Il concetto di globalizzazione, com’è noto, non è nuovo. Si può fare risalire, in qualche modo, al momento della scoperta dei primi caratteri mobili di stampa da parte di Jhoannes Gutenberg nel 1439, che ridusse il pianeta a un “villaggio globale” secondo l’espressione usata, nel ’900 dal sociologo Marshall Mc Luhan.
Anche nelle scienze (Teoria generale dei sistemi, teorie del caos, teoria quantistica, teoria della complessità), progressivamente, è stato messo in luce un processo di interazione e interconnessione.
A livello economico, la globalizzazione, soprattutto a partire dal 1989 dopo la caduta del muro di Berlino, ha reso il mondo un mercato globale. Francis Fukuyama ha parlato addirittura di “fine della storia” nel senso della fine di un mondo diviso in blocchi e di trionfo del capitalismo come il migliore dei mondi possibili.
Da quel momento trionfano il neoliberismo globalizzato e l’ideologia del pensiero unico basata sullo Stato minimo, la mano invisibile dello Stato, teorizzati dalla scuola degli economisti di Chicago (c.d. Chicago boys), con a capo il noto economista liberista Robert Friedman, che ha avuto i suoi esecutori politici in Margaret Thatcher e in Ronald Reagan e in Italia Mario Monti.
Un certo numero di multinazionali gestiscono l’economia globale, controllano la produzione, la distribuzione, il consumo e l’informazione. Godono di extraterritorialità e di deregulation. Ciò ha portato a un indebolimento degli Stati-nazione, che hanno perso la loro funzione di mediazione sociale e vengono utilizzati per socializzare i rischi e privatizzare i profitti. La politica è diventata a rimorchio dell’economia.
Il denaro, universale simbolico di scambio, è l’oggetto più facile da globalizzare attraverso la rete telematica mondiale che apre la mattina a Tokio e chiude la sera a New York. Il denaro produce denaro a mezzo di denaro. È ciò che viene chiamata la finanziarizzazione dell’economia, ossia il passaggio a un’economia post-monetaria, lo scollamento tra denaro e produzione, tra economia reale e virtuale. Le grandi multinazionali, compresa l’economia criminale, possono spostare in tempo reale ingenti capitali in cerca di speculazione (il famoso spread che abbiamo imparato a conoscere) fino a potere fare fallire gli stessi Stati-nazione, almeno quelli di non grandi dimensioni.
Il loro Moloch è il dio-mercato, un fantasma invisibile e onnipresente appunto come un dio. Diffondono il mito della automaticità dei mercati, i quali creano equilibrio ed equità. Detto altrimenti, il potere è concentrato in una superclasse di manager e banchieri che siedono nei consigli di amministrazione delle multinazionali e, al tempo stesso, negli organismi internazionali (Banca mondiale, F.M.I., WTO), e che guadagnano retribuzioni scandalose.
Di fatto, la globalizzazione neoliberista ha ridotto le tutele, ha aumentato le disuguaglianze, trasferendo miliardi di dollari dal 99% all’1% della popolazione globale. Miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno e sono privati di diritti fondamentali.
La globalizzazione neoliberista non ha generato soltanto condizioni di fame e di miseria ma minaccia la sopravvivenza dell’umanità. Ci troviamo di fronte al pericolo di una doppia catastrofe: ecologica e antropologica.
Che fare? La questione fondamentale da affrontare è quella del potere. Il potere non deve essere
necessariamente demonizzato. Esso può essere esercitato per interessi privati e personali, per favorire amici, parenti e clienti ma può anche essere esercitato come servizio per la collettività e il bene comune. Ma, perché ciò avvenga, Il problema primario è come evitare che il potere sia concentrato nelle mani di oligarchie economiche, politiche e mediatiche. Come è stato già scritto e detto, attualmente, l’1% opprime il 99% della popolazione mondiale.
A mio giudizio, non si rimedia al disastro in cui ci troviamo se non attraverso la partecipazione di moltitudini di persone alla vita pubblica. Soltanto l’esercizio diffuso della cittadinanza attiva può portare una trasformazione molecolare in tutte le microstrutture della società. Non soltanto bisogna liberare la politica dal sequestro della finanza internazionale e farla tornare al primo posto per dirigere e non subire le scelte economiche ma bisogna che essa non sia concentrata nelle mani di pochi “professionisti della politica”, il cui agire politico è totalmente slegato, separato dal popolo sovrano.
