Il Mediterraneo ha evocato da sempre una particolare curiosità ed un impulso incontenibile verso il confine e il gusto irresistibile di scavalcare l’orizzonte: la conoscenza come meraviglia, la meraviglia come conoscenza di sé e degli altri. Chi da una sponda mediterranea guarda il mare allontanarsi verso l’orizzonte, su un tappeto verde di acque luminose, riceve da quell’immagine un impulso di libertà, di pienezza, di verità, di gioia e di abbraccio totale. Proprio in questi giorni è uscito l’ultimo lavoro di Claudio Magris [1] in cui prolunga la sua passione per il viaggio, inteso come uno sporgersi verso le indefinite lontananze che si protendono oltre la linea dell’orizzonte. E lo fa attraverso le polene, che, come riporta il titolo stesso del libro, sono gli occhi del mare. Seguendo le tracce di una ricognizione storica, l’autore ci regala, anche attraverso immagini molto belle, una suggestiva e ricca rassegna di polene provenienti dai grandi musei marittimi del mondo e dai collezionisti. Non esiste una sola tipologia di polena, tuttavia, sostiene l’autore: «Il modello ideale, il prototipo della polena, è neoclassico; la figura – quelle intere sono molto meno frequenti – nasce da un vortice di vento che, alla base, sembra increspare le onde e si prolunga nella veste fluttuante, linea ondulata di onda marina trattenuta prima di disperdersi nell’informe. La polena sboccia dal legno, è un suo elemento, e insieme dall’acqua; il vento le dà ala, rende ariosa la sua figura e i veli che la coprono, ma non la travolge e non la schianta».
Leggende e storie reali vissute si sono da sempre mescolate nei racconti di mare. Tra queste, Magris ne riporta una di Pauline A. Pinckeney, «Si raccontano molte storie di polene che, in tremende tempeste e in situazioni pericolose, sono state tolte dalla prua oppure bendate». Il mare è per lo scrittore triestino il sublime per eccellenza, «grande e semplice, solitario, insondabile nella tranquillità e indomabile nella tempesta, ricco di tragedie e catastrofi, di seduzione e di odiosa perdizione». E ancora, «il mare è assoluto, intenso fino al punto di diventare talora doloroso» [2], se soltanto lì «ci si spoglia di tutto ciò che è banale, accidentale, relativo», le polene diventano il simbolo di uno sguardo che cerca di afferrare l’essenza della vita. Nella nostalgia marinara, la polena diviene «l’anima della nave, la sua fisiognomica, il suo ventoso ardimento, la sua panciuta avidità, la sua goffaggine o il suo slancio». E ancora «viene bendata per non vedere le catastrofi in arrivo e impedire dunque loro di arrivare, perché ciò che la veggente non vede non c’è».
Per Magris, infatti, la storia del Mediterraneo
«è anche storia di naufragi e mito di sirene, galeoni affondati e Leviatani primordiali; amnios originario dell’umanità e culla di civiltà, la forma greca che nasce perfetta dal mare come Afrodite, la grande prova dell’anima, l’incontro col simbolo dell’eterno e della persuasione ossia della vita che riluce nel suo puro presente incorruttibile, nella sua pienezza di significato. Il più grande romanzo di formazione, la più lunga storia dell’individuo che si avventura nel mondo e ritorna a casa a sé stesso, e cioè l’Odissea, non è immaginabile senza il mare. Ma quel mare, il Mediterraneo, è anche il grembo della nostra storia, della nostra civiltà» [3].
Sono molti gli studiosi e gli appassionati che hanno coniato affascinanti e suggestive, e aggiungerei poetiche, definizioni del Mediterraneo. E tra questi, Fernand Braudel che descrive in maniera senza dubbio sublime l’antichissimo crocevia culturale che il Mediterraneo rappresenta ancora oggi, partendo dal presupposto che «essere stati è una condizione per essere». La storia del Mediterraneo è soprattutto la storia di «un susseguirsi di mari. Non una civiltà ma una serie di civiltà, accatastate le une sulle altre». E ancora il «passato del Mediterraneo è una storia accumulata in strati molto spessi», «è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere» [4].
