di Stefano Montes
“Scrittura migrante?”. Mi sarà sfuggito, magari in un saggio di cui non conservo ricordo. Mi sarà forse capitato di parlarne senza indugiare più di tanto sul senso – polisemico, contestualmente ricettivo – dell’espressione. Sarà successo, non ci giurerei. “E perché no, in fondo?”, ripeto adesso. “Perché non utilizzare l’espressione ‘scrittura migrante’?” dico, rimuginando sulla questione. Sono soltanto parole? O è un’etichetta che vale per tutto il fenomeno migratorio? Alcuni migranti scrivono e il risultato del loro lavoro – a volte di raffinata qualità – sembrerebbe circoscritto dall’espressione ‘scrittura migrante’. La si usa, questa espressione, per indicare un tipo di scrittura prodotta da un individuo che migra e decide di scrivere nella lingua del Paese d’accoglienza senza perdere del tutto alcuni tratti di appartenenza della lingua e cultura d’origine, generando in questo modo un ‘amalgama creativo’, se non altro singolare, per molti tratti innovativo, nel passaggio avvenuto da una cultura all’altra.
“Ma è soltanto scrittura o c’è dell’altro?”, mi chiedo ancora. “E poi, a proposito di migranti, non si dovrebbe andare al di là della scrittura e parlare di vita nella sua interezza?”, continuo a riflettere, mentre il mio sguardo è attratto dai colori della copertina del libro di Abdolah, Il viaggio delle bottiglie vuote, che ho sotto mano e che vorrei usare come ‘espediente retorico’ per avanzare alcune ipotesi su vita e scrittura migrante indagandone la sovrapposizione concettuale e pragmatica, retorica e comunicativa. Tra l’altro, perché parlare di espediente retorico e non, più semplicemente, di lettura oggettivata di un testo di un autore migrante? La ragione è che io sono, in quanto parlante e antropologo, parte in causa e soggetto posizionato. Io leggo e scrivo; io penso in funzione di una prospettiva e ne traggo conclusioni orientate che fanno rivivere il testo. E allora? Che partito possiamo trarne da questa premessa? E, soprattutto, sarebbe possibile trasformare, zigzagando, questa premessa in una narrazione argomentata il cui fine diventerebbe una riflessione sul posizionamento (oltre che su un testo di un profugo)? Vediamo dove mi porta la scrittura.
Cominciamo intanto col dire che, «leggendo, anche noi conferiamo una certa postura al testo, e proprio per questo esso vive; ma tale postura, di nostra invenzione, è possibile solo a patto che esista tra gli elementi del testo un rapporto fondato su certe regole: una proporzione» (Barthes 1988: 25). La postura conferita dalla mia lettura al testo, in stretta relazione alle regole date, costituisce effetto retorico su me stesso e sui lettori. Intendo dunque la mia lettura come un atto di linguaggio in cui un individuo, me stesso, situato su un luogo specifico – difficile astrarsi dalle coordinate spazio-temporali – si rivolge a un pubblico, pur poco visibile al momento dell’atto di scrittura, cioè al momento del passaggio dalla sua enunciazione orale a quella scritta, dal piano di lavoro astratto alla sua realizzazione testuale. Per quanto poco visibile sia il pubblico durante l’atto di scrittura, non si può fare comunque a meno di rivolgersi a qualcuno in astratto, mentre la scrittura realizzata verrà di fatto interpretata in seguito da alcuni lettori in carne e ossa.
Il legame tra scrittore e pubblico è, così, assicurato dalla funzione retorica e dalla simmetrica funzione interpretativa in connessione con la proporzione assunta dagli elementi del testo stesso: se lo scrittore vuole ottenere un certo effetto sul lettore, il pubblico di lettori ‘riceve’ a sua volta questo effetto facendolo suo, intendendolo a suo modo, dirigendolo in un senso o nell’altro, esercitando una pressione sugli elementi regolativi del testo scritto. In effetti, «intendere è come dirigersi verso qualcuno» (Wittgenstein 1967: 174). E io intendo dirigermi verso Abdolah, scrivendo un mio testo che avrà – spero – un suo pubblico, così come Abdolah si è diretto a sua volta verso il suo specifico pubblico producendo Il viaggio delle bottiglie vuote. Abdolah? Letteratura migrante? Ma di che parlo esattamente? Forse corro un po’ troppo, devo rallentare. La mia postura, in parte poco convenzionale, non vuole essere ragione di incomprensione per il lettore che non conosce Kader Abdolah. Retorica sì, incomprensione no!
Ricominciamo allora con qualche domanda. Ricominciamo dove si dovrebbe. Ricominciamo da un inizio accettabile per il lettore che non vuole essere sballottato qui e lì dalla postura straniante che io stesso conferisco al mio testo spezzando – talvolta con intento teorico, lo ammetto – una presunta linearità di lettura tuttavia impossibile da realizzare nella realtà. Non è così, caro lettore? Forse non del tutto, ma che importa! Sono io l’autore e lo ribadisco: la fretta non porta a niente di buono. Indugiare ha i suoi vantaggi. E ricominciare è in fondo un modo per «stimolare la coscienza di sé e l’attività situata» dell’individuo (Said 1975: XIV). Ricominciamo quindi in modalità interrogativa, digressiva ed evasiva. È mai possibile, per esempio, scrivere un testo dall’inizio alla fine senza lasciarsi andare a quegli intervalli che ci risucchiano nel flusso più generale del vivere? Sarebbe mai possibile leggere un testo senza concedersi il piacere della sospensione provvista dalla riflessione e dagli eventi attinenti al contesto del più ampio esistere? La lettura e la scrittura prendono tempo, infatti, richiedono riflessione. La lettura e la scrittura, nella loro ampiezza, prendono forma di racconto che ha, di per sé, natura esplicativa, fondamento antropologico.
Ne riparliamo allora proprio a partire dal racconto di Abdolah e dalla sua storia di profugo iraniano che trova rifugio in Olanda. In quanto profugo, Abdolah attinge infatti alla sua storia di vita per parlare, ne Il viaggio delle bottiglie vuote, di un personaggio che trova anch’egli rifugio in Olanda dove gli viene assegnato un alloggio: Bolfazl. Elemento rilevante del racconto è che Bolfazl non è da solo ma con moglie e figlio. Questo comporta almeno un duplice – complesso ma interessante – movimento di interazione: con i membri della famiglia e i diversi ritmi di apprendimento interno della cultura altra; con gli olandesi e le inevitabili sovrapposizioni di saperi prossimi e distanti. Si tratta di una storia, quella raccontata da Abdolah, in cui il dramma non verte tanto sul superamento – una volta per tutte – di frontiere quanto sul risiedere e sui conflitti sofferti, più intimi e familiari, vissuti su un posto ‘attraversato’ localmente da usi e costumi diversi, in contrasto con la cultura di partenza del migrante di cui Bolfazl e la sua famiglia sono in qualche modo i rappresentanti sfilacciati nel tempo. Benché la storia si presenti come un risiedere e non come un attraversamento, la vita di Bolfazl non è circoscritta, tuttavia, dal suo solo vivere in Olanda, sul luogo di accoglienza già predisposto per la sua famiglia, ma si pone come movimento oscillatorio di esperienze e concetti vari quali l’identità, l’integrazione, lo scambio, l’apprendimento, la cultura, il transito.
