Un romanzo-caleidoscopio
Il romanzo post-moderno dello scrittore rumeno Mircea Cărtărescu Abbacinante è una trilogia monumentale che fa esplodere, con le sue anamorfosi e distorsioni, pressoché tutti gli ambiti dello scibile umano. Mircea afferma che il suo principale interesse è «la sostanza della realtà, ma intesa nel senso più ampio possibile. Le visioni, i sogni, sono realtà. Quella che chiamiamo comunemente ‘realtà’ non è che la superficie delle cose. La vita allucinatoria è vera quanto la vita ‘reale’» (Ferriero 2018). Infatti, rivisitando continuamente all’interno delle vicende narrate la sua proiezione autobiografica nell’omonimo protagonista, la rende irrisolta, in un incessante gioco di inveramento e falsificazione sempre reversibile. L’autobiografia stessa risulta calata dentro la Storia (quella del comunismo di Ceausescu), da intendere però come ritaglio della dimensione metafisica, oppure viceversa come una metafisica precipitata nel flusso degli eventi umani. Jameson parla per questa tecnica di incommensurability-vision, cioè la sintesi di opposti che si combinano in una percezione spaziale alterata, in cui la scala temporale non è lineare, bensì con balzi avanti e indietro a mo’ di scacchiera (Lipoveckij 2008: 197).
Una semiotica dell’oltre, o metasemiotica
Accade a volte che il segno della parola che si legge sia così impressivo da attivare non solo il dispositivo del cervello abilitato alla decodifica linguistica (secondo Chomsky, la competence), ma anche i cinque sensi. Come può succedere che la convenzione (e quindi, la finzione) del codice riesca a generare una realtà palpabile, respirabile, visibile?
Accade in questi casi che il semeion ‘segno’, nel suo attuarsi sulla pagina, dismetta la crisalide della lettera e perda la sua traducibilità analitica, condensandosi in visione. La lingua, nella sua stratificazione fonetica, morfologica, sintattica e semantica, prevede ovunque rapporti di tempo, spazio, causa-effetto, mentre nel mondo del visionario tutto ciò che avviene, per un istante, è docilmente accettato non solo dalla mente (mi riferisco alla volontaria sospensione d’incredulità teorizzata da Coleridge), ma persino dai sensi. Eppure, come ci insegna Peirce, ogni parola costituita da lettere dell’alfabeto, nella sua totale immotivazione di causa (non è indice) o di somiglianza (non è icona), è un simbolo che si incarna in materia leggibile: il codice lingua è una foresta di simboli di baudelairiana memoria, un ecosistema di echi sinestetici che fanno traballare il dato di conoscenza per scompaginarlo e destituirlo. Poiché l’uso produttivo-ricettivo del linguaggio non deve essere solo un atto di sapere, ma soprattutto di stupore; un atto che non sia univocamente interpretabile, ma che sappia vedere per non credere.
La lingua di Mircea Cărtărescu crede ferventemente nella sua magia, nella volontà che ogni sua parola sia un corpo ascoltabile, amabile o detestabile, ma comunque esperibile; un corpo Abbacinante da cui lasciarsi non solo abbacinare, ma anche un corpo da generare secondo la grammatica frattale del segno trascendente e psich(edel)ico, continuamente ibridato di immagini e sensi (percettivi e semantici); un corpo su cui fissare i propri occhi, da poter addentare con la conoscenza e il raziocinio, ma soprattutto da desiderare in preda al delirio, da stringere con le mani della mente e da penetrare come un caos magmatico, come un gigantesco onnipotente buco nero, o come il sacro Occhio di Shiva. Ecco perché l’indagine di Abbacinante non potrebbe essere solo di natura critico-letteraria, ma ha bisogno di un oltre concepibile solo nella più alta e più umana delle capacità: l’immaginazione. Ecco perché la semiotica della lingua ha bisogno di interagire con quella del regno sconfinato del visibile o del potenzialmente immaginabile, ed è proprio in questo interstizio ermeneutico di unione-disgiunzione che cerca di insinuarsi il presente lavoro.
