Il mondo dei vinti (Einaudi 1977), unitamente a L’anello forte (Einaudi 1985), costituisce uno dei libri più illuminanti e di maggiore rilievo nella letteratura mondiale sull’universo contadino e sulle culture dei lavoratori della terra assieme a Cristo si è fermato ad Eboli (Einaudi 1945) di Carlo Levi. I due capolavori, pure riferendosi a periodi e contesti diversi, emergono tra le migliori narrazioni di una letteratura antropologica ed etnografica che, nascendo ai margini di una tradizione disciplinare, contribuisce in modo essenziale al ripensamento di metodologie, teorie, ricerche e alla feconda vicinanza tra scrittura letteraria e scrittura antropologica.
Non è irrilevante cercare di cogliere il contesto storico-culturale e socio-politico nel quale nascono due opere capaci di rappresentare le vicende dei vinti, degli ultimi, di un mondo chiuso e statico che si sfarina sotto i colpi della modernità. Levi scopre e racconta con sensibilità antropologica un mondo apparentemente chiuso e statico, certo misero e dominato da una cultura e da una mentalità che risalivano a epoche e periodi storici anteriori, tuttavia non del tutto impermeabile alla modernità. Infatti, mentre lo scrittore si guadagnava l’accusa di essere un nostalgico osservatore di un mondo immobile, la vita del Paese era segnata da profonde trasformazioni come quelle introdotte dall’emigrazione e poi dal fascismo. Levi apriva, di fatto, una stagione meridionalista, in cui il Sud tornava protagonista, colto anche nella sua alterità, nel suo essere “India interna”.
Il mondo dei vinti di Revelli, frutto di attenzione e di ricerche condotte nei decenni precedenti alla sua pubblicazione, esce in un anno emblematico per la storia culturale, civile, politica dell’Italia. Il 1977 passa alla storia come uno degli anni più tumultuosi e inquieti della storia repubblicana. Un anno simbolo, per molti versi ancora più dirompente del Sessantotto che, a poco meno di un decennio di distanza irrompe, in maniera quasi imprevista, nella società italiana. Un grande movimento di giovani e donne da Roma a Bologna, dal Sud al Nord riempiva le piazze in una fase di intensificazione del conflitto sociale che sarebbe stato immediato preludio al periodo più violento degli anni di piombo, ma anche all’apice dell’affermazione del movimento femminista e delle donne. L’aborto, definitivamente sancito dal referendum del 1978, di fatto segnava il principio della fine di una società patriarcale, sganciando sentimenti e pratiche dall’ipoteca della Democrazia Cristiana. Dal 1976 al 1979 si assiste alla nascita di governi di unità nazionale, al graduale attenuarsi del contrasto tra le due forze politiche principali che avevano deciso la politica italiana, una al governo, l’altra all’opposizione. Le giunte rosse, che nascono in numerose e importanti città, sono il segno di una profonda trasformazione in corso. Il rapimento di Moro nel 1978 avrebbe impresso un nuovo corso a quella che si annunciava come la fine di un equilibrio che durava nella sostanza dal 1948.
Al primo anno della nuova gestione tecnica di Giovanni Trapattoni, la Juventus prevale sui granata alla fine del campionato con 51 punti contro 50. Quattro giorni prima di vincere il suo 17º scudetto, la squadra si aggiudica anche la prima competizione internazionale, la Coppa Uefa. Escono Amarsi un po’ di Lucio Battisti, Tu mi rubi l’anima dei Collage, L’angelo azzurro di Umberto Balsamo, il primo album dei Clash e dei Talking Heads. Nelle sale cinematografiche ci sono La febbre del sabato sera di John Badham, Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, Guerre Stellari di Lucas. Nello stesso periodo Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera pubblicano Porci con le ali (Savelli 1976) e Alberto Asor Rosa scrive gli articoli che confluiscono nel volume Le due società (Einaudi 1977). Sempre in quell’anno Saverio Strati vince il premio Campiello per il romanzo Il Selvaggio di Santa Venere (Bompiani 1977), in cui la modernizzazione ha ormai trionfato con l’emigrazione e la prepotenza della mafia. La pubblicazione postuma de La fine del mondo (Einaudi 1977) svela le note di una ricerca sulle apocalissi che Ernesto De Martino condusse per vari anni e interrotta dalla morte. Un libro incompiuto in cui le voci del mondo tradizionale venivano inserite in una grande riflessione sul senso e sulla paura della Fine.