L’Olanda sembra quasi un pretesto per parlare d’altro: per parlare di una fuga fisica e concettuale che include persino l’ambivalente dimensione temporale. Come ricorda lo scrittore: «L’orologio appeso nel nostro soggiorno segnava inesorabile il tempo. E il tempo mi cambiava. In patria la mia vita era pianificata. Era tutto deciso dal partito clandestino a cui appartenevo. Dovevo sempre adeguarmi agli ordini che venivano dall’alto. Dovevo ubbidire finché non avremmo raggiunto l’obiettivo del partito. Ma non raggiungevamo mai niente. Molti furono uccisi. Alcuni riuscirono a fuggire. Una volta in Olanda volevo essere me stesso. Basta ordini. L’unica disciplina che ero disposto ad accettare era quella dettata da me. In altre parole volevo ubbidire solo alla fuga» (Abdolah 2006: 142). In qualche modo, io mi riconosco in queste righe in cui si mostra sicura avversione verso la pianificazione e l’inconcludenza, l’ubbidienza fine a se stessa e il conformismo inutile. Pur non essendo un migrante (lo sono stato però, per qualche anno, negli Stati Uniti), anch’io ritengo di dovere ubbidire alla fuga e rifiutare le imposizioni dall’alto. Per quanto riguarda la mia lettura qui, poi, devo dire che è altrettanto oscillatoria e posizionata: consente il libero corso, intenzionalmente sregolato, ai miei pensieri e costrutti teorici. Se vogliamo, allora, questo mio scritto è un esperimento antropologico in cui il flusso ideativo, più che per linearità simulate, procede zigzagando, arrestandosi laddove lo richiede opportuno la riflessione, senza eccessiva adesione alla convenzione presupposta della lettura e scrittura in sequenza. È un esperimento che ubbidisce all’esigenza della fuga: «Scrivere vuol dire tracciare delle linee di fuga» (Deleuze, Parnet 1998: 48).
Per chiarire il punto che difendo, potrei fare mio l’intento generale dichiarato da Pauls e affermare che condivido la sua ottica: scrivendo non voglio fare altro che esprimere «il debito incommensurabile che lo scrivere (quella compulsione strategica) ha con il leggere (quel vizio gratuito, benefico, generoso)» (Pauls 2019: 8). In realtà, riconosciuto questo apporto, c’è altro oltre lo scrivere e il leggere come debito reciproco. Io sono posizionato e rifletto sul mio posizionamento in quanto lettore e a mia volta scrittore di un saggio avente la duplice valenza di considerazione transitiva e ponderazione riflessiva. Scrivo e rifletto, mi posiziono e vado derivando. Si potrebbe dire, in termini più linguistici, che non privilegio i tratti aspettuali relativi al risultato o al processo compiuto, ma i tratti più tipici del divenire quali l’incompiuto e il durativo. Se dovessi associare il mio fare a un verbo direi che sono un imperfetto che saltella più che un passato remoto che puntualizza. Dal punto di vista più antropologico, questa strategia mi consente di mettere avanti un elemento più tipicamente legato al campo: la riflessività, cioè la «réflexion que mène chaque ethnologue sur sa pratique d’enquête et sur les situations dont il est témoin» (Agier 2015: 13). Non sono ovviamente il testimone in carne e ossa dell’esperienza vissuta da Abdolah – tantomeno quella di Bolfazl, personaggio di finzione – ma mi servo di un testo elaborato da un profugo per riflettere sulle situazioni raccontate al suo interno che la mia lettura e scrittura scompone e ricompone in più direzioni di senso, zigzagando liberamente tra concetti e corrispondenze. Derivo verso molteplici direzioni, riposizionandomi a mia volta. Se devo tuttavia fare riferimento a una questione ‘essenziale’ – quale che sia il flusso libero dei collegamenti e la libertà indisciplinata delle mie corrispondenze – direi che la mia lettura si situa in contrappunto, non in contrasto, alla domanda posta da Clifford sul viaggio e la sua funzione antropologica. Scrive Clifford: «Ma che cosa accadrebbe, cominciai a domandarmi, se il viaggio, liberato dai suoi lacci, venisse visto come il complesso, pervasivo spettro dell’esperienza umana?» (Clifford 1999: 11).
La domanda che si pone Clifford – alla base del suo intendere il campo come pratica di viaggio d’ordine polifonico – tende a rimettere in causa i rapporti statici posti tra risiedere (le radici) e viaggiare (le strade). Clifford sposta il fulcro dell’attenzione dal risiedere al viaggiare. Ciò ha conseguenze vantaggiose epistemologicamente: 1. una diversa definizione della cultura, non più vista in quanto coacervo compatto di concetti staticamente intesi; 2. una rivalutazione del viaggio come elemento esistenziale che si trasforma in simmetrica critica alla ricerca sul campo inteso come spostamento in un luogo lontano ed esotico. Il mio testo vuole essere, nelle sue intenzioni di partenza, una sorta di adesione contrappuntistica alla domanda di Clifford: un contrappunto in cui il risiedere non è più fondamento della vita collettiva, ma non è nemmeno un’articolazione precostituita, da prendere eventualmente in conto in chiave oppositiva col viaggiare. Nella mia ipotesi, insomma, non è più sufficiente spostare l’attenzione epistemologica sul viaggiare per decostruire un concetto statico di cultura: è necessario, altresì, prendere in conto l’esistenza nella sua interezza e considerarla un vero e proprio campo etnografico in cui stemperano, non del tutto discretizzati, il viaggiare e il risiedere, l’essere e il divenire (Piette 2016; Jackson 2011). In quest’ottica, l’opposizione risiedere/viaggiare perde il suo valore differenziale e diventa elemento culturale compreso per gradi e per flussi. Quali gradi? Secondo quali flussi? Dipende dai contesti culturali, dipende dalle esistenze, dipende dal leggere e scrivere di ognuno di noi. Ciò che so per certo è che viviamo in un mondo in cui il risiedere e il viaggiare assumono rilievi insospettati e parlarne consente di comprenderne i nebulosi incastri antropologici. Io intendo parlarne – scriverne a partire dal testo di Abdolah – assumendo un atteggiamento riflessivo nei confronti della mia stessa intenzione di lettura e concezione di cultura.
Oltre a un commento analitico di una storia di profughi, questo breve saggio è, dunque, il racconto contrappuntistico di una mia intenzione che diventa altro per motivata digressione. Non più l’intenzione di leggere il libro di Abdolah in quanto testo neutrale o di puro intrattenimento letterario, non più prospettiva volta a cogliere una lettura oggettivata, bensì una riflessione sulla situazione di lettura che accompagna un’intenzione: la mia intenzione nel suo svolgersi e prendere corpo mentre leggo e scrivo. Leggo alzando lo sguardo di tanto in tanto, scrivo estrapolando frammenti del testo di Abdolah. Ammetto che il lettore potrebbe essere sorpreso dal mio ‘approccio in situazione’ che procede per estrazione di frammenti e riposizionamenti vari: potrebbe volere avere una traccia o un filo conduttore. Per orientarsi? Per orientarsi e disorientarsi nella fuga, per non annegare nella mia strategia digressiva. Ebbene, prendo fiato, alzo lo sguardo e lo dico.