Abbacinante e l’arte figurativa
Il rapporto che Abbacinante intrattiene con l’arte è paradossale, mai serenamente accettato, in costante rivisitazione. In primo luogo, Cărtărescu ribalta le funzioni dell’icona di impianto bizantino, tipica della tradizione folklorica romena, attribuendole funzioni in chiave post-moderna, talvolta dissacranti, talvolta dense di inedite semantizzazioni. L’antropologo Mircea Eliade sostiene che esista un «innato genio artistico» presso la gente della sua terra di origine: «il tesoro artistico del popolo romeno è una cosa viva; il contadino […] trasforma in opera d’arte tutto ciò che tocca, spinto da un intimo istinto, da un’innata esigenza della sua natura» (Eliade 1943: 63). L’autore impregna le aure dei luoghi, degli ambienti, delle città che ospitano o sono oggetto delle sue visioni con una tecnica paragonabile a quella degli inediti affreschi esterni dei monasteri romeni: è la luce “abbacinante” che ogni volta si manifesta attraverso gamme cromatiche che non esistono nel mondo naturale e vanno dal giallo biliare all’azzurro cosmico fino alle emanazioni madreperlacee.
In secondo luogo, l’autore instaura un rapporto che si può definire “figurale” tra il protagonista del romanzo, Mircea (omonimo e non solo dell’autore) e il misterioso pittore Monsù Desiderio, pseudonimo di un duo di artisti visionari, autori di capolavori rovinosi, perturbanti e misconosciuti fino alla loro grandiosa riscoperta in età romantica. L’identificazione di Mircea con Monsù Desiderio è dovuta anche al fatto che entrambi sono parte, o il risultato, di due entità opposte ma complementari e riunite sotto lo stesso segno identificativo: il gemellaggio di sangue Mircea-Victor corrisponde a quello artistico e passionale di Francois-Didier. L’uno dipinge per sopravvivere, l’altro, del tutto inselvatichito, per non soccombere alle sue maestose, apocalittiche allucinazioni.
La farfalla: archetipo, struttura iconografica, cosmo
La farfalla si può ritenere l’immagine più fantasmagorica e fertile di tutto il romanzo. Innanzitutto dà origine, con la sua tripartizione anatomica, ai volumi della trilogia (intitolati L’ala sinistra, Il corpo, L’ala destra). Abbacinante infatti può essere visto come il continuo reggersi della triade hegeliana che comprende tesi, antitesi e sintesi, laddove la contrapposizione fondamentale si ritrova nei due gemelli protagonisti, Mircea, il luminoso, e Victor, lo ctonio, sulfureo fratello scomparso a cui è destinato a ricongiungersi solo alla fine.
Inoltre, la farfalla è portatrice di una serie di suggestioni legate alla sua concezione nel mondo classico e folklorico: ha a che fare con le Parche, in particolare con Atropo, la Parca addetta a recidere il filo della vita, ma anche con le ben più rasserenanti fate. A incarnare tali valori sacrali e mitici della farfalla è la madre di Mircea, Maria, che ha una «grossa macchia rosa-violacea a forma di farfalla» (Cărtărescu 2007: 78) sul fianco sinistro, capace di mutare forma e colore, interpretando così la variabilità dei suoi umori psichici. La voglia si stende orizzontalmente sulla pancia verso la natica, un’ala scende verso la coscia, l’altra sale verso la vita: il duplice orientamento, l’ascesa e la discesa, segnalato dalle direzioni delle ali, sono gli indicatori topico-semiotici di tutto il romanzo, che trovano la loro congiunzione nel corpo centrale, simbolicamente rappresentato da quello della farfalla.
La bellezza emanata dai suoi colori e dalla sua leggiadria è sempre minacciata dalla sua natura innegabile di insetto orrendo, così come la macchia di Maria può essere interpretata come un marchio del destino oppure una malattia sfregiante, il lupus eritematoso. Damien Hirst, protagonista della scena artistica contemporanea e autore di una serie di lavori incentrati su questi insetti imbalsamati, non esita ad ammettere il paradosso della farfalla: se guardate da lontano, esse sono stupende; se avvicinate allo sguardo, provocano disgusto perché si rivelano nella loro nuda natura entomologica.