In questo mondo che conosce trasformazioni veloci, tra reazione e rivoluzione, negli anni di una modernizzazione per molti aspetti violenta, Nuto Revelli ricollocava al centro del dibattito politico e culturale la questione contadina, l’abbandono della terra e della montagna, lo spopolamento delle aree interne. Revelli, come Pasolini (Scritti Corsari è del 1975), in quegli anni di grandi mutamenti compiva quella che poteva apparire una scelta di retroguardia e che invece si poneva come una delle più lucide e partecipate ricerche proprio sul senso della trasformazione in corso, su quel mondo contadino, scomparso e dimenticato, cui però non era subentrato nel frattempo il mondo nuovo nel quale speravano le persone che lo avevano abbandonato.
La vita, la fatica, la dimensione magica, le relazioni sociali così come giungevano dalle voci raccolte da Revelli nelle vallate cuneesi, che ormai con l’emigrazione di massa nel dopoguerra verso le grandi industrie della città avevano subito profondi processi di dissolvimento, si prestavano poco al duplice meccanismo di negazione e cancellazione costituito tanto dal tentativo di mitizzare quel folklore in chiave neoromantica, strumentalizzandolo nella cultura di massa a opera della pubblicità, delle industrie alimentari, di nostalgie ruraliste, quanto dalla sua rimozione e collocazione nel regno dell’irrilevante, del non accaduto.
Lo sguardo di Revelli è quello di un osservatore che arriva da fuori e da lontano, ma nel tempo si trasforma in sguardo da vicino, interno, fatto di partecipazione e sostenuto da una grande capacità d’immedesimazione. Il mondo dei vinti raccoglie oltre 270 interviste stenografate e successivamente dattiloscritte con cui fotografa, con fedeltà, la realtà di ieri. Una realtà non immobile. Come per L’anello forte, i due lavori di Revelli sono basati su lunghe interviste biografiche a uomini e donne delle vallate cuneesi e rappresentano pertanto anche importanti e pionieristici contributi all’affermazione e allo sviluppo della storia orale italiana. Revelli continua l’opera avviata con la raccolta di testimonianze de La strada del davai (Einaudi 1966) insieme alle lettere de L’ultimo fronte (Einaudi 1971). Interroga i contadini del Cuneese per capire che cosa avevano provato, ma anche per scavare nelle ragioni della sua stessa formazione e dei suoi comportamenti di giovane ufficiale, proveniente dall’accademia, che aveva interiorizzato la disciplina e l’onore delle armi. Proprio durante la disastrosa ritirata dalla Russia aveva constatato che i suoi soldati, per lo più contadini, lo avevano salvato dalla morte con le antiche sapienze di sopravvivenza. «Il mio dialogo con la gente contadina comincia con la primavera del 1941, nella Caserma “Cesare Battisti” del 2° reggimento alpini». I soldati al suo comando subiscono la vita militare come una malattia, stanchi, disincantati, sognando soltanto la “licenza agricola”. Sembrano affetti dalla patologia nostalgica descritta da Hofer nel 1688 per i soldati di ventura svizzeri.