Un messaggio di fondo del testo di Abdolah consiste nell’accento posto sulle difficoltà di apprendimento della lingua e cultura locale per un migrante: al di là del viaggio e dell’attraversamento di frontiere materiali pur sempre presupposte, ineliminabili. Per noi italiani sottoposti al costante flusso mediatico, passivi spettatori televisivi di notizie che riguardano i migranti che attraversano il mar Mediterraneo, leggere un testo ove la storia prende avvio in un luogo in cui il profugo e la sua famiglia sono già al sicuro sembra strano, inusuale. Il modo in cui – forse necessariamente, data la compressione delle notizie – i telegiornali ci consegnano la figura del migrante è scontata: un individuo anonimo che cerca di attraversare il mare al fine di sbarcare sulle coste italiane e cercarvi un qualche rifugio. Fugge da guerre o da carestie? È perseguitato o è in cerca di un consumismo sfrenato? I porti dovrebbero essere sempre aperti o li teniamo chiusi per scelta ideologica? A queste domande si dovrebbe rispondere, più che localmente, tenendo invece conto degli effetti della globalizzazione che rinforza il paradigma postcoloniale incentrato sulla distinzione in dominanti/dominati, in poveri/ricchi del mondo. A queste domande si dovrebbe, ugualmente, rispondere con un’altra domanda: quanto vale un essere umano (Fassin 2019)? Un essere umano vale quanto possiede? Di fatto, coloro i quali hanno i mezzi possono viaggiare a volontà; gli altri sono sottoposti al regime delle frontiere nazionali. E ciò non vale soltanto per i singoli individui ma più in generale per gruppi e organizzazioni commerciali. Le multinazionali, per esempio, non sono soggette allo stesso esercizio delle frontiere – invalicabili – del cittadino comune, per non parlare del profugo senza mezzi e agganci politici. Le multinazionali non soltanto non ‘conoscono’ frontiere, ma si situano al di là dei concetti che accompagnano e istituiscono, ormai in modo obsoleto, le frontiere stesse: nazione, identità, classe, gerarchia, immobilità.
I confini, in sostanza, non sono altro che modi per reintrodurre le differenze di classe e di beni posseduti da una parte e dall’altra del confine stesso. Come scrive Khosravi: «Supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo. Le frontiere sono una tecnica per calcolare il valore degli stranieri» (Khosravi 2019: 12). Perché allora mi appassiona un testo come quello di Abdolah in cui non si mette direttamente in scena un attraversamento materiale di frontiere (che forse le metterebbe in dubbio) e una simmetrica accoglienza (che sembrerebbe aver risolto il problema)? Diciamo che Abdolah costruisce una narrazione, in parte autobiografica, in cui l’ambivalenza dei concetti menzionati si mostra già all’interno dello stesso Paese che accoglie il profugo. Una volta arrivati, benché in qualche modo accolti, i problemi non sono risolti, sembrerebbe dire Abdolah. Nel testo di Abdolah, non si parla di un attraversamento doloroso per mare o per terra, ma si mettono in scena attriti e conflitti di una famiglia alle prese con una cultura da apprendere. L’intento è certamente quello di mostrare che, una volta superate le frontiere e affrontati i drammi relativi al viaggio, le difficoltà non sono finite; anzi, incomincia il lungo e straniante processo di apprendistato di una lingua e cultura distanti dalla propria. Facile? Non direi!
Sono d’accordo, da vero appassionato, nell’affermare che «studiare una lingua vuol dire anche comprendere un pezzo di umanità, aprire un altro sipario» (Noseda 2012: 2). Cosa ben diversa è però doverla studiare in situazione di disagio e nella fretta di apprendere per potere comunicare e sottrarsi al ruolo di profugo! Questo punto va ribadito: non è facile imparare una lingua, soprattutto se si è nell’urgenza di dovere comunicare e cercare un lavoro sul posto; non è nemmeno facile ‘imparare una cultura’ se si è nella necessità di dovere interagire correttamente con gli altri. Non è dunque irrilevante pragmaticamente, non lo è nemmeno teoricamente. Perché? Nel campo della letteratura migrante, soprattutto, siamo infatti un po’ tutti destinatari di un messaggio che ci vorrebbe sovente ricettori passivi e produttori di comparazioni spesso gratuite: sono gratuite perché ci vengono offerte su un ‘piatto pronto’ dai media e dai discorsi dei politici appartenenti ai diversi orientamenti ideologici il cui intento è spesso quello di arraffare voti facendo leva sulle paure del comune cittadino. Un elemento è quindi da ribadire opportunamente: «quando parliamo di pubblico torniamo a parlare di retorica che è, in fondo, da qualunque lato la si guardi, una teoria del destinatario: chi ascolta deve essere conquistato e ciò avviene solo attraverso ciò che è in comune» (Raimondi 2002: 68).
La retorica può servire – talvolta, purtroppo – a piegare ai propri fini il volere e pensare altrui. In virtù di questo presupposto, è allora opportuno giocare – sempre – a carte scoperte e prendere di petto la questione in ogni caso, nel mio caso. Non soltanto io scrivo qualcosa rivolto potenzialmente a un pubblico che vorrei numeroso (o, comunque, ricettivo), ma, di più, il mio atto di scrittura ha – innegabilmente – una funzione persuasiva nei suoi confronti: esercito, cioè, una pressione discorsiva non indifferente, interagisco con chi mi ascolta e legge anche in funzione retorica. Se parlo e se scrivo, io o chiunque altro, voglio essere preso in conto, letto e creduto creando – e basandomi su – una comunanza di intenti e riflessioni tra me stesso e i potenziali lettori che, a loro volta, interpreteranno in un modo o nell’altro il mio testo, facendo delle ipotesi sull’atto, nonché sul modo stesso di concepire vita e cultura da parte mia. Dobbiamo dunque, proprio per queste ragioni, riflettere nei dovuti termini sulla funzione retorica e letteraria della scrittura. L’immagine più ingenua della scrittura è quella che la vorrebbe un atto neutrale, trasparente e innocuo, non retorico, puramente artistico o formale. In stretto parallelo con questa immagine, se ne associa a volte un’altra altrettanto semplicistica: la scrittura come prodotto finale e statico, indipendente dal divenire di vite e culture. Per quanto complesso, il divenire è invece elemento inglobante di produzione e ricezione dinamica al cui interno si situano – in commistione – l’individuale e il sociale, i processi e le trasformazioni, l’esistenza e il suo moto instabile.
