Il 14 dicembre 2019 decine di migliaia di persone, sotto il vessillo del “Movimento delle sardine” [1], sono scese in piazza San Giovanni a Roma, per esprimere il proprio disappunto verso un certo tipo di politica che fa della violenza verbale e dell’odio il proprio cavallo di battaglia. Tra i manifestanti, Nibras Asfa, una donna musulmana di origine palestinese, ha parlato dal palco esprimendo con toni sarcastici fierezza per la propria identità religiosa e nazionale. Senza entrare in questa sede nel merito del movimento sopracitato o dei contenuti dell’intervento della donna, voglio piuttosto focalizzare l’attenzione sulle nuove forme di rappresentanza che le donne (in tutto il mondo) e i giovani di seconda generazione (in Italia) vanno piano piano conquistando, in un contesto nazionale in cui riuscire a ritagliare uno spazio di autoaffermazione non è certo impresa banale, in particolare se si è donne di origine nazionale differente da quella italiana. Come dimostra l’intervento pubblico della giovane Nibras Asfa, che ha in seguito ricevuto numerosi attacchi politici e personali.
Rientra in questa necessità di ritagliare uno spazio di affermazione la pubblicazione di Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, antologia di autrici afroitaliane, edito per Effequ lo scorso ottobre. Nella nota di apertura dell’antologia, la scrittrice italo-somala Igiaba Scego, curatrice del volume, presenta la raccolta come un moderno J’accuse [2] all’editoria e alla società italiane, facendo riferimento ad un famoso editoriale che Émile Zola pubblicò il 13 gennaio 1898 sul giornale socialista francese «L’Aurore». Il volume, edito per Effequ lo scorso ottobre, raccoglie undici storie di altrettante autrici afroitaliane che «raccontano di futuro, generazioni e radici» [3]. Tutte le narrazioni, che differiscono per genere, ambientazione e tematica, prendono le mosse «da questo presente distopico, da questa Italia distopica, dove viviamo, amiamo, mangiamo, dormiamo, piangiamo e ridiamo», come scrive Scego. Attraverso una lettura realmente o verosimilmente rappresentata della contemporanea società italiana, le autrici immaginano un futuro possibile, o in alcuni casi probabile, giungendo ad esiti molto distanti l’uno dall’altro.
Le firme dei racconti appartengono infatti a donne profondamente diverse tra loro: per età, origine, background, status giuridico [4], temperamento e formazione; ciò che le unisce è un’esperienza migratoria, non necessariamente personale, ma anche familiare, che è approdata in Italia e che ha in qualche modo segnato le autrici, facendo scaturire travagliati percorsi di costruzione o decostruzione identitaria. In tutti i casi, comunque, l’esito è un’identità duale e/o transfrontaliera, che difficilmente riesce ad essere contenuta o interpretata attraverso la chiave di lettura che lo Stato Nazione e il patriottismo hanno storicamente fornito. Autrici, dunque, italiane, dalle identità meticce.
Il riferimento a Zola appare in questa sede particolarmente calzante, perché oltre allo scopo del libro, lo scrittore è assimilabile alle autrici “future” per un aspetto della sua biografia: anch’egli, uno dei più noti romanzieri della Francia dell’Ottocento, era infatti figlio di uno straniero, Francesco Zolla, militare e ingegnere italiano naturalizzato francese.
Se fosse vissuto ai giorni nostri avremmo forse definito Zola come un rappresentante della cosiddetta “seconda generazione” o della “letteratura migrante”? [5] E cosa avremmo detto di Vladimir Vladimirovič Nabokov, nato in Russia ed emigrato poi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, noto per la sua produzione letteraria inglese, o di Aleksandr Puškin, pronipote di uno schiavo africano portato in Russia per servire lo zar Pietro il Grande, o ancora di Alexander Dumas, nipote di un marchese francese e di una schiava haitiana e quindi di discendenza afro-caraibica? [6]
A questo proposito sono diverse le osservazioni che vengono in mente. La prima riguarda sicuramente il fatto che gli storici della letteratura sono stati ben attenti ad epurare dai manuali scolastici gli elementi alieni dalle biografie e dagli alberi genealogici dei pilastri della cultura europea o slava. Fa ancora specie per alcuni sentir parlare di Dumas, illustre autore del Conte di Montecristo e dei Quattro moschettieri, come un afrodiscendente, sebbene le informazioni sulla sua biografia siano ormai note da tempo.