Dopo la Russia, «la grande follia», era venuta «la stagione della speranza, la guerra partigiana», la cognizione di «Un mondo di poveri, dove la paura e la solidarietà si confondevano» e in cui loro, i partigiani, si ritrovano a sentirsi come ospiti. Sarà questo l’atteggiamento di Revelli, nelle sue ricerche, sentirsi ospite, attento alla miseria e ai sentimenti della popolazione. La strada scelta è quella della biografia dei protagonisti, che in Italia era priva di una lunga e solida tradizione. Le schegge di memoria delle singole testimonianze sono state impaginate da Revelli nella cornice della guerra e valorizzate come storia degli ultimi all’interno della storia generale. Durante le registrazioni Revelli ascolta il suo interlocutore (o interlocutrice) con pazienza, attenzione e rispetto dei tempi e dei modi del ricordo, pone domande e interviene a correggere il flusso della narrazione, a riportare il discorso sui temi indicati. Stabilisce, cioè, un dialogo costante con il (la) testimone, che spesso racconta in presenza della famiglia intorno al tavolo della cucina.
A questo proposito sono importanti le annotazioni contenute nel saggio di introduzione a Il mondo dei vinti, un diario parallelo alle interviste da cui apprendiamo che Nuto sceglie di parlare il dialetto per superare la diffidenza, stabilire un rapporto. Ascolta e non interrompe. Non vuole sovrapporre la sua curiosità, non offre conclusioni e spiegazioni. Così, in qualità di autore della rielaborazione delle testimonianze, Revelli riesce a mettere in comunicazione il mondo della cultura orale con il pubblico più ampio possibile dei lettori e opera la contaminazione tra due modi di essere e di parlare. Per la prima volta le voci del mondo contadino, al di fuori del romanzo, acquistano la dignità della parola scritta. La scelta stilistica di Revelli rimanda, come è stato notato, alle riflessioni che Pier Paolo Pasolini fa in quegli stessi anni sull’uso del dialetto, sul rapporto tra cultura borghese e cultura popolare (e a quelle di Asor Rosa sul tema delle due società).
Tra le novità del metodo di Nuto va segnalato anche l’uso dei mediatori, cioè di persone conosciute dagli intervistati, capaci di creare una situazione di fiducia e di confidenza verso l’intervistatore. Questa innovazione metodologica di grande rilievo è suggerita dalla conoscenza diretta che Nuto ha dell’universo familiare chiuso dei contadini. La biografia, se volessimo collocare l’originale indagine etnografica di Nuto in una tradizione di studi, aveva un antecedente illustre nell’opera classica Il contadino polacco in Europa e in America (1920), scritto da William Isaac Thomas della scuola di Chicago con Florian Znaniecki, in cui viene definita la nozione di situazione sociale come il risultato di un processo graduale tramite cui i soggetti coinvolti in un’interazione «costruiscono» la propria comprensione dell’interazione stessa e del suo contesto.
In realtà l’attenzione alla viva voce dei contadini e dei lavoratori della terra ha avuto anche forme che potremmo chiamare “ufficiali”. Basta ricordare l’Inchiesta Murattiana di inizio Ottocento o la celebre Inchiesta Jacini e l’Inchiesta Faina Nitti, nelle quali il punto di vista delle popolazioni viene riportato tra virgolette da rilevatori e relatori spesso interni ai territori di cui descrivevano caratteri geografici, sociali, modi e forme di produzione, relazioni tra le classi, condizioni di vita e alimentazione, mentalità, bisogni e desideri dei ceti popolari. Ma forse in questa direzione bisognerebbe sottolineare il ruolo della tradizione demologica delle diverse regioni italiane, soprattutto di quei folkloristi che osservano il mondo popolare senza retorica e senza rimpianto, con sguardo lucido e critico.