Le numerose culture che si sono sviluppate, incontrate e mescolate nel bacino mediterraneo hanno contribuito al suo arricchimento e a renderlo cosmopolita così come oggi lo conosciamo e lo viviamo. Il grande storico francese è stato il primo ad aprire la possibilità di guardare al Mediterraneo come a un soggetto unitario o, per dirla con le sue parole, come a un personaggio. Un personaggio di rilievo ed influente. A tal punto da segnare, con la forza secolare di un condizionamento ambientale possente, la vita di tutte le popolazioni rivierasche. Braudel sostiene che «tutti i paesaggi del Mare interno si richiamano l’un l’altro». E ancora: «un uomo mediterraneo, di qualunque paese sia, non è mai spaesato sulle rive del Mare interno» [5]. È facile riconoscersi in queste parole e ritrovare un’unita nella diversità, un’identità mediterranea, un Noi Mediterraneo fatto di confluenze, mescolanze, contaminazioni e somiglianze durature.
È nata così, attraverso percorsi diversi, l’idea che ha visto il Mediterraneo come un’area culturale che non può dirsi unica. Non esiste, infatti, una sola cultura mediterranea. Si può legittimamente dire che ce ne sono molte in seno a un solo Mediterraneo. Culture a tratti simili e a tratti differenti. Le somiglianze sono dovute alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine. Le differenze sono segnate da fatti storici, di credenze e di costumi. Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le ultime. D’altra parte, l’importazione di innumerevoli elementi da tutto il mondo nel corso dei secoli ha fatto in modo che il Mediterraneo si evolvesse nella dimensione attuale, nella quale queste componenti gradualmente sono divenute parti costitutive della vita stessa dei suoi abitanti in tutti i differenti ambiti, dal paesaggio all’architettura, dalla cucina ai modi di dire, dalla musica alla pittura, alla danza e chissà quanti altri ambiti potremmo richiamare.
La sedimentazione e la stratificazione di elementi vari hanno avuto un ruolo determinante e imprescindibile nell’analisi interpretativa sul posizionamento del Mediterraneo nella storia. La presenza di tante culture differenti e l’attitudine a far convivere nello scambio continuo le diversità, costituiscono anche gli elementi di curiosità e di studio. L’elenco lungo e vario delle “genti nuove” confluite nel Mediterraneo che hanno continuato ben oltre il X secolo a occupare le sue sponde e le sue isole appassionano da sempre i cultori della mediterraneità.
Per lo storico Scipione Guarracino, l’unità mediterranea è piuttosto il risultato di una costruzione umana e storica: un’unità spaziale, cioè il raggiunto riconoscimento che si tratta di un mare unico, navigandolo da un capo all’altro, percorrendo i suoi litorali, isole e penisole; e poi un’unità economica, culturale ed eventualmente politica. E ancora, sostiene che le storie del Mediterraneo non riescono a piegarsi alle esigenze della storia ordinaria secondo una successione di atti o capitoli, ma si interessano di più alle condizioni che hanno fatto nascere, perdurare e risorgere tale attitudine allo scambio e alla convivenza fra diversi [6].
Il principio del movimento ha, dunque, una valenza propulsiva, può dirsi il motore della civiltà mediterranea o delle civiltà mediterranee. In ogni senso. Il movimento fisico contrassegna, infatti, tutte le grandi fasi della storia del Mediterraneo. Storia che è fortemente connotata da processi migratori, di invasori e di conquiste, di arrivi e di partenze. Non a caso, dai Persiani ai Mongoli, dagli Arabi ai Turchi, ai Germani, ai Franchi il Mediterraneo fu una meta da raggiungere, mentre da Alessandro Magno a Cesare, a Marco Polo, a Cristoforo Colombo esso fu anche – sempre – un luogo da cui partire e a cui tornare dopo la scoperta di nuovi mondi.