Intrecciare i fili del grande arazzo della vita è uno dei compiti fondamentali di Maria, e in questo si ravvisa la sua vicinanza con l’iconografia della Parca: dalle sue mani onnipotenti scaturiscono mondi. In questa forza si ravvisa inoltre un’analogia con l’arte della scrittura. Testo deriva dal termine Textum, che indica il prodotto dell’atto del tessere, di conseguenza il tappeto è una vivida metafora per l’intera opera letteraria. Guardare al tappeto tessuto dalla mamma significa infatti scrutare i segreti e i misteri dell’universo, come se fosse un grande organismo cosmico, dotato di carni pulsanti irrorate di sangue e linfa: «se sprofondavi il tuo volto nel pelo vellutato, […] uscivano in rilievo una testa d’aquila, una di toro e una di leone, livide come statue […] Se vi affondavi il braccio […] sentivi membrane e organi umidi […] Una sorta di tatuaggi, simili agli arabeschi sbiaditi del tappeto, restavano poi sulle nostre braccia, si cicatrizzavano […] e alla fine lasciavano sulla pelle soltanto una specie di flagranza di linfa acerba» (Cărtărescu 2015: 172-73).
Il maestro spirituale di Mircea, il giovane emaciato Herman, che incarna l’archetipo del saggio profeta, afferma che «la farfalla è stata, per i Greci e per quelli prima di loro, il simbolo dell’anima e dell’immortalità […] Senza l’immagine della farfalla non avremmo saputo mai che la nostra tomba è una crisalide. Non avremmo immaginato che l’informe e il caos delle nostre vite hanno in esse il seme di una magica simmetria». In definitiva, non è la farfalla ad essere la figurazione emblematica dell’anima, quanto piuttosto è lei ad aver inventato l’anima umana. Il bruco divenuto ninfa è una creatura enigmatica, cupa e oracolare poiché non è più creatura, ma asse di simmetria in cui il ventre diventa ala e la carne spirito, in cui la realtà sensibile diventa ultraterrena. Mircea afferma che la metamorfosi perfetta, da crisalide cerebrale a farfalla congiunta con la mente divina, avverrà solo nel momento della sua morte, quando dalla sommità del suo capo uscirà «la ninfa allucinante della mia psiche, tumida di liquido e con ali contratte, […] guardando il meta-mondo con occhi fissi». In quell’istante «la sua forza e i suoi colori occuperanno il cranio […] del Signore Iddio» (Cărtărescu 2015: 41). In questa condensazione di luce e coscienza superiore, l’effusione di forza e colori della psiche metamorfizzata in lepidottero è così ampia da coincidere con la divinità stessa: si tratta della scena a cui assistiamo alla fine di tutto il romanzo ed esprime la coincidentia oppositorum creatura-creatore, portatori a loro volta di tutte le altre antinomie che qui trovano una sintesi.
L’Autore pantocratore
All’interno del romanzo sono presenti numerose osservazioni di carattere metanarrativo. Il principale portavoce è Herman, secondo il quale «ogni opera scritta doveva essere, secondo lui, un Vangelo, o non essere affatto. Più di qualsiasi altra cosa ce l’aveva con la letteratura. Non c’era ragione, per un libro, di essere un congegno per un bel sognare, la sua esistenza non si giustificava se non come una freccia rivolta verso la salvezza. E la salvezza non era per tutti, né per molti» (Cărtărescu 2015: 188). Un libro non può essere uno svago o, peggio, un mezzo ludico, tant’è che Herman gli attribuisce un’eminente funzione soteriologica: «un libro era […] un setaccio, un meccanismo selettivo, una successione di griglie e prove sempre più difficili, in modo che l’orda di lettori che entrava nella grande sala iniziale si perdesse lungo il cammino, si dimezzasse, se possibile, dopo le prime dieci pagine e rimanesse ridotta soltanto a un decimo dopo le prime cento» (ibidem). E il paragone è schiacciante: «un libro vero selezionava sempre un solo lettore, così come […] un ovulo vero sceglieva un solo spermatozoo, perché in qualche modo lo scrittore e il lettore sono uno, […] l’ovulo e lo spermatozoo sono uno» (ibidem: 189). L’immagine del libro come setaccio escatologico fa eco direttamente alla croce di Cristo: anch’essa riveste la medesima funzione di salvezza poiché, come chi riesce eroicamente ad attraversare tutte le pagine del libro, chi passa attraverso di essa avrà la vita eterna.