Vincenzo Padula, all’indomani dell’unificazione nazionale, nel “Brutium” descrive lo stato delle persone in Calabria, anticipando le denunce della letteratura meridionalistica e il metodo di un Nitti che riporta le parole dei contadini e delle altre persone intervistate. Un punto di vista emico ritroviamo poi in autori come Serao, Alvaro, Silone, Iovine; lo stesso Cesare Pavese che, nelle Langhe ma anche in Calabria (nelle lettere dal confino a Brancaleone) è attento all’espressività dei ceti popolari. Per la Lucania, oltre all’opera letteraria-antropologica di Carlo Levi, dobbiamo segnalare il carattere pioneristico di Contadini dal Sud, un’indagine sociologica iniziata da Rocco Scotellaro nel 1950 e rimasta incompiuta. Un primo ed esplicito tentativo di narrazione di storie individuali, fatte dagli stessi protagonisti, molto differenti tra loro. Attraverso le loro testimonianze e alcuni scritti lasciatigli dalla madre, l’autore riesce a dipingere il variegato quadro della civiltà contadina, fatto certamente di dolore e sconforto, ma anche carico di voglia di riscatto cui non era estraneo un certo risveglio politico. Ernesto De Martino prima e quindi numerosi studiosi che a lui si richiamano, negli anni Sessanta e Settanta, dedicheranno indagini fondamentali ai rituali, alle feste, alla dimensione magica, al simbolismo, alla sfera domestica ed esistenziale, alle condizioni di vita delle popolazioni. Qui a prevalere in generale è l’indagine etnografica, pur attenta alle trasformazioni in corso, alle culture folkloriche e alla tradizione orale osservate e ascoltate, ma il linguaggio, il vissuto narrato delle popolazioni tende a sfuggire.
Per questo Il mondo dei vinti, scritto da uno studioso che non s’inseriva nella tradizione antropologica accademica, porta una ventata di aria fresca in un dibattito utile, ma comunque appesantito dalla dialettica tra uso politico-ideologico o consumistico del folklore, distinzione tra sguardo da lontano e sguardo da vicino, ricerca endogena ed esogena. Revelli, senza eccessive teorizzazioni, senza dare come vivo ciò che era morto, senza rimpiangere il passato, offriva in presa diretta voci, memorie, descrizioni fedeli (naturalmente nei limiti dell’inevitabile selezione e intervento nella traduzione), restituendo la ricchezza e la complessità di quella che già Alvaro e Levi avevano chiamato civiltà contadina riferendosi non solo a quelle da loro osservate, ma a quelle di ogni parte del mondo.
Interessante è l’operazione condotta da Antonella Tarpino con Il mondo che manca nel consentire una diversa fruizione della ricerca di Nuto. Si tratta di un sovvertimento consapevole, che trasforma le biografie in fonti e documenti per temi e motivi. Ne viene fuori una raccolta antologica, un unico grande racconto insomma che, al termine di un complesso rimontaggio, suona come un “inedito”: perché quelle storie vere e insieme più fantastiche di un romanzo (per usare le parole di Mario Rigoni Stern) riescono a prendere le distanze anche da sé stesse, e dalle rispettive biografie, per confluire grazie alla loro forza – antropologica e letteraria insieme – in un coro potente che testimonia il senso di un’imminente, tragica fine. Ciò che balza invece in primo piano, a uno sguardo ancor più distante su quel mondo (forte e insieme vinto), è la sintassi profonda, l’insieme di codici e convenzioni capaci di orientare una cultura arcaica e tenace insieme: maestra di sopravvivenza nelle condizioni estreme della vita. Revelli fornisce un concetto di cultura che andrebbe riproposto perché anticipa, in un periodo in cui domina ancora il mito del termine fondativo dell’antropologia classica o una concezione ideologica e politica della cultura estesa alle produzioni dei ceti popolari, le recenti decostruzioni e critiche di un concetto ambiguo, almeno quanto quello di identità. «Cultura», Revelli insiste su quella parola in un’intervista a Lorenzo Mondo, «voleva dire far camminare con quaranta gradi sotto zero un mulo che trascinava una slitta», quella dei suoi soldati montanari sul Don, «e il mulo sembrava di gesso tanto era bianco e incrostato di ghiaccio». «Cultura voleva dire, – continua, – buttar via le scarpe di cartone che stringevano i piedi come morse e portavano al congelamento» fasciandoli «con delle strisce di coperte, con la paglia strappata ai tetti delle isbe». Cultura significa cammino, mobilità, scommessa, fare. Revelli raccoglie le ultime tracce di una cultura, quella contadina, dotata di una sua koinè fatta di parole (e immagini) a noi ormai solo superficialmente consuete ma che hanno un significato radicalmente altro se le si considera nella loro connessione.