Ulisse/Odisseo, il primo eroe mediterraneo è il prototipo più durevole della civiltà e rappresenta l’icona del navigatore avventuroso che investe la sua straordinaria energia distillandola equamente fra la scoperta entusiastica del nuovo e la malinconia dolce del ritorno alla patria [7]. È evidente come Ulisse diventi, nella versione di Dante, lo scopritore di mondi che incarna la spinta civile «a divenir del mondo esperto, / e de li vizi umani e del valore». Da questa crescente, molteplice esperienza del mondo nascerà la convinzione laica «fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» [8]. Ed è sempre Ulisse a divenire il capostipite della schiera mediterranea che tenterà, generazione dopo generazione, il superamento delle colonne d’Ercole, simbolo di ogni confine fisico e di ogni limite intellettuale della conoscenza. Nell’immaginario greco le Colonne d’Ercole rappresentano, infatti, il salto tra un mare, che rimane tra le terre, e l’infinita estensione dell’oceano. Ulisse è un uomo del Mediterraneo e Mediterraneo e anche il suo viaggio, come la terra alla quale si deve infine tornare ed il mare che continuamente seduce e strappa via. Ulisse è homo viator, figura di un’erranza, di una continua dilazione, seppure sempre sulla via del ritorno. L’Odissea non è solo il poema della nostalgia e della sua pace domestica. Per Caterina Resta, il poema di Omero è
«lo spazio della sua azione non è la vastità smisurata dell’oceano, ma lo spazio misurato, seppure irto di insidie, di un mare interno. La prua della sua nave è certo diretta sempre verso casa, ma la sua chiglia scivola leggera sul pelo dell’acqua, incapace di approdi definitivi. Nessuna fretta, nessuna particolare ansietà incalza Ulisse in questo lento viaggio di ritorno di spiaggia in spiaggia ed ogni porto non è porta d’entrata soltanto, ma anche porta d’uscita, tappa, sosta, per nuove partenze. E le soste possono essere più o meno lunghe, l’intrattenersi più o meno dolce, più o meno dimentico di quel richiamo alla terra e agli affetti domestici che lo costringono a tornare, perché altrettanto seducente, come il canto delle sirene, e il richiamo che viene dal mare, la voglia di partire, anche solo di andare. Cosi l’amore, il bisogno di chiarezza, la passione, che accompagna il lento ritorno verso la propria terra si trasforma in dolore e strazio, poiché la realtà e la storia allontanano l’approdo a Itaca. Sicché Ulisse è continuamente rigettato al largo e, una volta toccato il fondo della sua pellegrinazione, deve con un colpo di reni tentare la risalita. Il viaggiare di Ulisse sarebbe incomprensibile senza questo andare spesso alla deriva, questo smarrire la strada, questo oblìo della meta ultima, senza le continue digressioni che costringono a rimandare la fine del viaggio. Tra terra e mare il viaggio di Ulisse è davvero mediterraneo, una grandiosa epopea delle sue coste frastagliate e dei suoi promontori, delle sue insenature e dei suoi stretti, della straordinaria fioritura di isole, da Ogigia, l’isola di Calipso, a Scheria, la terra dei Feaci, alla Sicilia o alla stessa Itaca, per citare le più note» [9].
Suggestiva l’idea di chi pensa che da questa realtà mediterranea, da questo non-mito di Ulisse, sia scaturita – diffondendosi ovunque – l’ansia del mondo propria dell’uomo, divenuta specifica natura del moderno Robinson, di Faust, di Don Giovanni, di Gulliver, di Achab, di Lord Jim. Vien da pensare che sulle rive dell’Adriatico, a Trieste – fra una lezione d’inglese e l’altra – anche Joyce abbia risciacquato nelle acque mediterranee i panni del suo Lopold Blum, Ulisse moderno vestito da irlandese [10].
Giuseppe Goffredo sostiene una linea metodologica quando afferma che il Mediterraneo non esiste come una totalità organica, ma come le parti di un insieme: «È solo partendo dalla diversità originaria di queste parti singole in evoluzione e in relazione costante fra loro che l’insieme prende forma e si arricchisce. Al contrario, se lo si guarda con gli occhi estranianti del tutto, a scomparire sono le piccole culture e ad avanzare è l’azione livellatrice delle culture egemoni» [11].
