinale a Roma o la recente mostra sui tesori dell’Arabia preislamica alle terme di Diocleziano.
Un Paese relativamente giovane come il Canada riserva interessanti sorprese, soprattutto se si inizia visitando il Museo di arte contemporanea di Montreal e si trova una mostra di opere dell’artista nativa canadese Rebecca Belmore. Si resta affascinati dalle opere belle ma anche inquietanti della Belmore che stimolano a riflettere sul tema delle colonizzazioni del passato, come appunto la conquista del Canada e dell’America del Nord. Altri musei canadesi rendono omaggio ai nativi, anche se con modalità diverse; ad Ottawa come anche a Toronto i quadri di pittori occidentali emigrati in Canada sono esposti a fianco ad opere d’arte dei nativi. Le prime pitture degli immigrati testimoniano lo sforzo titanico dei pionieri nell’affrontare le difficoltà della natura e del clima, ma mostrano anche scene di vita e di caccia e di commercio di pelli. Non si percepisce il dolore della popolazione sottomessa, non sono presenti scene di violenza.
La fama dell’arte dei nativi è cresciuta anche grazie alle iniziative promosse dal Museo McCord che invita ogni anno un giovane a confrontarsi con le opere di altri artisti nativi affermati, molti dei quali hanno superato i confini nazionali imponendosi sul mercato mondiale come Kent Monkman.
Le opere della Belmore ci portano indietro a quel tempo con una straordinaria forza espressiva, capace di farci immaginare la violenza subìta dalla popolazione locale; con pochi oggetti riesce a trasmettere il dolore degli stupri creando delle associazioni di idee che veicolano il senso dell’abuso. Ad esempio, un tronco di albero che assomiglia alla forma di un semi busto femminile è coperto da chiodi, tanti quante le donne native violentate e/o scomparse negli anni.
La gigantografia di una donna distesa di schiena è forse ancora più impressionante: adagiata come Paolina Borghese su un giaciglio bianco, è coperta da un candido lenzuolo che le avvolge i fianchi e la schiena e tagliata in diagonale da una cicatrice decorata da una frangia di perline rosse. La frangia è cucita sulla cicatrice, come se fosse l’orlo di uno scialle e dalle cuciture sulla pelle scendono fili di perline come rivoli di sangue che colano macchiando il candido sudario su cui è adagiata.
L’artista mette in evidenza le contraddizioni su cui noi basiamo i nostri giudizi estetici: è bello ciò che nasce dal dolore altrui? La donna è bella come un oggetto, il suo corpo è come uno scialle decorato da una frangia di perline; questa bellezza però ha un prezzo pagato dalle donne native, con gli stupri e le violenze perpetrati dai conquistatori del loro territorio. Può la bellezza nascere dal sacrificio delle donne martiri dell’invasione coloniale? La Belmore rende omaggio alle vittime e trasforma in un’opera d’arte la tragedia di un popolo reso schiavo dall’avida prepotenza dei colonizzatori. Simili delitti sono accaduti altrove nel mondo ma capita ancora raramente di vedere documentato il punto di vista delle vittime. Al MOMA di New York, ad esempio, sono state esposte mostre fotografiche sulla guerra civile in Libano o la repressione dei neri negli USA.
La Belmore aiuta a capire come un’artista, erede di una popolazione vittima di un’ingiustizia, può rivisitare la propria storia trasformando la sua drammatica testimonianza in un’opera d’arte. Per la Belmore «l’arte è libertà: libertà di parlare, di pensare di interrogare». Questa sua opera è un simbolo che evoca l’orrore delle donne schiavizzate che, ieri come oggi, pagano il prezzo dell’inarrestabile fame di possesso degli uomini che le espropriano del corpo e anche della vita. Ignorate dalla storia ieri e dai media oggi, impotenti di fronte agli abusi, sono celebrate nelle pubblicità come ammiccante oggetto di piacere e pagate con una manciata di denaro che ricorda quei fili di perline incistate nella pelle.