Un’altra riflessione che mi viene in mente è che nell’Ottocento non si sarebbero mai sognati di parlare di “letteratura migrante”, così come non si sognano di farlo ancora oggi gli studiosi del passato, quando si parla di illustri nomi della letteratura. Perché allora dagli anni Novanta del Novecento in poi questa etichetta si è diffusa così tanto? Possiamo parlare di letteratura migrante anche nel caso di “Future”? Ed eventualmente perché?
L’unica risposta che sono riuscita a darmi è che la definizione di “letteratura migrante” nasce e diventa necessaria dal momento in cui lo Stato Nazione e i concetti di confini, visti e cittadinanza vengono sistematizzati e diventano così importanti da assurgere a coordinate necessarie per interpretare il mondo, titoli e attributi che definiscono gli individui. Come è noto, ma spesso tendiamo a dimenticare, lo Stato-Nazione e tutti i sui derivati sono, infatti, un prodotto storico, che non esistono per natura, ma per artificio di alcune particolari società umane. A ciò si deve aggiungere la consapevolezza che la letteratura, e le arti tutte, così come le scienze, difficilmente si arrendono o possono essere risolte all’interno dei vincolanti attributi della appartenenza nazionale e della lingua. Quando si parla di capolavori musicali, letterari o pittorici risulta davvero futile ed insignificante soffermarsi su aspetti così superflui come la nazionalità o la lingua del prodotto finale o del suo autore.
Le arti sono per loro costituzione distinte dalla porosità e dalla promiscuità di influenze e contributi, e più gli ingredienti che le compongono sono tra di loro mescolati, più il risultato sarà in grado di comunicare ai suoi fruitori in modo trasversale e universale. Potremmo quindi, forse, affermare che la letteratura è “migrante” per sua definizione. Anche quegli autori che mai si sono fisicamente spostati nell’arco della propria vita hanno avuto un bagaglio familiare o culturale estremamente fluido [7]. Gli uomini hanno sempre viaggiato, contaminandosi l’un l’altro e lasciando tracce del proprio passaggio in terre straniere e fortunatamente possiamo oggi fruire di queste contaminazioni e stratificazioni culturali.
Volendo comunque fare uso di questa etichetta, il caso di “Future” (in italiano, femminile plurale, come tengono a precisare le autrici in alcune interviste che ho ascoltato e letto online), sarebbe difficilmente inquadrabile nella cornice della “letteratura migrante”, perché tutte le autrici del volume sono italiane, la maggior parte anche secondo i documenti, alcune visitano i Paesi di origine dei propri genitori solo per le vacanze o per questioni familiari, ma vivono stabilmente in Italia, qui hanno condotto la propria carriera scolastica e sono italofone dalla nascita. Qualcuna è poi migrata, ma dall’Italia verso altre mete. Eppure alcuni temi e il sentimento che spesso si evince tra le righe è molto vicino a quello di autori e autrici, considerati esponenti della letteratura delle migrazioni in Italia [8], di coloro che si trovavano «in mezzo, tra gli spaghetti e il cous cous»: l’inadeguatezza, l’incapacità e l’impossibilità di sentirsi veramente parte di un Paese, il non riuscire a non sentirsi altro che italiane, ma non essere poi riconosciute come tali o, al contrario, la rivendicazione delle proprie multiple e fluide appartenenze, la spaccatura generazionale e culturale tra sé e la propria famiglia, il dialogo tra le proprie origini e la propria essenza, il razzismo.