Per l’eclettico studioso Anthony Molho: «il mondo mediterraneo si offre come punto di osservazione ideale per studiare il problema di come comunità che appartengano a religioni, lingue, etnie e tradizioni diverse possono e riescono a interagire reciprocamente nel tempo. Poche aree al mondo possono uguagliare la densità storica, l’eterogeneità e la complessità dell’interazione sociale che, in conseguenza dell’alto grado di vicinanza e della mobilità geografica, sono emerse nel mondo mediterraneo» [12].
Il Mediterraneo ha conosciuto quindi lunghi periodi di relativa pace e secoli invece di lotte e dissidi. Anche per tale motivo Edgard Morin sostiene che la storia del Mediterraneo è caratterizzata dalla «consistenza e dal conflitto di dati e fatti incompatibili». In questo mare è nata la ragione, ma si è anche scatenata la follia umana. Si sono incontrati, mescolati e combattuti razze, religioni, costumi. Secondo Morin, crisi, diversità, conflitti sono stati altrettante occasioni di rigenerazione [13]. In parte si tratta anche di un’unità di carattere climatico e ambientale appunto e, come ha notato Andre Siegfried, è fondata su una serie di opposizioni: «un’impressione s’impone invariabilmente a chi percorre il Mediterraneo, quella della sua unità. Ovunque è sé stesso e le sfumature sono meno importanti delle somiglianze. Ma questa unità deriva da contrasti quasi aggressivi: mare e montagna, mare e deserto, mare e oceano» [14].
È noto che l’identità non è un dato fisso, statico, definito una volta per tutte, essenzialmente non modificabile. Sia per gli individui che per i grandi gruppi, è un processo storico fatto di stratificazioni progressive nel tempo, una realtà mobile, che continuamente influenza e viene influenzata, che vive e si sviluppa nella molteplicità delle esperienze storiche. Da questo punto di vista, quando si definisce il mare Mediterraneo come un “crocevia di civiltà” è possibile che non si renda piena giustizia alla sua funzione storica. Il Mediterraneo non è, infatti, solo una piattaforma. L’incontro fra culture diverse, che esso ha favorito da tempo immemorabile, ha anche dato luogo ad una “identità mediterranea”. Incontro ma anche “scontro di civiltà”. Un ruolo altrettanto fondamentale e essenzialmente positivo è stato giocato dagli scambi commerciali, economici e soprattutto culturali [15].
Le tante immagini e suggestioni evocate dalla parola “Mediterraneo”, al di là dell’ingegnosità greca o della potenza romana, richiamano inevitabilmente dietro di sé altri aspetti: un ambiente, un paesaggio, un clima, le componenti di una dieta, un tipo fisico umano e il suo carattere psicologico e culturale, con il suo modo di sentire, pensare, vivere e molto altro ancora. Sostiene oggi Erri De Luca: «Potiamo le stesse piante e mastichiamo con cautela lo stesso cibo pieno di spine, scippato alla profondità del mare. Spremiamo il sole accumulato in acini e in olive, dipingiamo di bianco le case e di nero il lutto» [16]. Ciò che fa del Mediterraneo un universo a sé, dotato di una sua storia e di una riconoscibile civiltà che ugualmente possiamo dire sua, è appunto il modo con cui si vengono da sempre e continuamente articolando le sue diversità. Da una parte contrasto e compresenza, dall’altra, come conseguenza sempre in atto, una vitalità incomparabile: «concorrenza di affari, influenze, religioni; in nessun’altra parte del mondo una tale varietà di condizioni ed elementi è stata così ravvicinata, una tale ricchezza è stata creata e tante volte rinnovata» [17].