La scrittura è un atto, situato e in divenire, mescolanza di effetti artistici e tentativi di rappresentazioni del reale, che tende ad avere effetti retorici sul lettore e su ciò che crede. Come afferma Deleuze, la «scrittura ha come unico fine la vita attraverso le combinazioni che vengono da essa estratte» (Deleuze, Parnet 1998: 12). In quest’ottica, si mette in risalto il bilanciamento che dovrebbe essere presupposto tra i processi e i risultati, l’enunciazione e l’enunciato, il messaggio e la ricezione, la vita e le sue forme di codificazione, tra le quali quella scritta usata da alcuni migranti per descrivere la loro sofferta esperienza. Un esempio pertinente lo ritroviamo nell’epilogo del testo di Abdolah, nelle parole conclusive affidate al personaggio principale: «Io, Bolfazl, ero un prolungamento dell’esilio. Adesso qualcuno mi avrebbe affidato alla tela. Mi sedetti sulla sedia. Lui prese una tela bianca» (Abdolah 2006: 158). Sorprendente, efficace! Nella scena finale de Il viaggio delle bottiglie vuote, infatti, un amico pittore si offre di fare un ritratto a Bolfazl. Lui accetta e pronuncia quelle parole che collegano la sua vita vissuta in esilio (di Bolfazl, personaggio principale nel testo enunciato) e dell’autore stesso (di Kader Abdolah, soggetto dell’enunciazione), nonché il rapporto esistente tra la dimensione artistica e passiva del ritratto e la vita in transito di un migrante alle prese con una cultura d’arrivo diversa da quella di partenza. È come se Abdolah, con queste parole affidate al personaggio principale, consentisse agli attori di carta di uscire dal testo al fine di parlare direttamente al pubblico dei lettori ricordando loro che esiste un andirivieni tra vita e arte che è particolarmente pronunciato nei racconti sulla migrazione. Questo andirivieni, proprio come nel processo creativo che porta alla riproduzione dei tratti di un soggetto in un quadro, è ambivalente: se, da una parte, consente di affidare proficuamente l’immagine di un individuo alla storia narrata, dall’altra lo rende in modo alquanto passivo, condizionato dalla capacità di un altro individuo – il pittore – di ritrarre secondo una sua prospettiva che potrebbe non essere condivisa dal soggetto ritratto.
Può un migrante, tenuto conto dei fatti esperiti, grazie alla sua scrittura, divenire soggetto attivo della sua vita e non più soltanto un oggetto rappresentato? L’epilogo del testo di Abdolah è esemplare: è un monito lanciato da un migrante che ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza dell’esilio e dalla quale ha cercato di riscattarsi trasponendola in testo divenuto letteratura di successo mondiale. È un monito ampio? In una sola immagine, Abdolah riesce a veicolare elementi centrali, spesso dicotomici, della vita e scrittura migrante: l’immagine e la realtà, la sfera d’azione individuale e collettiva, la resa dell’esperienza attiva e passiva, l’effetto estetico e realistico, la dimensione del passato e del futuro, l’esilio in un Paese lontano e la nostalgia del proprio Paese. Questa ipotesi sul rapporto strettamente intessuto tra vita e arte – tra vita e testo letterario – ha un’ampiezza che va al di là della sola scrittura dei migranti: nella sua migliore estensione teorica, ingloba un modo ‘situato’, forse problematico, sicuramente smaliziato, di definire la cultura stessa come insieme complesso al cui interno si sovrappongono e si mescolano le prospettive – orientate, retoriche – dei singoli individui.
Inutile dire quanto sia importante esplorare questa ipotesi proprio nel caso della scrittura e vita migrante: perché i migranti sono parte di una o più culture, le attraversano in modo doloroso e vengono alle prese concretamente con i loro modelli e le loro attuazioni pragmatiche. Ma non è tutto. L’esperienza dei migranti mette in dubbio quella che potrebbe talvolta essere intesa come una nozione di cultura singolare e oggettivata e induce a pensarla in termini plurali – non dunque unicamente strutturali o formali – strettamente interconnessi ed esistenziali. Come scrive Hastrup, la «cultura non è qualcosa di cui noi comunemente chiacchieriamo ma una posizione dalla quale noi parliamo» (Hastrup 1995: 51). Si potrebbe dire che non vale soltanto ciò che io dico (e dico di sapere), ma anche la prospettiva (sovente implicita) dalla quale io parlo perché ingabbia il mio stesso modo di dire e fare all’interno di questo insieme complesso di culture. Leggendo e scrivendo su Abdolah, per esempio, inevitabilmente io argomento le mie ipotesi d’antropologo; al contempo, narro e mi posiziono, per quanto sovente implicitamente. So bene di scrivere da antropologo e mi avvalgo dell’impostazione generale offerta dalla disciplina. So altrettanto bene, però, che vorrei andare al di là di una gabbia disciplinare che impone modalità di scrittura predefinite. Proprio perché lo so bene, vorrei cercare di usufruire del suo orientamento teorico – la disciplina dell’antropologia – senza cadere preda del genere testuale che spesso ne deriva in modo ripetitivo o obsoleto. Se la «disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso» (Foucault 1971: 37), è dovere dello studioso impegnarsi nello smantellamento dei processi di disciplinarizzazione, quale che essi siano, quale che sia il tema in questione.
Il tema relativo all’intreccio posto tra scrittura e vita (e tra vita e retorica) si presta non poco e la migrazione dovrebbe essere, di conseguenza, oggetto di studio e osservazione in un’ampia versione interdisciplinare al fine di coglierne elementi pregnanti per la nostra e altrui cultura e le reciproche interconnessioni. Insomma, per sintetizzare: io sono posizionato, Abdolah è posizionato, noi siamo tutti posizionati in quanto individui ‘portatori’ di culture che sono attraversate da discorsi e scritture, incontri e dissapori, concettualizzazioni e contestualizzazioni. L’interesse – non solo il mio – per la scrittura e vita migrante nasce allora dal fatto che il posizionamento lascia fortunatamente spazio a comparazioni e spiegazioni che tendono a mettere a fronte ipotesi in cui lo stesso sguardo analitico viene preso in conto e va al di là del singolo posizionamento frutto di osservazione e partecipazione individuale. Osservazione e osservatore, come insieme, sono compresi nel gioco strategico del divenire altro da sé: «l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione» (Lévi-Strauss 1950: XXXI). Io mi osservo, oltre che osservare gli altri, e osservo pure – cerco di farlo – il modo in cui metto in atto l’osservazione stessa. Così facendo, osservando me stesso nell’osservazione degli altri, apro la porta al caso e alla sua determinazione che va al di là delle intenzioni di partenza di un solo individuo posizionato. È dunque opportuno accettare, per tutte queste ragioni, «il caso come categoria nella produzione degli avvenimenti» (Foucault 1971: 61).
Gli eventi non sono prodotti soltanto da un’intenzionalità che pianifica il futuro – l’esistenza – in modo rigoroso, ma anche da coincidenze e incidenti che intervengono a deviare il divenire in quanto programma prestabilito all’origine. Piano e caso, intenzione e contingenza si rimandano incessantemente. Felicemente o infelicemente? Heller, in quello che può essere definito un riepilogo ragionato della sua vita, mostra quanto peso abbia avuto il caso nello svolgersi della sua esistenza (volta a combattere i nessi di subordinazione nelle società capitaliste odierne e del passato). Ci tiene a sottolineare, Heller, il fatto che ci sono state coincidenze diverse nella sua vita: alcune di queste non ha potuto viverle in quanto tali perché non conosceva il concetto; altre sono state ricercate con consapevolezza con risultati infernali o in alcuni casi provvidenziali. Scrive: «Il caso però, che sia una benedizione o l’inferno, è sempre un valore, un’opportunità, la possibilità di conoscere meglio il nostro carattere e di cambiare le nostre vite» (Heller 2019: 147). Persino i ricordi, per quanto deposito di conoscenza collettiva che vorremmo indelebile, sono sottoposti a questo incessante gioco di rimando tra l’intenzione e la contingenza, il piano e il caso. Lo sa bene Abdolah che, a un certo punto del suo testo, fa dire parole penose a Bolfazl: «Mio malgrado facevo costantemente degli sforzi per tenere vivi i miei ricordi. Per recuperare quelli che stavano per scomparire. Frugavo tra le mie vecchie carte, guardavo vecchie fotografie e scrivevo i nomi dei miei vecchi amici. Anche i numeri di telefono. I numeri familiari. Quelli che in realtà non si dimenticano mai» (Abdolah 2006: 76-77).