Il volume raccoglie storie autobiografiche o di finzione, in ogni caso sempre connesse alle esperienze personali. C’è chi percepisce sulla propria pelle il gravare del fallimento, in una società in cui la whiteness è la misura della normalità, come Marie Moïse, chi, come Djarah Kan, scopre di aver perso una parte della propria identità e delle proprie radici perché i genitori, per pavidità o per inerzia, le hanno dato solo un nome occidentale «per non dare fastidio ai bianchi quando devono imparare come pronunciare il tuo nome», dimenticando di darle il nome vero, quello segreto, che è in grado, ovunque ci si trovi, di ricollegarla ai propri antenati e alle proprie origini. C’è chi, come Angelica Pesarini, ripercorre la storia coloniale italiana in Eritrea, attraverso le vicende della meticcia Maddalena M., vittima di un sistema razzista e misogino e chi, come Ndack Mbaye, racconta il dolore del lutto vissuto da una comunità senegalese nella provincia veneta, presentando la famiglia nel suo duplice ruolo di oppressione e imprescindibile sostegno. C’è perfino chi immagina di ricomporre i ricordi della propria vita di donna nera, attraverso un’intelligenza artificiale del futuro (Lucia Ghebreghiorges) e chi, attraverso una forte rabbia e con una scrittura per certi versi un po’ acerba, narra l’incomunicabilità con la generazione dei genitori, dovuta all’incapacità di affrontare la sofferenza dell’esperienza migratoria, il razzismo della società italiana ed il riscatto dei giovani di seconda generazione (Leaticia Ouedraogo). C’è ancora chi, come Addes Tesfamariam, è espatriata dall’Italia verso l’Olanda per affrontare un’esperienza di crescita personale e formativa, per scoprire poi «che expat se sei nera si dice ‘refugee’»; chi, a partire dal disagio degli insegnanti delle scuole elementari nel sentir raccontare del proprio parentado da una studente, nipote di una famiglia poligama, ripercorre la normalità della propria infanzia e il rapporto con le due nonne tunisine (Leila El Houssi). C’è la storia di Matilde, diventata poi Matimba, raccontata da Alesa Herero, che da Capo Verde ritorna nella sua città, Roma, da famosa performer che deve esibirsi all’Auditorium Parco della Musica e la voce di Wii che, citando la Doppia assenza di Abdelmalek Sayad, riflette sul linguaggio, e in particolare sulle domande, che i “nativi” rivolgono agli italiani di seconda generazione (“di che origine sei?”)[9] e si chiede «perché continuiamo a non saper fare le giuste domande?», C’è, infine, chi come Espérance Hakuzwimana Ripanti [10], presenta un racconto il cui protagonista è un italiano bianco, che in un futuro distopico non troppo lontano (tra il 2020 e il 2039), si trova costretto a lasciare l’Italia, a causa del pesante clima di odio e razzismo al quale si trova sottoposto lui, insieme ai sui cari: il compagno della madre, la sorellina dalla pelle nera e la fidanzata Awa, tutti di origine africana.
Tutte queste storie, per quanto diverse, sono legate da un fil rouge: come già detto, ad averle redatte sono tutte donne afroitaliane. Si potrebbe, per alcuni versi, pensare che selezionare le autrici in base a queste due caratteristiche possa essere una scelta arbitraria, che dà maggiore rilevanza alla appartenenza di genere e di origine nazionale o al colore della pelle, invece che alle reali capacità di scrittura. È l’annosa questione delle quote, spesso molto criticata anche da chi milita per le cause femministe o antirazziali. Le quote servono, infatti, a garantire una presenza minima delle donne, o di alcune etnie [11], e a correggere alcune disuguaglianze sociali in diversi settori della società, risolvendo il problema della rappresentatività attraverso una trattativa, un contratto che per certi versi può apparire più come una mera contrattazione, che come una scelta legata al reale merito della persona. Proporre inoltre ai lettori un volume di sole «voci afro» sarebbe potuto apparire come una presa di distanza ed una volontà di separazione di queste autrici, rispetto ad un panorama letterario nazionale abbastanza vario.
La scelta di costruire un progetto antologico di donne afroitaliane, come spiega bene la curatrice Igiaba Scego, nasce, su sua proposta, dalla volontà di scoprire lo stato dell’arte della produzione letteraria afroitaliana nel 2019. La “letteratura migrante” ha visto, infatti, i suoi momenti di maggiore rigoglio tra gli anni Novanta e i primi Duemila, quando la curatrice stessa ha iniziato, insieme ad altri colleghi, a costruire percorsi letterari e giornalistici nello scenario nazionale, perché il settore editoriale era florido ed aperto ad un dibattito culturale multiforme. Insomma, per gli scrittori italiani di origine straniera, le occasioni non erano allora molte, ma esistevano.
Ideando questo progetto editoriale, Igiaba Scego si è chiesta: cosa ne è oggi, a circa venti anni di distanza, della produzione letteraria migrante in Italia, dopo una serie di provvedimenti e decreti legislativi discriminatori e razzisti, una violenta criminalizzazione dell’immigrazione, la perenne negazione del “diritto di suolo” e una xenofobia che investe trasversalmente tutti i ceti della società? Gli scrittori e le scrittrici “migranti” hanno ancora delle occasioni da cogliere? Cosa è cambiato tra la visione dei loro predecessori e loro?