Il Mediterraneo come sentiero che unisce, spazio sincronico che esalta la distinzione contro la tragica opposizione, diverse e anche contrapposte. Di qui, come sostiene Franco Ferrarotti, la concezione di «cotradizione culturale», momento teoretico essenziale per la convivenza pluriculturale del Terzo Millennio [18]. Suggestiva è la proposta di vedere il Mediterraneo da un altro punto di vista, quello dei mediterranei stessi, degli uomini, delle popolazioni, delle società e delle civiltà che l’hanno, nel corso dei millenni, scoperto, inventato, popolato, modellato e strutturato, e che ne hanno fatto un luogo culturale al quale hanno conferito un’identità e affidato il progetto di un’unità da estendere a tutto il mondo o a parte di esso. Un progetto – o un sogno – che non poteva non rimanere incompiuto, e da questa incompiutezza scaturisce il suo fascino, sempre attuale [19].
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
[*] Il testo è parzialmente tratto e liberamente rielaborato dal volume edito da L’Harmattan, Mediterraneo crocevia di storia e culture. Un caleidoscopio di immagini, di Laura D’Alessandro 2011 (ristampa 2016).
Note
[1] C. Magris, Polene. Occhi del mare, La nave di Teseo, Milano 2019.
[2] C. Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori, Milano 2005.
[3] C. Magris, Prefazione a M. Predrag, Breviario Mediterraneo, Garzanti, Milano 1987.
[4] F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, (1949), Armand Colin, Paris, 1990 (Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1953.
[5] F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, Bompiani, Milano 1985: 269 e 270.
[6] S. Guarracino, Mediterraneo. Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel, Mondadori, Milano 2007.
[7] U. Cerroni, Mediterraneo, in “Il dubbio, rivista di critica sociale”, n. 1, 2000.
[8] D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno Canto XXVI, 116-120. Ulisse si rivolge al suo equipaggio incitandolo all’impresa toccando uno dei sentimenti più profondi dell’animo umano quale l’orgoglio per la superiorità sugli altri esseri viventi.
[9] C. Resta, Sulle rotte di Ulisse, in Atlantici o mediterranei?, Mesogea, 0, 2002: 53-63.
[10] U. Cerroni, op. cit.
[11] G. Goffredo, Cadmos cerca Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2000: 35.
[12] A. Molho, Comunità e identità nel mondo mediterraneo, in Conflitti, migrazioni e diritti dell’uomo. il Mezzogiorno laboratorio di un’identità mediterranea, a cura di M. Aymard e F. Barca, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2002: 29-30.
[13] E. Morin, Penser la Méditerranée et méditerranéiser la pensée, Confluence Méditerranée, 28, 1998-1999 e sempre di E. Morin Pour une politique de civilisation, Propos recueillis par M. Guerin, La pensée de Midi, 7, 2001.
[14] A. Siegfried, Vue générale de la Méditerranée, Gallimard, Paris 1943: 8 e 9.
[15] F. Ferrarotti, Elogio del Mediterraneo, in Conflitti, migrazioni e diritti dell’uomo. il Mezzogiorno laboratorio di un’identità mediterranea, a cura di M. Aymard e F. Barca, Rubbettino Editore, Sovera Mannelli 2002.
[16] E. De Luca, Dialogo e disincanto, in “Corriere della Sera”, mercoledì 8 settembre 2010.
[17] Tratto dall’articolo Au sujet du Cimitière marin, in appendice a P. Valéry, Il cimitero marino, Nouvelle Reveu Francaise n. 234, 1 marzo 1933.
[18] F. Ferrarotti, op. cit.
[19] M. Aymard, H. Ahrweiler, Les Européens, Hermann, Paris 2000.
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Laura D’Alessandro, ricercatrice, è laureata in Sociologia, presso Università La Sapienza di Roma e ha conseguito un Master in Cittadinanza europea e integrazione euromediterranea: i beni e le attività culturali come fattore di coesione e sviluppo (Università Roma Tre). Ha pubblicato il saggio Mediterraneo crocevia di storia e culture. Un caleidoscopio di immagini, 2011 (ristampa 2016), sui tipi di L’Harmattan. Ha collaborato con riviste e periodici.
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