Dopo essere stato accolto in Olanda, infatti, Bolfazl comincia la sua vita di esiliato in balia della memoria e dell’oblio: un esiliato, dunque, che cerca di non dimenticare il Paese d’origine e allo stesso tempo di acquisire la cultura locale memorizzandola più che può, facendo uno sforzo attivo, notevole. Lo sforzo è però estenuante e va in due direzioni, sovente diverse per un migrante. Se Bolfazl deve combattere contro il passato che, col passare del tempo, sembra sbriciolarsi sempre più, non può sottrarsi nemmeno all’obbligo dell’apprendimento del sapere locale che passa attraverso la letteratura: «Mi sforzavo continuamente di imparare a memoria parole olandesi, poesie olandesi [come] una medicina contro l’oblio» (Abdolah 2006: 77). Se l’oscuramento lento del passato è forse inevitabile, vivendo lontano dal proprio Paese, è possibile però, forse illudendosi, mantenere viva la memoria in quanto tale, applicandosi allo studio della cultura di arrivo. È quello che fa Bolfazl, reagendo alla cancellazione automatica dei ricordi dovuta allo scorrere inesorabile del tempo e adottando come ‘medicina’ una tensione verso l’acquisizione di nuovo sapere da immagazzinare in memoria, a tappe forzate, con volontà e motivazione. Sulla memoria del passato che si va dissolvendo si sovrappone dunque una nuova memoria in costruzione.
È altrettanto importante allora, soprattutto parlando di scritture e vite migranti, sottolineare il fatto che esiste in esse un’ibridazione esistenziale, narrativa e argomentativa che trova origine in un vissuto personale, spesso sofferto, attraversato da incontri e scontri di culture, regole e trasgressioni di codici, interazioni belle e brutte, felici o drammatiche. Questo è il motivo per cui, a proposito di scrittura migrante, tendo a mettere in primo piano teorico il principio secondo cui la vita viene presa – dovrebbe essere presa – di petto anche laddove si ricorre alla finzione immaginaria e si argomenta un proprio modo di vedere le cose concentrandosi su un testo, ovvero su quello che è il risultato finale di un processo. Un testo traspone la vita: una vita sofferta, spesso vissuta nel pericolo, comunque nella parziale incomprensione. Non è forse questo il caso di Kader Abdolah, il quale mette in scena dei personaggi di finzione ma attinge pure alla propria esperienza trasposta di migrante iraniano alle prese con una cultura diversa dalla sua, quella olandese? Ciò che viene scritto dai migranti, ivi compreso Abdolah, è solitamente il risultato di un intreccio esistenziale che va preso in conto in tutto il suo spessore artistico, persino immaginario.
Detto questo, le domande che ne scaturiscono sono molteplici: dove si pongono le frontiere simboliche e materiali nelle vite e scritture dei migranti? Frontiere spesso insuperabili si costituiscono, senz’altro, tra il Paese di partenza e quello di arrivo. Ma è anche vero che frontiere meno visibili, forse ugualmente sofferte, si ergono nel processo di apprendimento della lingua e della cultura del Paese ospitante. Ne Il viaggio delle bottiglie vuote, Abdolah mette l’accento sulla difficoltà rappresentata dall’apprendimento non soltanto dalla lingua straniera, ma, anche, della cultura di arrivo. E lo fa, in maniera originale, mettendo in scena sia le dinamiche familiari interne sia quelle esterne che lo vedono rappresentare il ruolo dell’osservatore esterno della cultura olandese. Scrive Abdolah: «Con il passare del tempo mi capitava sempre più di confrontarmi con altre cose strane nel quartiere. E dovevo abituarmi. Abituarmi a tutto» (Abdolah 2006: 13). In quanto straniero, Abdolah è sottoposto a un continuo processo di familiarizzazione di ciò che risulta estraneo e insolito ai suoi occhi. In questo frangente si riferisce, più particolarmente, al fatto che il suo vicino di casa, sorprendentemente, se ne sta nudo nel giardino senza provare disagio o vergogna. Nella sua cultura d’origine, Bolfazl doveva invece fare molta attenzione a non mostrare i genitali. Suo padre, quando andavano insieme al bagno pubblico, lo metteva in guardia dal mostrare parti intime.
È quindi significativo seguire Bolfazl nel suo ruolo di osservatore che deve abituarsi all’alterità perché vengono a galla quelle categorie su cui si basano i suoi posizionamenti. La natura che circonda la casa di Bolfazl – una natura che si penserebbe, altrimenti ed erroneamente, come tratto universale – agli occhi del protagonista acquisisce i tratti di un ‘insieme complesso’ inclusivo addirittura delle stesse persone: «Sistemai un sedia in giardino e mi misi a studiare l’olandese. Faceva caldo. Era un’estate calda. Nel mio paese studiavo al sole senza problemi, ma nella mia prima estate olandese mi era impossibile. Non riuscivo a concentrarmi. L’estate era un’esperienza del tutto nuova per me. Gli uccelli, le finestre da cui potevi guardare dentro le case, l’erba, le formiche, i rumori, le donne seminude nei giardini attiravano tutta la mia attenzione e non mi lasciavano imparare quelle parole bizzarre» (Abdolah 2006: 12). Ma questi non sono che esempi che mostrano bene cosa vuole trasmettere Abdolah più in generale. Pur non essendo un antropologo di professione, infatti, Abdolah formula un’ipotesi d’antropologo in termini narrativi: l’apprendimento della cultura è tanto difficile quanto quella della lingua; l’apprendimento della cultura può, come nel caso di Bolfazl, avvenire a velocità talmente diverse che i legami familiari cominciano a sgretolarsi e allentarsi. L’apparente compattezza della famiglia viene a infrangersi contro un apprendimento frastagliato dell’alterità. Bolfazl non capisce più il figlio e la moglie comincia a sembrargli sempre più strana. Ciò è dovuto in parte a due diversi modi di far fronte all’alterità. Bolfazl prende le distanze e osserva con cautela le circostanze che lo riguardano nel nuovo contesto; il figlio e la moglie sembrano invece immergersi senza diffidenza nella cultura olandese. Se la moglie e il figlio vivono la prossimità della cultura olandese senza eccessive intermediazioni testuali, Bolfazl al contrario ha bisogno di ricorrere ai dizionari e ai libri. Si potrebbe dire che sua moglie e suo figlio si lanciano nella vita, apprendendone i nuovi codici culturali, proprio interagendo con gli olandesi; Bolfazl invece rallenta il passo ricorrendo a una acquisizione della competenza che avviene nel suo caso soprattutto attraverso i dizionari e l’osservazione a distanza.