Questo libro è dunque, per certi versi, una quota rosa afroitaliana. Questa mia considerazione non vuole certo screditare le capacità o le competenze di scrittura delle autrici “future”, ma serve invece a prendere atto del fatto che, in una società che marginalizza ed esclude la voce dei non-bianchi e delle donne, è necessario ritagliare uno spazio e creare un’occasione per far sì che anche queste voci possano essere ascoltate o, come in questo caso, lette [12]. Raccogliere le storie di undici narratrici afroitaliane, e dichiarare a monte la scelta parziale delle autrici, è quindi, davvero, un J’accuse, che serve anche a denunciare la marginalizzazione e l’esclusione sociale di una fetta di popolazione che in Italia vive, studia, lavora, coloro che italiani e italiane sono di fatto, ma che ancora con difficoltà vengono percepiti come “Fratelli (e sorelle) d’Italia”, perché decenni di politica miope e l’acuirsi di un clima sociale di astio e violenza ne negano ancora il diritto all’esistenza.
La letteratura ha in questo senso un valore aggiunto, quello del riscatto civile e sociale. Oggi, come sempre, un libro serve a far gridare una voce, a ricordare a tutti che “esistiamo”: le donne nere, italiane di origine africana esistono, anche se continuiamo ad ignorarle. Così come lo era stato per i primi esponenti della letteratura migrante; la padronanza della lingua italiana, che non possedevano ancora le generazioni migranti precedenti alle scrittrici, e di gran lunga superiore a quella di molti italiani “indigeni”, dà alle autrici una possibilità di riscatto per le proprie famiglie e per chi le ha precedute, oltre a fornire uno strumento reale per dimostrare, ancora una volta, che l’“italianità”, bianca e cattolica per definizione, è un concetto estremamente limitato ed esclusivo. Esistono moltissimi modi per essere italiani, e per vivere la propria costruzione identitaria: le pagine di questo libro lo gridano. Lo gridano alla società italiana e lo gridano alle forze politiche più progressiste che, ancora oggi, alle soglie del 2020, non hanno il coraggio, o peggio ancora l’interesse, di promuovere e sostenere una seria battaglia per l’introduzione dello ius soli in Italia.
La letteratura ha il potere, da sempre, di costruire nuovi scenari, possibili o utopici, e di offrire al lettore una visione alternativa della realtà presente, futura o passata. Anche in questo caso, uno dei tentativi di Future è quello, citando Latouche, di «decolonizzare l’immaginario», scardinando assiomi culturali considerati indiscutibili e proponendo una proiezione del futuro difforme da quella univoca da cui siamo tenuti in ostaggio. È questa la sfida che le autrici lanciano, non solo in nome delle seconde generazioni o degli italiani senza cittadinanza, ma anche in nome dei presunti “autoctoni”: immaginare un’altra Italia, un’altra società possibile non solo bianca, cattolica, patriarcale ed esclusiva, ma anche nera, asiatica, musulmana, femminista ed inclusiva, in cui ci sia spazio per tutte e tutti.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] Il movimento delle sardine, è un recentissimo movimento di attivismo politico, nato per iniziativa spontanea di alcuni giovani bolognesi nel novembre 2019, e che nell’arco di poche settimane ha portato in piazza diverse decine di migliaia di cittadini nelle piazze di Bologna, Modena, Palermo, Roma etc., per protestare contro la politica dell’odio, portata avanti principalmente dal leader della Lega Matteo Salvini.
[2] È opportuno in questo senso citare una parte della nota di apertura del testo, per spiegare il senso di questa espressione scelta da Scego: «L’uomo (Zola) scrive per denunciare pubblicamente le irregolarità commesse durante il processo a carico del capitano francese di origine ebraica, in servizio presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, Alfred Dreyfus. L’uomo era innocente, ma incastrato in un meccanismo impregnato fino all’osso di antisemitismo e calunnie. Émile Zola in quel suo editoriale usò parole furenti e precise contro un sistema che riduceva in macerie l’individuo. “Ed è volontariamente che mi espongo” scrive Zola “Quanto alle persone che accuso, non le conosco, non le ho mai viste, e non nutro contro di esse né rancore né odio. Per me sono soltanto entità e spiriti di malvagità sociale. E l’atto che compio oggi non è che un mezzo rivoluzionario per sollecitare l’esplosione della verità e della giustizia. Non ho che una passione, quella della chiarezza, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto ad essere felice”. Da allora la locuzione ‘J’accuse’ viene usata per denunciare pubblicamente soprusi e ingiustizie».