Torniamo con la mente in Italia dove solo di recente si inizia a dare un po’ di attenzione al dolore delle donne, perché il più delle volte resta ancora inespresso. Ancora oggi capita che i giornalisti commentino l’ennesimo caso di donna uccisa insinuando che in fin dei conti “lei se l’è cercata”. Da noi le donne nei manifesti pubblicitari sono belle e seducenti, preziosi oggetti di desiderio da possedere come un’auto o un profumo o un qualsiasi bene di consumo. In Italia ancora si discute sulla credibilità del “me too”, le stesse donne sovente commentano «avranno avuto la loro convenienza», o si chiedono con diffidenza «perché ci pensano così tardi?». Pochi sono sfiorati dal pensiero che “quelle” abbiano aspettato tanto tempo per trovare il coraggio e la sicurezza che viene dalla posizione acquisita, quando non si è più giovani e ricattabili, e quando finalmente l’evoluzione della specie dimostra che si può essere disposti ad ascoltarle.
In Canada almeno l’apparenza è molto diversa: a Montreal all’uscita della fermata della metropolitana più centrale della città si trovano decine di grandi manifesti che mostrano le immagini di donne presentate come «le protagoniste del progresso del paese». I volti di professioniste, dirigenti, insegnanti, medici, architette e attiviste di ONG rivelano quanto sia multiculturale questo Paese costruito con il contributo delle native, delle cinesi, delle arabe, delle africane e delle europee.
A Toronto, città di 6 milioni di abitanti, la metà della popolazione è di origine non europea e sempre la metà è costituita da immigrati che non sono nati in Canada. In giro si respira un’aria di tolleranza e rispetto; al sabato pomeriggio le persone si affollano sul lungolago dell’Ontario distesi e spensierati abbigliati con indumenti di ogni tipo e foggia: sari, veli neri, abiti colorati o molto succinti non destano scalpore né sguardi stupiti.
Nel museo della capitale ad Ottawa, come accennavo prima, accanto ai quadri dei conquistatori inglesi e francesi sono esposte le sculture e i manufatti dell’artigianato dei nativi. L’arte esprime lo spirito degli esseri umani che celebrano la bellezza, la gioia del ricordo della nascita, del matrimonio, o la tristezza del lutto. Visitare i musei canadesi fa venire in mente l’intuizione avuta da Ludovico Corrao a Gibellina quando ha creato il Museo delle Trame Mediterranee, dove i manufatti di anonime artigiane ed artigiani testimoniano il persistere dei segni di antiche culture nell’intreccio di trame, colori e simboli che rappresentano l’identità mediterranea. Una raccolta che nasce prima del Museo del Mediterraneo di Marsiglia e che, come quello, vuole dimostrare attraverso i manufatti dell’arte e dell’artigianato i valori condivisi della variegata comunità mediterranea.
In uno slancio creativo Corrao, con il contributo del direttore del Museo Enzo Fiammetta, ha messo insieme manufatti artigianali e opere d’arte di grandi interpreti dell’astrattismo contemporaneo. L’opera di Giulio Turcato che guarda all’arte africana; quella di Corrado Cagli che scompone la struttura del corpo e ne valorizza i dettagli; quella di Pietro Consagra che ingigantisce i particolari delle trame dei merletti fino a farli diventare facciate della città frontale; quella di Carla Accardi che riproduce un vortice di lettere arabe e segni di un linguaggio arcano e misterioso. Le opere dei contemporanei e quelle degli artigiani, l’oggetto d’arte dell’individuo che emerge dall’anonimato e gli innumerevoli ricami e i costumi sfarzosi sono messi a fianco e fanno vivere il museo tenendolo aperto e in dialogo con l’evolversi della vita.
A volte è difficile capire i segni astratti dell’arte figurativa; mentre l’orecchio si è abituato alle armoniche dissonanze del jazz, l’immagine stenta ancora a farsi comprendere perché poco insegnata a scuola e troppo di nicchia all’Università. Oggi forse il rapido alternarsi di immagini e colori su facebook può facilitare la fruizione di certe opere come quelle di Andy Warhol, geniale grafico e vetrinista capace di elevare ad arte nobile il più semplice prodotto popolare.