Ciò induce a una riflessione sulla vita culturale e sul modo di intenderla: attraverso l’acquisizione di competenze che consentono di meglio affrontarla oppure passando all’atto e imparando direttamente dall’interazione. Rimane il fatto che, in un caso o nell’altro, l’esistenza di un ‘individuo in transizione’ – quale è quella di un migrante – viene ineludibilmente trasposta attraverso codici generati dal divario tra culture e dalle retoriche che accompagnano questi codici allo scritto. Questo meccanismo, insieme retorico e culturale, è possibile vederlo in atto nel testo di Abdolah. Basta prenderlo nelle mani – senza necessariamente averlo letto prima – che ci si rende subito conto, osservandolo, che l’intenzione dell’emittente (qui indissolubilmente sincretico: autore, casa editrice, traduttore) è quella di catturare il lettore generando una commistione di codici retorici e culturali, di colori e forme, di sinestesie e percezioni, di simboli e segni molteplici. Come? Secondo quali dispositivi specifici? Negli ultimi righi della quarta di copertina, per esempio, si legge: «Contro ogni stereotipo e preconcetto, Kader Abdolah fa così emergere la verità umana dei suoi personaggi, in una scrittura poetica ed essenziale». La scrittura di Abdolah è effettivamente poetica ed essenziale, se non altro secondo me. Pur essendolo, però, quello che si dice nella quarta di copertina è comunque il risultato di una selezione – da parte di un emittente sincretico – che mette l’accento su alcuni tratti della scrittura di Abdolah e non su altri, ugualmente possibili. La scrittura di Abdolah, si può dire, è altrettanto sofferta e vissuta, sognante e stralunata, ellittica e dialogante. E non è finita qui. Nella quarta di copertina, si mette inoltre l’accento sulla qualità di scrittura di un migrante, più che sul divenire molteplice delle sue vicissitudini e sulle difficoltà di ricezione nel Paese di arrivo, così come sul suo specifico apprendistato culturale, lento e difficile.
Ovviamente, scrittura e vicissitudini sono strettamene intrecciate. Ma è anche vero che la strategia comunicativa più generale è sovente quella di insistere sulla poetica della scrittura migrante: sulla sua valenza in quanto scrittura. La stessa ‘confezione’ del libro è il risultato di una selezione volta ad ottenere un effetto specifico sul lettore: il fronte è blu, mentre il retro è giallo. Sono colori vivaci che non possono non attirare l’attenzione e non fanno certamente apparire – utilizzandoli – la lettura del testo come noiosa e didascalica. I tulipani rappresentati in copertina, per di più, rimandano con pertinenza all’Olanda – Paese dove Abdolah viene accolto – ma anche, complessivamente, al mondo dei fiori e al suo universo simbolico connesso alla percezione sensoriale, non solo visiva ma anche olfattiva. Diciamo che, in una prospettiva semiotica più ampia, i colori blu e giallo della copertina fanno parte integrante del messaggio: richiamano l’attenzione del lettore e lo rimandano a quegli universi di significato rappresentati dal blu e dal giallo.
Alla luce di quanto detto, appare più chiara l’idea proposta qui: un libro non è soltanto un messaggio unicamente scritto, ma un ‘composto sincretico’ in cui convergono elementi visuali relativi ai colori e alle immagini. Un libro non è rappresentato unicamente dalla scrittura che lo attraversa: un libro è messaggio disseminato nella copertina, nei colori, nel titolo, nei caratteri tipografici. Tenendo conto di tutti questi aspetti, è come se l’emittente avesse voluto dire che il testo di Abdolah non è monotono, ma piacevole da leggere, poeticamente rilevante, caratteristico di un tipo di scrittura definita migrante. Detto questo, anzi a maggior ragione, bisogna ribadire il fatto che i meccanismi retorici e interculturali relativi alla vita e scrittura migrante sono complessi e vanno debitamente presi in conto nel loro incastro antropologico d’insieme. Un migrante (che scrive) produce una forma di comunicazione (allo scritto) la cui funzione è poetica e, allo stesso tempo, veicolo di un’esistenza vissuta in transizione, sottoposta a un implicito processo di traduzione da una cultura all’altra, in vista di una ricezione che la ricontestualizzi, accettandola o rifiutandola in parte. Adattando l’ipotesi sulla comunicazione di Jakobson (Jakobson 1966) alla questione, si potrebbe dire che la produzione di un messaggio (la funzione dell’emittente) dovrebbe essere vista – teoricamente e negli usi – in parallelo con la simmetrica ricezione del messaggio da parte di un lettore (la funzione del destinatario) situato in un contesto (la funzione referenziale), dotato di un codice di disambiguazione (la funzione metalinguistica) del messaggio stesso (la funzione poetica). In qualche modo, questo complesso processo di produzione e ricezione fa parte del più generale sistema di comunicazione interculturale.
Nel caso della scrittura migrante, ciò viene reso ancora più complesso (e interessante) dal fatto che un migrante compie un itinerario di transizione da una cultura all’altra e deve apprendere e parlare inoltre più lingue. Nella sua scrittura, il migrante mette in gioco direttamente la propria vita – se non altro quella simbolica – anche laddove usa personaggi di finzione, come nel caso di Abdolah. Per attenerci strettamente alle mie considerazioni, al fine di rendere il quadro completo, più che di ‘scrittura migrante’, si dovrebbe allora parlare di ‘vita migrante’ a tutto tondo, sovente retoricamente trasposta, dispiegata tra almeno due culture in un processo in pieno divenire dal punto di vista esistenziale, sovente transitorio dal punto di vista spaziale e temporale. Il mio riferimento principale in questo saggio è Il viaggio delle bottiglie vuote di Kader Abdolah, un autore in fuga dal proprio Paese, ormai da anni residente in Olanda: un autore ormai divenuto famoso e letto in diverse lingue e Paesi. Succede, è vero, ma non a tutti i migranti. È un testo, questo di Abdolah, in cui sono messi in risalto, particolarmente bene, il suo vissuto e il posizionamento singolare rispetto alle frontiere simboliche e materiali stabilite tra le culture, all’apprendimento della lingua nel Paese di adozione, all’assimilazione implicita ed esplicita dei modelli culturali in uso nel luogo di arrivo.
Prendo il testo di Abdolah come riferimento essenziale, tenendo conto del mio posizionamento di lettore e studioso, perché, pur collocando l’azione direttamente nel Paese d’accoglienza, ricrea simbolicamente e sapientemente quelle tensioni che caratterizzano i profughi. A tal fine, è opportuna una precisazione che va nel senso dell’incapsulamento della mia lettura analitica all’interno di uno schema funzionale della comunicazione in cui coesistono sempre, benché per gradi diversi, emittenti, destinatari, contesti e codici, estetiche e rituali vari. Mi piacerebbe – avrei voluto – pianificare la mia lettura, darle un ordine e una regola. Mi piacerebbe – avrei voluto – scrivere come se io, nel frattempo, non vivessi: nella sospensione della scrittura del mio saggio. Ma è mai possibile dedicarsi a un compito – scrivere o leggere nel mio caso – creando una parentesi nel vivere quotidiano, nel corso dell’esistenza di un individuo? Diciamo che la vita è onnipresente e i testi che ne risultano sono in qualche modo una ‘finzione’ rispetto alla linearità e consequenzialità che mettono in scena. In effetti, nonostante i miei aneliti, non è possibile applicare questo principio: non è mai possibile aprire una parentesi nel corso di vita di un individuo, interrompere il suo flusso e fare altro.