[3] https://www.effequ.it/future/
[4] Alcune delle autrici sono cittadine italiane, o per acquisizione alla nascita tramite ius sanguinis, o per acquisizione in seguito a richieste approvate; altre sono invece ancora in attesa del riconoscimento della propria cittadinanza. Questo elemento non è da sottovalutare, poiché da esso deriva anche una precisa visione del mondo e alcuni dei sentimenti espressi attraverso la scrittura, tra cui la rabbia e il tagliente sarcasmo scagliato contro il lettore italiano, bianco.
[5] Con l’espressione “letteratura migrante” o “delle migrazioni” faccio riferimento a quel fenomeno letterario che si sviluppa in Italia negli anni Novanta, con caratteristiche proprie rispetto agli altri Paesi europei, e che vide scrittori originariamente non italofoni poiché nati in altri Paesi, tra cui le ex-colonie, scrivere e pubblicare testi in italiano. Il fenomeno si sviluppò intorno alla rivista El-Ghibli fondata da Armando Gnisci e diretta da Pap Khouma.
[6] Questi sono solo alcuni degli autori di cui è interessante menzionare la biografia o l’appartenenza familiare; sono tuttavia numerosissimi i personaggi noti, non solo scrittori, di cui è spesso completamente omessa la biografia. Sono moltissime le storie di personaggi migrati o rifugiati che, una volta diventati famosi, sono stati mitizzati al punto tale da dimenticare o epurare le dolorose biografie: uno fra tutti la star Freddie Mercury, al secolo Farrokh Bulsara, nativo di Zanzibar e di origine parsi, (per non parlare dell’arianizzazione di Gesù Cristo, ebreo, quasi certamente dai tratti somatici medio-orientali, ma storicamente rappresentato biondo e con gli occhi azzurri.
[7] Basti pensare a quella che definiamo oggi la formazione classica, fondata sullo studio di testi e autori greci e latini, che a loro volta provenivano da un humus culturale quanto mai promiscuo e aperto alle influenze orientali e medio-orientali. O ancora gli umanisti del Rinascimento, uno fra tutti, Erasmo da Rottherdam che per la sua propensione al viaggio, al confronto con culture differenti, ha in parte ispirato il nome di uno dei più noti programmi europei per la mobilità giovanile.
[8] Molti di questi sono menzionati nella nota di apertura dalla curatrice Igiaba Scego: Pap Khouma, Salah Methnani, Kossi Komla-Ebri, Christiana de Caldas Brito, Ana de Jesus, Amara Lakhous, Tahar Lamri, Karim Metref, Kaha Aden, Cristina Ali Farah, Gabriella Ghermandi, Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia, Ingy Mubiayi e la curatrice stessa.
[9] È sempre motivo di sorpresa per me ricordare quando, all’indomani della vittoria del Festival di Sanremo, da parte di Mahmood, giovane cantante di madre italiana e padre egiziano, nato e cresciuto a Milano, si vide porre da una giornalista la domanda «Cosa ti manca di più del tuo Paese?».
[10] Espérance H. Ripanti è autrice anche di un testo, edito da People nell’ottobre 2019, il cui titolo è E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana.
[11] Mi riferisco in questo caso alle quote razziali introdotte in molte università brasiliane.
[12] Sono infatti d’accordo nel definire il sistema delle quote in obiecto iniquo, ma solo teoricamente, in una utopica e perfetta società meritocratica, in cui tutti, nessuno escluso, hanno le stesse opportunità, perché si confrontano su uno stesso piano sociale ed economico. Nel mondo reale, invece, in una immaginaria competizione, alcune categorie sociali partirebbero svantaggiate rispetto ad altre a causa di squilibri sociali, economici e culturali. Fino a quando non esisterà l’assoluta eguaglianza tra tutte le categorie sociali sarà, non solo opportuno, ma anche necessario riservare delle quote a chi si trova in situazioni di svantaggio e, a parità di condizioni non sarebbe in grado di raggiungere il traguardo. Le quote sono quindi un riconoscimento istituzionale delle ingiustizie sociali, ed un tentativo, anch’esso istituzionale, di colmare almeno in parte un gap economico e sociale.
Bibliografia di riferimento
Gnisci, A., Il rovescio del gioco, Carocci, Roma, 1992
Gnisci, A., La Letteratura Italiana della Migrazione, Lilith, Roma, 1998
Latouche, S., Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, EMI, Bologna, 2004
Sayad, A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2002
Scego, I. (a cura di), Future. Il domani raccontato dalle voci di oggi, Effequ, Firenze 2019.
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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione. Collabora con l’Associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture.
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