L’apertura del Canada al mondo non si limita all’arte museale, il Paese investe molto nella ricerca e finanzia numerose borse di studio per studenti stranieri attraendo i migliori studiosi di materie scientifiche ma anche i musicisti. L’Università Macgill, ad esempio, organizza corsi di perfezionamento per quartetti d’archi, il MISQA, a cui partecipano musicisti provenienti da tutto il mondo. Ogni estate a Montreal si svolge un’importante festival internazionale di musica. Dal conservatorio emergono nuove generazioni di valenti musicisti e sempre in Canada si formano anche valide promesse della lirica.
L’arte può cambiare il mondo? L’arte stupisce e a volte ci lascia attoniti, ma altre volte ci interroga e provoca inquietudine quando denuncia l’ingiustizia, come Guernica di Picasso o i dipinti di Bansky sul muro costruito dagli Israeliani in Cisgiordania o le opere di Rebecca Belmore. L’arte tuttavia non è politica, come affermava Adonis nel Libano degli anni ’50, quando il dibattito culturale verteva in gran parte sulla letteratura impegnata; secondo il poeta siriano la poesia contiene concetti etici, denuncia ma non dà soluzioni. Indica con un nuovo linguaggio il mondo e il rapporto tra le parole e le cose da una prospettiva umana, al cui centro pone la dignità della vita, la bellezza e la maestosità della natura. Adonis è testimone di una resistenza alle forze del colonialismo, che si trascina da ormai due secoli sulle rovine dell’Impero ottomano dall’Iraq all’Algeria.
Oggi vediamo foto e filmati che ci narrano solo una parte della storia; la versione dei fatti come la narrano gli altri non ci è nota. Mancano le traduzioni e la diffusione dell’opinione dei vinti; solo l’arte, e in particolare la poesia araba, riesce a rompere il muro di silenzio facendoci arrivare in splendidi versi la dimensione di un dramma epocale.
Il poeta siriano Adonis crede, come la Belmore, nella missione rivoluzionaria dell’arte, ma non in senso istituzionale. Crede che l’arte, per lui la poesia, rinnovi il significato dei segni e delle parole; mostra le ferite ma dà speranza e indica un’altra via verso il cambiamento. La Belmore ci mostra i segni da osservare con altri occhi. Il poeta ci fa sentire le grida del disastro e ci ricorda i valori più alti dell’umanità a cui bisogna tornare. La Belmore indica la necessità di tornare ad immergersi nella natura per purificarsi, con un video che riprende una coppia che cammina urlando la propria sofferenza interiore in un bosco innevato incontaminato. L’arte ci ricorda che abbiamo bisogno di bellezza, ma questa bellezza deve essere buona, non può essere solo intrattenimento o narcisistico compiacimento. Una bellezza utile, che sollecita il ricordo e la riflessione e aiuta a rivivere il bene e il male attraversato da chi ci ha preceduto, per aiutarci ad orientare la nostra mente verso una nuova dimensione umana, fuori dall’abisso confuso e senza valori in cui viviamo.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
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Francesca Maria Corrao, ordinario di Lingua e Letteratura Araba, alla Luiss Guido Carli Roma, ha studiato in Italia e al Cairo la cultura del mondo arabo e islamico. Tra le sue pubblicazioni numerosi articoli in sedi internazionali e nazionali e gli approfondimenti su: La rinascita islamica (ed. Laboratorio antropologico, Università di Palermo 1985); Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987, Mesogea 2001) Le storie di Giufà (Mondadori 1989, Sellerio 2002), Adonis. Ecco il mio nome (Donzelli 2010), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea (Mondadori università 2011). Assieme a Luciano Violante ha recentemente curato il volume edito per i tipi de Il Mulino L’Islam non è terrorismo.
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