Mi piacerebbe dire – se solo fosse possibile – ‘voglio leggere’ o ‘voglio scrivere’ e passare all’atto senza più smettere, tenendo un fronte unilaterale: mi piacerebbe dirlo e passare, immantinente, dall’intenzione alla sua attuazione, senza l’intermediazione della situazione specifica in cui mi trovo, privo delle costrizioni relative al contesto d’uso e all’ancoraggio spazio-temporale. Ma non è così, non è mai così semplice. Come scrive Duranti, rifacendosi a Wittgenstein, «un’intenzione è incassata nella sua situazione» (Duranti 2015: 153). La situazione, spesso, in modi talvolta inattesi, ridirige l’intenzione iniziale, può stravolgerla e persino rivelarla al soggetto stesso ritenuto – erroneamente – latore esclusivo o, come si dice, in teoria della comunicazione, il ‘mittente’ all’origine del messaggio. Ebbene, è praticamente impossibile pensare un’intenzione originaria senza una situazione correlata che la ‘accoglie’ e ne ‘srotola’ senso e portata nel contesto d’uso dell’agente, adattando quindi l’origine (in cui – e da cui – sembrerebbe essersi prodotta l’intenzione) alla ricezione che la rimodella e la situa nuovamente, dinamicamente.
Il mio saggio – un saggio che scrivo cercando di coniugare antropologia del linguaggio e antropologia esistenziale – comincia dunque all’insegna di una ‘impotenza’ e di una ‘constatazione’. L’‘impotenza’ è risultato del fatto che, una volta di più, non sono del tutto padrone – sono consapevole di non essere detentore esclusivo – delle mie intenzioni pianificatrici: come vorrei, come sarebbe utile in alcuni casi, come è opportuno che talvolta sia. La ‘constatazione’ – mi rendo conto – è effetto del mio modo di essere persona: un modo che mi proietta nell’articolazione della lettura e nel suo senso continuamente ricomposto. Non riesco a leggere o scrivere, in definitiva, lasciandomi andare unicamente all’immaginazione in sé o esclusivamente agli eventi proposti dall’autore perché amo leggere tra le righe e gli interstizi, tra le forme e le strutture, tra il divenire di un contesto in cui sono situato e l’affermarsi di un altro in arrivo in cui sto per dispormi. A complicare le cose interviene il fatto che, oltre a essere un lettore sregolato che si sofferma a piacimento qui e lì nel testo perdendosi in mille sollecitazioni sottili, sono un antropologo ossessionato dall’impatto risultante dalla nozione di cultura nei vari ambiti del sapere, ovviamente di particolare rilevanza in testi di migranti sempre in bilico tra forme di appartenenza diverse.
Sono dunque anch’io un soggetto instabile – una sorta di migrante – «su una frontiera sempre in movimento» tra identità e alterità, tra il dentro e il fuori (Lévi-Strauss 1988: 8). Amo dunque leggere (e scrivere) lasciandomi risucchiare dai miei pensieri sulla frontiera e dal contesto che ‘dà loro spazio’; amo di conseguenza leggere e rileggere riflettendo sull’interrelazione esistente tra lettura e scrittura, tra vita e attività quotidiana, tra una cultura d’origine e l’altra d’arrivo. D’altronde, una scrittura di getto e ininterrotta, con quella coerenza che di solito si dà al testo finale, è praticamente impossibile: ci si ferma sempre qui e lì, si fanno delle pause e si riflette, ma queste pause e riflessioni vengono espunte dal testo finale. Allo stesso modo, è molto difficile che la lettura di un testo prenda avvio e si protragga fino alla fine senza interruzioni. Diciamo che il testo finale o una lettura tutta d’un fiato rappresentano una finzione bell’e buona messa in atto a fini diversi, tra gli altri anche una parvenza di coerenza e di unità di pensiero. Come dice Barthes: «Non vi è mai capitato, leggendo un libro, di interrompere continuamente la lettura, non per disinteresse ma al contrario per l’ininterrotto affluire di idee, stimoli e associazioni? Insomma non vi è mai capitato di leggere alzando la testa?» (Barthes 1988: 23). Penso che sia capitato a tutti quanti, anzi è l’esperienza più comune: alzare la testa, perdere di vista il testo e ritornarci in seguito. La convenzione culturale, tuttavia, vuole che non si mostri questo procedere intermittente. Invece, io ho seguito qui i miei modi usuali di darmi alla lettura e alla scrittura, rivelandoli a me stesso nel divenire, ‘riscrivendoli’ al di là – spero – del loro valore di automatismi acquisiti negli anni: il mio è dunque un esperimento di lettura realizzato al fine di capire fino a che punto è possibile proiettarsi in un processo – la lettura lo è – e in che modo è inoltre possibile leggere un testo prodotto da un migrante in chiave antropologica.
Questa proposta, per quanto realizzata qui nell’arco di poche pagine, tende a mettere a fronte il concetto di analisi e quello di lettura, il concetto di soggetto enunciato (nel testo) e quello di soggetto enunciante (io mentre parlo e scrivo). Io non sono altro che un soggetto che si inserisce in uno spazio della cultura in cui si richiamano e si sovrappongono lettura e scrittura, nonché enunciazione ed enunciato. Si potrebbe dire, riformulando diversamente, che, per capire effettivamente come un soggetto – io stesso in movimento – si inserisce in uno spazio anch’esso dinamico, faccio «dell’analisi una variante del suo oggetto» e viceversa (De Certeau 2001: 3). Per quanto inusuale sia qui il mio ‘andamento antropologico’, probabilmente poco atto a essere compreso da chi non ha nozioni specifiche, mi consola un elemento: la ‘letteratura dei migranti’ si presta, comunque vadano le cose, a comprendere «the other as oneself in other circumstances» (Jackson 2012: 8). È fuor di dubbio: mettersi nei panni dell’altro è tanto più proficuo se ci si immedesima nelle effettive circostanze, se si tiene conto della diversità stessa delle circostanze, pensando a se stessi in quelle situazioni che, sovente, osserviamo da lontano. In definitiva, si dovrebbero capovolgere gli assunti: più che di identità, ognuno «di noi dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità» (Maalouf 1999: 175). L’incipit di Abdolah è esemplare in questo senso:
«Un aereo. Adesso è un aereo che mi appare nel sonno. Un tempo sfrecciavano treni nei miei sogni. Un’infinità di treni, mi davano incubi. I treni arrivavano. I treni partivano. Mi portavano passeggeri. E ripartivano vuoti. Adesso i treni sono scomparsi. L’ultimo si è portato via René. René era il mio vicino. Il mio primo vicino di casa olandese. Il mio mondo è diviso in due parti. Una è tra le montagne della mia patria. L’altra è qui, in un paesino sulle rive dell’IJssel. Non sono io che l’ho voluto» (Abdolah 2006: 9).