Pure nelle diversità produttive, ambientali, sociali, religiose emergono i caratteri di una civiltà contadina con profonde somiglianze nelle varie parti d’Italia. La Grande Guerra è anche fondamentale spartiacque della società calabrese tradizionale. La partenza per il fronte è vissuta dalle classi popolari della Calabria come frattura, patita con paura e ostilità. Molti emigrati tornano dall’America, volontariamente o sollecitati dalla propaganda americana, per difendere l’Italia. Molti scoprono un sentimento nazionale, un’italianità nata fuori dell’Italia, i più non comprendono la guerra. Si può scegliere di combattere per l’Italia o per l’America. «Cafoni» e «polentoni», entrambi appartenenti a civiltà contadine (si veda ad esempio il diario di Vincenzo Rabito, Einaudi 2007), s’incontrano e si conoscono. In Vent’anni, romanzo autobiografico di Alvaro (1930; n. ed. riveduta 1953), Luca Fabio, un alter ego dello scrittore, in prima linea sul Carso si sente ed è avvertito come appartenente a un qualche paese meridionale, ma ben presto l’amicizia con Attilio Bandi, figlio di un generale fiorentino, gli fa capire le somiglianze tra la «gente della terra di pipe» e la gente della «terra ballerina», per i tanti terremoti e le tante alluvioni che colpivano le regioni meridionali, o «terraglia». E i soldati al fronte, man mano che si conoscevano, provenissero dalla provincia di Campobasso o da quella di Rovigo, «si accorgevano che l’Italia era fatta a un modo, che i paesi si somigliavano tutti, gli uomini stessi, gli stessi piaceri, gli stessi dolori». La guerra di Alvaro si potrebbe qualificare in senso etnico-sociale, come guerra di popoli poveri e guerra proletaria, dove si sono trovati assieme, con lo stesso spirito di quando si procuravano il pane e l’acqua, i contadini e i montanari, i fabbricatori di case e i minatori, i facitori di argini e i costruttori di case di tutte le regioni d’Italia. La guerra è «divenuta la quintessenza della fatica umana più primitiva», un diluvio, un evento tragico e sconvolgente, una catastrofe che coinvolge allo stesso modo quanti conoscono già la dura lotta per la vita e la soddisfazione dei bisogni primari.
“Italiani del Nord” e “italiani del Sud”, che al fronte scoprono assieme di essere allo stesso modo uomini ridotti alla pura e semplice sopravvivenza biologica. Il rapporto con la terra, la natura, la fatica faceva scoprire simili i contadini napoletani e piemontesi, ed era questo legame, e il pensare dei contadini non a uccidere, come pensano i civili, ma «a resistere, durare, difendersi» che li rendeva, forse, più adatti alla guerra e alla salvezza, con la loro abitudine alla sofferenza e alla vita per la sopravvivenza. In Vent’anni, Alvaro coglie un’opposizione non nella diversa appartenenza geografica, ma in un diverso modo di vivere il rapporto con la tradizione e la modernità. La differenza è quella tra chi viene dalla terra e chi viene dalla città, chi ha la conoscenza quotidiana della lotta per la sopravvivenza e chi vive in mezzo a sovrastrutture e a pregiudizi costruiti nel tempo, tra chi sente di essere parte di un unico alimento che sostanzia la terra, il cibo, il sangue, le piante, gli animali di cui si cibano le persone e chi ha smarrito questo legame. «La guerra è un mestiere d’uomini che non si sono dimenticati la terra», dove si trovano «meglio coloro che sono abituati a vivere a contatto con la natura e con la fatica umana più dura».