Se ci soffermiamo ad osservare quel che avviene nel nostro Paese, appare del tutto evidente che ci troviamo di fronte a una crisi di rappresentanza, ossia assistiamo a uno scollamento tra Palazzo e Popolo, tra delegati e deleganti. È vero che la storia è stata sempre una storia di élites politiche: prima, il potere assoluto di monarchi per discendenza e, dopo la rivoluzione francese, le due concezioni dominanti, la liberale e la socialista, esitarono verso la tragedia dei totalitarismi. Dopo la seconda guerra mondiale, le democrazie che governano l’Occidente sono democrazie formali, fondate sulla rappresentanza, cioè sulla delega. Nonostante, la più parte delle costituzioni democratiche stabiliscano che la sovranità appartiene al popolo e sebbene la nostra, in particolare, abbia una serie di norme che cercano di rendere effettiva la democrazia attraverso la partecipazione popolare nei partiti, movimenti, negli enti locali, tuttavia, ai principi stabiliti dalla carta costituzionale non sono seguite leggi ordinarie che rendessero effettivamente funzionante la democrazia. Perciò la sovranità popolare appare ormai sempre più una fictio iuris. Il popolo sovrano, come aveva evidenziato Jean Iacques Rousseau, viene chiamato al voto ed espropriato già all’indomani del voto.
Il nodo fondamentale da affrontare è, quindi, come evitare una delega senza controlli. Il principio di rappresentanza, così come concepito dalla Costituzione francese del 1791, conteneva in sé la formula per la vanificazione della sovranità popolare, definendo i deputati “rappresentanti della nazione” e non di un collegio particolare e ciò comportava che dovevano svolgere il loro compito senza vincolo di mandato. Ecco il vizio di origine! Tale principio fu copiato in tutte le costituzioni europee e anche in quella italiana che, all’art. 67 prevede il divieto di mandato imperativo, per cui ogni deputato e senatore non rappresenta gli elettori del proprio collegio ma l’intera nazione senza vincolo di mandato. In verità, il vincolo di mandato esiste soltanto verso il partito, al quale il deputato deve obbedire, altrimenti rischia di non essere ricandidato.
I partiti che, secondo la dizione dell’art. 49 della Costituzione, sono formati da “cittadini che hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, e quindi dovrebbero essere l’espressione della sovranità popolare, sono, invece, diventati autoreferenziali, luoghi di carrierismo perché la selezione della classe dirigente non avviene per meriti e competenze, bensì per cooptazione di porta-borse; i capi sono inamovibili; la pratica politica è verticistica e burocratica e le decisioni, anziché essere un processo che dal basso arriva verso l’alto, sono calate, invece, dai vertici alla base. La democrazia è degenerata in oligarchia. I partiti, in particolare quelli che sono nati con l’obiettivo di rappresentare gli interessi del popolo degli esclusi e dei più poveri, hanno abbandonato le grandi narrazioni, che proponevano orizzonti di senso e sono ormai disancorati da ogni assiologia. Quando manca a monte un sistema di valori, di mete e perfino di utopie, l’agire politico rischia di scadere nella corruzione, nella privatizzazione dello spazio pubblico. I governanti e la P. A. (Pubblica Amministrazione) danno un volto allo Stato come nemico dei cittadini, i quali vivono un senso d’impotenza e di frustrazione.
Ciò ha contribuito ad allontanare i cittadini dalla politica e ha prodotto una disaffezione soprattutto giovanile. Ma attenzione: siamo in presenza non di un fenomeno meramente casuale-lineare ma di un fenomeno circolare. Da una parte, c’e l’autoreferenzialità della politica, dall’altra, la separatezza tra rappresentanti e rappresentati è determinata anche e soprattutto dalla passività dei cittadini, dal mancato esercizio della cittadinanza attiva. Una passività, in larga parte indotta dallo stesso linguaggio dei mass-media che riprendono, in qualche modo, quello dei teorici della circolazione dell’èlites politiche (Wilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Robert Michels) che parlavano di “classe politica”. Gli stessi uomini ai vertici della politica, ma anche gli aspiranti, i consiglieri comunali di piccole comunità si autodefiniscono “noi politici”, dando l’immagine della politica come una professione. Nello stesso tempo è stata diffusa l’ideologia della politica come cosa sporca in sé.