L’incipit rappresenta una soglia ineludibile che proietta il lettore (e l’autore) dal mondo del vissuto al mondo del testo. Questo è uno dei motivi per cui viene concepito in maniera accurata dall’autore e costituisce uno stacco di rilievo nell’ordine di lettura. In qualche modo, è come se un incipit dicesse: «si comincia, cari lettori, mettete da parte la vita che state vivendo e lanciatevi nella lettura del testo che avete in mano». Naturalmente, l’incipit lo dice, questo, implicitamente, ma pone il problema con forza: chi vuole leggere, non può fare altro che fare una pausa nel vissuto e immettersi nel solco della lettura, quale che sia la modalità. Questa frontiera, benché evidente, rimane per lo più implicita, tranne in quei casi in cui gli autori la prendono di mira volutamente, introiettando la situazione di lettura all’interno del testo stesso, trasformando un contesto connesso al vissuto in un contesto testualizzato. È celebre, a questo riguardo, l’incipit di un testo di Calvino in cui l’autore richiama il contesto di lettura – si rappresenta come lettore – e allo stesso tempo è l’autore del volume che ha scritto:
«Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; al di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: ‘No, non voglio vedere la televisione!’ Alza la voce, se no non ti sentono» (Calvino 1994: 3).
Leggendo questo passaggio iniziale del romanzo di Calvino, sembra quasi di essere proiettati nell’evento stesso, nella realtà dei fatti. Sembra di vedere il personaggio e di essere accanto a lui sulla scena mentre dice ai familiari di lasciarlo in pace perché intende leggere un libro. Sembra di entrare nel flusso dei pensieri del personaggio che consiglia al lettore di usare alcune precauzioni per potere stare tranquillo e isolarsi dal mondo che lo circonda. Oppure, forse più probabilmente, un’istanza smaterializzatasi prende voce e dà le istruzioni al lettore affinché possa leggere senza altri pensieri e fastidi. Che siano flussi di pensiero o istanza esterna, ciò che più conta qui è che l’autore produce un ponte straniante tra il libro che il lettore si trova tra le mani e il personaggio del libro (che è inoltre un lettore del libro di Calvino). In questo modo, non soltanto l’autore mette in scena l’inizio in maniera duplice (il lettore in carne e ossa inizia a leggere e mentre inizia legge di un lettore che parla di una scena di lettura iniziale), ma insiste anche su una questione cruciale: l’enunciazione di un messaggio o di un testo non può che essere separata dal suo enunciato. Pur mettendo in scena questa inevitabile dicotomia, Calvino cerca di frantumarne l’opposizione ricorrendo a vari stratagemmi narrativi ed enunciativi.
Questa parentesi su Calvino, arguta dal punto di vista della costruzione dell’incipit in sé, torna inoltre utile per mettere l’accento in maniera più chiara sul rapporto esistente tra vita e scritto. Oltre a mettere similmente in scena il passaggio dalla vita al testo, l’incipit di Abdolah si presenta infatti come la possibile ricomposizione di un mondo diviso in due: la sua patria e l’Olanda. La tessitura di questa possibile ricomposizione è affidata al resto della narrazione articolata sull’incontro e (in)comprensione tra le culture. La questione di fondo che Abdolah prospetta, cucendola e ricucendola sul filo della narrazione, è quella dell’apprendistato: al pari di una lingua, la cultura ha i suoi meccanismi che vanno studiati, nonostante non sempre l’incontro tra le diversità sia felice. Uno di questi casi di ‘infelice incontro’ – esemplificativo – si presenta nel momento in cui alcuni olandesi cercano di offrire vestiti di seconda mano a Bolfazl e alla sua famiglia: «Non sapevo se fosse un modo per entrare in contatto o se volessero semplicemente darci qualcosa per farci la carità. Ma noi la vedevamo in tutt’altro modo. La consideravamo una specie di umiliazione. Venivamo da una cultura in cui non si accettano nel modo più assoluto cose usate da altri» (Abdolah 2006: 14). Com’è noto, la comprensione interculturale è di fatto difficile. L’elemento di sicuro interesse proposto da Abdolah nel suo testo è però un altro: non soltanto le culture si incontrano comprendendosi o meno, ma gli individui devono presupporre questo incontro come un apprendistato al pari di quello linguistico che, alla lunga, può avere i suoi effetti positivi.
E mentre scrivo questo, in questo stesso momento in cui lo penso, mi rendo conto, alzando lo sguardo dalla pagina, che è ora di terminare: è ora di porre fine all’esperimento facendo una sintesi sommaria del mio operato posizionato. Cosa ho inteso fare in queste pagine? Applicandomi a un testo di uno scrittore migrante, ho messo in primo piano il legame esistente tra produzione e ricezione, retorica e comparazione di prospettive. Se la scrittura è un processo di produzione, si dovrebbe simmetricamente parlare di un inevitabile processo di ricezione e tenere i due aspetti sempre molto presenti, se non altro per meglio scandagliare i possibili legami che si stabiliscono tra stili di lettura e modalità di attuazione dell’esistere. Per semplificare, si potrebbe dire che due domande smaliziate sono sempre necessarie: da dove leggo (la prospettiva e il posizionamento)? Con quali presupposti (culturali e metodologici)? I due processi di produzione e ricezione, inoltre, sono animati da intenti retorici di cui bisogna tenere conto in letture e analisi antropologiche, soprattutto nel caso della scrittura migrante di così delicata comprensione. In altri termini: come si legge un libro di uno scrittore migrante? Io ho provato a leggerlo, per frammenti, spezzandone la presunta linearità, adottando intenzionalmente una strategia di lettura ‘da antropologo posizionato’ che non rifugge dalla comparazione più oggettivante. Ciò mi ha consentito di andare al fondo della questione senza irrigidirmi in una singola prospettiva: dietro le scritture migranti – l’etichetta di cui tanto si parla – esistono, per l’appunto, le esistenze dolorose e sofferte.
Scrittura ed esistenza vanno di pari passo. Abdolah, da parte sua, parla dell’esistenza riflettendo su quelle che sono le frontiere meno visibili della migrazione: meno visibili e drammatiche di quelle che ci trasmettono i telegiornali, ma ugualmente importanti per capire l’ampia portata del fenomeno e la stessa valenza assegnata a una lettura posizionata. Ogni lettura di un ‘oggetto culturale’ è inevitabilmente posizionata: una incursione – interpretazione, analisi, commento, etc. – valorizza alcuni tratti e ne sminuisce (o dissolve) altri. Inevitabilmente. Un esempio noto è quello di Geertz e del suo famoso testo sul combattimento dei galli (Geertz 1987). Quali che siano i pregi dell’interpretazione di Geertz, sono sicuramente trascurate le interazioni dialogiche che l’antropologo avrebbe potuto avere con i nativi (Crapanzano 1997). Parallelamente, mi chiedo, quali incomprensioni o cecità si nascondono dietro la mia breve e sregolata incursione nel testo di Abdolah? Perché ho adottato, a questo proposito, una lettura d’antropologo posizionato che procede per digressioni? Penso che una strategia del genere possa essere utile proprio perché – amplificando con intento una prospettiva in parte soggettivante – consente di riflettere sul riorientarsi del posizionamento stesso. In sostanza, per quanto soggettivante, una tale strategia valorizza – come direbbe Geertz (Geertz 2001) – un atteggiamento anti-anti-relativista che tiene a distanza (e a bada) una tendenza all’universalismo o alla generalizzazione precostituita. In sintesi, l’antropologia come lavoro di lettura e rilettura – al di là e al di qua della metafora di Geertz formulata nel combattimento dei galli – può ancora essere utile se non si finge analisi oggettiva a priori, ma proietta il soggetto nell’andirivieni del possibile. Che sia questa la vera svolta? Una commisurazione del possibile/dei possibili che l’incontro tra le culture produce?
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Riferimenti bibliografici
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
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