Le ricerche di Revelli partono dall’esigenza prima di dare voce a quei soldati che, insieme a lui ufficiale dell’esercito, erano stati traditi dal fascismo e avevano sofferto la tragedia della Russia; poi, gradualmente, è il tema della guerra a riempire i nastri del suo magnetofono e dei suoi appunti. La guerra è stato il nucleo di vita e di pensiero di Nuto: una guerra, a cui in un primo tempo aveva creduto e che poi aveva rifiutato attraverso l’esperienza partigiana, e che comunque gli era rimasta addosso anche nei segni delle ferite sul volto. La guerra gli era sembrata la grande catastrofe storica e aveva voluto capire che cosa la seconda guerra mondiale, ma anche la prima, avessero rappresentato per i giovani contadini mandati a morire senza saperne la ragione.
L’emigrazione intesa come rivoluzione dal basso mostra come i contadini poveri fossero uguali dappertutto e costituisce tra loro un elemento di avvicinamento. Nel 1884 Edmondo De Amicis, durante la traversata da Genova a Montevideo e Buenos Aires sul piroscafo Nord America, descrive la geografia errante del mangiare delle diverse Italie. Viaggiano, pigiati in terza classe sulla nave, contadini del Mantovano abituati a mangiare le tuberose nere, mondatori di riso della bassa Lombardia che non conoscono altro che polenta, contadini calabresi e lucani con il loro pane ammuffito di lenticchie selvatiche e il lardo rancido, i poveri «mangiatori di panrozzo e di acqua-sale» delle Puglie. La maggior parte di loro non parte «per spirito di avventura», ma costretta «a emigrare dalla fame», dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, «sotto l’artiglio della miseria» (Herodote 1983).
Revelli mostra come l’emigrazione verso le Americhe, in particolare verso gli Stati Uniti e l’Argentina, sia occasione di riconoscimento tra contadini del Nord e del Sud. A Napoli, l’incontro con i “terroni”, con gli emigranti del meridione, «gente ancora più povera di noi, gente che mangiava tanto e sempre, e poi vomitava». A Palermo, quello con gli emigrati algerini, marocchini, turchi, e la scoperta che «al mondo siamo tutti uguali, tutti di carne ed ossa, i cristiani e i non cristiani, i neri e i bianchi» (Einaudi 2013). Nel presentare la sua opera, Revelli scrive: «I giovani scendono a battaglioni dalle valli, accorrono dalla campagna povera e meno povera a cercare un inserimento qualsiasi nel mondo degli “altri”. L’esodo, grandioso e caotico, vissuto come scelta di civiltà ricorda l’emigrazione antica. Adesso la Francia e le Americhe le abbiamo in casa. Arrivano anche i sardi, i calabresi, siciliani, a cercare il nostro “Nord”. Nasce la nuova società industriale, e intanto si spegne la vecchia società contadina». Revelli individua un Sud all’interno del Nord, così come il Nord arriva anche nelle aree del Sud che confinano con zone depresse, vuote, perché la discesa lungo le coste, la nascita dei paesi doppi diventano occasione per affermare aree meno disagiate di quelle antiche e interne. Le valli, le pianure, le città diventano il doppio dei paesi interni del Nord. Tutto racconta una grande trasformazione, una mescolanza tra persone provenienti da aree diverse.