In verità, non credo di esagerare dicendo che la politica è la cosa più importante della vita. Essa decide i nostri destini, decide sui nostri diritti alla salute, all’istruzione e alla cultura, a un lavoro dignitoso. Compie le scelte che determinano una qualità migliore o peggiore della nostra vita. E proprio per questo la politica non può essere una professione. Ha ragione Hanna Arendt allorché scrive che “tutti coloro che esercitano la cittadinanza attiva sono politici”, perché vivono nella polis, dedicano una parte del proprio tempo alla comunità e al bene comune. Hanna parla di “felicità pubblica”. La mia idea è che tutti dovrebbero avere un lavoro e dedicare una parte del proprio tempo al servizio della comunità. Chi giunge a ricoprire cariche istituzionali nazionali, deve esercitarle per un tempo limitato, mettendosi in aspettativa dal proprio lavoro, per poi riprenderlo alla fine del proprio mandato politico, ricongiungendo i periodi di contribuzione ai fini della pensione. Verrebbero meno, in tal modo tutti i privilegi di cui oggi godono i parlamentari, comprese le doppie o triple pensioni. Il rappresentante deve rispondere del proprio operato ai rappresentati del collegio, attraverso delle assemblee trimestrali, dove rende conto della sua azione politica e deve essere data ai rappresentati la facoltà di revocare il mandato al deputato quando questi tradisce il rapporto di fiducia con gli elettori.
Occorre abolire il clero politico che usurpa la sovranità popolare ed estendere la pratica sociale e politica in tutte le sedi, i luoghi e le occasioni dove nascono i rapporti sociali. Passare da una democrazia una tantum a una democrazia continua. Come scriveva Rousseau, la democrazia non può essere rappresentata.
Se tutte le persone fossero libere dal bisogno e consapevoli, le minoranze non potrebbero dominare sulla maggioranza dei cittadini. Se le cose vanno come vanno, “la culpa è la tò” che non partecipi, per citare una frase di un poeta di questa terra, Ignazio Buttitta. Come dice Hanna Arendt, “se lo spazio pubblico si restringe, la politica si sclerotizza”. E allora occupiamo in massa lo spazio pubblico, se vogliamo cambiare la politica.
La scommessa di oggi per cambiare la politica è la partecipazione attiva e diffusa da parte di tutti coloro che non vogliono rassegnarsi alla riduzione/soppressione di diritti e tutele fondamentali. La politica deve tornare a essere passione, ma passando dalle passioni negative (egoismo, invidia,competitività, avidità) a quelle positive (speranza, ascolto, confronto, autorealizzazione nella comunità).
So che c’è tanta sfiducia e che le cose appaiono senza speranza ma, forse, è il caso di scommettere sulla speranza di potere realizzare una società più giusta e una democrazia sostanziale, che coniughi la libertà con l’uguaglianza, i diritti civili con quelli sociali, il locale con il globale. Bisogna espandere quel processo iniziato a Porto Alegre (bilanci partecipati, decisioni dal basso attraverso un libero confronto) in ogni comunità locale, come già avviene in tante realtà ma anche rendere più frequenti quei momenti di partecipazione a livello globale portate avanti da movimenti come Occupy Wall street e gli Indignados.
Oggi, donne e uomini dell’Africa mediterranea e del vicino Oriente, dell’America latina, dell’Asia e della Birmania si mobilitano attraverso le reti sociali, occupano piazze, rivendicano libertà e diritti. Il rifiuto delle oligarchie è comune a donne, uomini e giovani di tanti Paesi. Sempre più persone di luoghi diversi parlano lo stesso linguaggio, si riconoscono in una narrazione comune, rivendicando, come scrive Stefano Rodotà, il diritto di avere diritti. La rivoluzione dell’uguaglianza, rimasta incompiuta nel secolo scorso, è possibile se cresce la capacità di autodeterminazione delle persone con un modo nuovo d’intendere i legami sociali, mettendo al centro ciò che Franco Cassano chiama “la ragionevole follia dei beni comuni”, come l’aria, l’acqua, il cibo, la salute, la conoscenza. Beni che appartengono a tutti e a nessuno, a cui tutti possono accedere e su cui nessuno ha diritto esclusivo. Oggi, si pone il problema, non già di un rifiuto radicale della globalizzazione sintetizzato nello slogan “no global”, ma di rifiutare la globalizzazione neoliberista per perseguire la globalizzazione dei diritti.
Una vera rivoluzione non consiste nella conquista del potere, soprattutto se violenta. Occorre che si radichi nelle coscienze delle persone. E questo è un processo più lento e più lungo in cui un ruolo impareggiabile potrebbe svolgere la scuola pubblica, cambiata nei suoi metodi e contenuti, per riuscire a formare non menti obbedienti e facilmente manipolabili ma persone capaci di leggere criticamente la realtà e di trasformarla.
Ciascuno di noi può contribuire a cambiare il mondo anche quando le cose sembrano senza speranza, purché si sia decisi a cambiarlo. Dipende da tutti noi, da quel 99%, di riprenderci la nostra vita e di non permettere più all’1% di prendere le decisioni sul nostro futuro.