E Mircea infatti si sente investito di una missione quasi messianica, tant’è che le parole che usa sono scopertamente evangeliche e dirette a istituire un’omologia di natura cristica: «Non ho avuto infanzia e neppure giovinezza, […] ho creduto sempre che sarò, per tutta la vita, un mostro solitario, senza donna, senza casa, senza una pietra su cui poggiare capo, destinato a scrivere, per anni e anni, un libro illeggibile e infinito, ma che avrebbe sostituito un giorno l’universo» (Cărtărescu 2016: 176). Il sacrificio di una vita per la restaurazione del mondo intero, invece che essere consumato su una croce, avviene sull’altare della scrivania che regge le pagine del suo manoscritto vivo e pulsante.
Un parallelo dell’immagine cristica nella spiritualità indiana lo si può ravvisare nella figura dell’avatara, termine che significa “discesa divina” e, di conseguenza, “incarnazione”. L’intimo significato di questo concetto religioso non è di una manifestazione transitoria del divino, ma della presenza reale della divinità in un essere umano, di una fusione intima delle due nature in un unico essere, che è veramente dio e veramente uomo (Barth 1906: 169-70). Nella filosofia platonica, il termine che meglio corrisponde a questa idea è parusia, che significa “presenza” dell’essenza metafisica nel mondo terreno. La parola è stata assunta dal cristianesimo per indicare il secondo avvento di Cristo alla fine dei tempi. In tal senso, è lecito affermare che l’autore si sostanzia nel romanzo secondo la doppia accezione: da un lato, esso è incarnato in ogni poro del manoscritto, come lui stesso afferma, e quindi appare come avatar sia nel senso originario sanscrito, sia nel senso informatico che ha acquisito, e cioè di proiezione virtuale di sé all’interno di un dispositivo; dall’altro, si può affermare che il romanzo si concluda davvero con un secondo avvento, ovvero la sua nuova nascita dal cervello di Herman, posteriore al primo avvento, che è quello di Mircea scrivente.
Facendo rotolare una biglia trasparente sulle pagine del manoscritto, emblema della perla della conoscenza, della goccia della quintuplice luce, ecco gli effetti che Mircea riscontra: «i fogli erano membrane, simili a quelle che mia madre portava via col coltello quando tagliava la carne, o come la vescica perlacea del pesce». Tutto è materia vivente, crescente e disfacentesi, dentro a quelle pagine illuminate dalla luce di grazia della perla cristallina, dell’occhio onniveggente: «la biglia scorreva sopra membrane umide, piene di capillari. Sotto la sfera pesante, trasparente, le lettere create con la penna biro si dilatavano così tanto che nelle loro minute cannule bluastre era possibile scorgere la circolazione del sangue» (Cărtărescu 2016: 176).
Modalità della visione e della generazione dello spazio in Abbacinante
La modalità di generazione dello spazio a partire dalla visione in Abbacinante presuppone una teoria scopica con andamento frattale, in cui l’iconopoiesi, cioè la generazione delle immagini, avviene come per un fenomeno di germinazione fisica che conduce da un elemento ad un altro, senza apparenti nessi logici ma presupponendo interconnessioni di portata cosmica. Oracoli indecifrabili, tatuaggi e arazzi appaiono come ekphrasis di un poema universale che, raccontando la storia del singolo, si cimenta in realtà nella traduzione del codice genetico dei mondi. Lo spazio dunque si genera per contiguità osmotica tra le singole entità che lo compongono: il vuoto pneumatico non esiste, esiste solo un’infinita espansione che presuppone la legge dell’entropia, del caos che fa fermentare le particelle e le dilata le une nelle altre, senza soluzioni di continuità.
In tutto ciò è possibile ravvisare una certa sintonia con l’arte indiana, dove non esiste spazio vuoto e l’horror vacui non si traduce, barbaricamente, nell’orpello cavilloso, bensì in una generatività infinita. La tendenza dello spirito indiano è di occupare lo spazio ogni volta che c’è un riferimento alle esistenze e alla vita. Ciò significa che una volta liberata, la sorgente deve scorrere senza posa in un flusso che sommerge tutto. Il cosmo è trattato in conformità alla metafisica tradizionale indù: come un’interrotta ondulazione, un oceano di forme viventi, un tutto in divenire. Perciò non esistono spigoli, i corpi non si spezzano ma s’inclinano come pervasi non da sangue, ma da linfa, assumendo le incurvature tipiche della danza. Il loro ritmo è armonioso, come in un grande sonno generato dall’Acqua primordiale (Eliade 1989: 30).
Chackra e interazioni cosmiche
Altre presenze della spiritualità orientale all’interno del romanzo si ritrovano nell’immagine del mandala, più e più volte citata, e nel costante richiamo ai sette chakra, le “ruote” o canali attraverso cui scorre la nostra energia: in Mircea, essa è concentrata nei tre chakra superiori, mentre in Victor si sprigiona solo nella dimensione inferiore. Solo la loro ricongiunzione potrà attivarli nella loro totalità, facendoli risplendere entrambi nella luce abbacinante del settimo chakra. L’universo del romanzo infatti deflagra con una scena di chiusura apocalittica, ma quest’apocalisse non disintegra, bensì reintegra tutte le polarità archetipiche dell’uomo nel legame, più forte della carne e della storia, che permette ai due gemelli Mircea e Victor di riabbracciarsi. Forse, sembra suggerire Cărtărescu, l’illuminazione della coscienza non è altro che amare nell’idiosincrasia, e laddove l’odio sulfureo vede dicotomie oppositive, la goccia adamantina dell’illuminazione del chakra superiore riconosce identità complementari.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Riferimenti bibliografici
Barth, A., The religions of India, Londra 1906: 169-170.
Cărtărescu, M., 1996, Orbitor. Aripa stângă, Humanitas, București; tr. it., Abbacinante. L’ala sinistra, Roma, Voland, 2007.
Cărtărescu, M., 2002, Orbitor. Corpul, Humanitas, București; tr. it., Abbacinante. Il corpo, Roma, Voland, 2015 (IBooks Digital Editions).
Cărtărescu, M., 2007, Orbitor. Aripa dreaptă, Humanitas, București; tr. it., Abbacinante. L’ala destra, Roma, Voland, 2016 (IBooks Digital Editions).
Eliade, M., Mitul Reintegraru; tr. it., Il mito della reintegrazione, Jacka Book, Milano, 1989.
Ferriero, D., 2018, Vanni Santoni: «Abbacinati da Cartarescu» Esquire.it»,
https://www.esquire.com/it/cultura/libri/a23721665/vanni-santoni-mircea-cartarescu/, visitato il 4 febbraio 2019.
Lipoveckij, M., 2008, Paralogii, Novoe Literaturnoe Obozrenie; tr. it., Paralogie, Aracne, Roma, 214.
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Sara Uboldi, dopo la laurea triennale in Lettere moderne conseguita a Milano, si laurea a Bologna, prima con una tesi su Odilon Redon e le Tentazioni di sant’Antonio di Flaubert, poi sul romanzo-caleidoscopio Abbacinante di Mircea Cărtărescu. Legge, scrive e si appassiona da parecchi anni di poesia e letteratura sperimentale e, in particolare, di simbolismo, alchimia, esoterismo, mistica cristiano-orientale e asiatica. Attualmente insegna lettere in un liceo artistico in provincia di Varese.
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