Il mondo dei vinti descrive un «meridione» interno al Nord, segnato da fame e miseria, sfruttato e colonizzato, da cui donne e uomini fuggono per cambiare la propria condizione, riversandosi nella fabbriche, dove arrivano calabresi, siciliani, lucani, e che conosceranno nuove forme di marginalità nella società del benessere. Così egli decide di fare parlare e ascoltare «gli emarginati di sempre, i “sordomuti”, i sopravvissuti al grande genocidio». Parole forti che dovrebbero fare riflettere quanti negli ultimi tempi hanno alimentato, in maniera strumentale, le distinzioni Nord e Sud e anche far capire come le società contadine del passato si somigliassero e avessero vissuto la stessa esperienza di emigrazione, fatta di speranze, conquiste, insuccessi. Joseph Lopreato in Peasant No More, Mai più contadini, ricerca condotta dal 1958 al 1964 a Stefanaconi (in provincia di Vibo Valentia), mostra come l’emigrazione realizzasse anche un processo di avvicinamento tra comunità contadina e società nazionale, tra paesi e mondo. Attraverso l’emigrazione, che certo ha comportato disgregazione e dispersione, il contadino affermava il bisogno di perdere la precedente identità sociale e quello di acquisire, attraverso i suoi guadagni, autostima, dignità e libertà personale. In questo contesto si inserisce probabilmente la mobilità delle donne, che erano state a fine Ottocento le prime ad emigrare dalla Calabria per l’Egitto.
Ne è un esempio il fenomeno, narrato e descritto da Nuto Revelli, delle donne calabresi che sposano, spesso per procura e a volte senza averli visti prima, uomini del Piemonte, delle Langhe che vivevano in montagne, colline, pianure in via di spopolamento. Come ricorda Nuto Revelli i primi «matrimoni misti» risalgono alla fine degli anni Cinquanta e interessano le province di Asti e di Alessandria. Poi compaiono nell’Albese i «piazzisti» dei «matrimoni per foto» e il tamtam della propaganda dalle Langhe dilaga in pianura. Donne che non si erano mai mosse dal paese attraversano l’Italia per raggiungere luoghi completamente altri, con un clima a cui non erano abituate, presso gente di cui non capivano la lingua: affrontavano fatiche enormi, si trovavano a gestire relazioni difficili come quelle con la madre del marito, che continuava a esercitare il «comando». Nel giro di pochi anni, le «calabrotte», le donne arrivate dai paesi calabresi, si inseriscono nel nuovo mondo, grazie a catene emigratorie da loro promosse, e si appropriano di pratiche lavorative e di saperi che erano comunque legati alla terra, come nel mondo di origine, e alla fine diventano protagoniste di una rivitalizzazione delle campagne, del paesaggio, della vita sociale, arrestando il declino e lo spopolamento dei paesi in erosione, mentre dai paesi di partenza arrivano segni di svuotamento e di disgregazione.
Una storia, come ricorda Revelli, delle due Italie contadine che si incontrano: «le due Italie contadine che si ignoravano da sempre, lontane, diverse, ma drammaticamente uguali di fronte alla società che conta, di fronte alla società egemone». La capacità di adattarsi e di inserirsi nel nuovo mondo (si veda a questo proposito Laura Marchesano, Sposarsi altrove, Clueb 2012) ricostruisce le ragioni economiche, sociali, culturali di questi matrimoni misti, cui non è estraneo un comune, antico legame con la terra, la produzione agricola, la fatica, il carattere patriarcale della famiglia. Sono le donne, dunque, a dare il segno del cambiamento del corso degli avvenimenti, della rottura con il tempo ciclico della natura e del raccolto.
Lo sguardo di Revelli è lucido, preciso nell’analisi storica e antropologica dell’erosione di quel mondo, scevro da qualunque sfumatura nostalgica. Alvaro in Gente in Aspromonte (1930) aveva scritto: «È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie». Lo scrittore adopera, con riferimento al mondo tradizionale meridionale, il termine “civiltà” molti anni prima di Carlo Levi (1945). La nostalgia di chi si mette in viaggio, portandosi come bagaglio il ricordo e gli insegnamenti del mondo lasciato, non è un sentimento estetizzante ma un tratto culturale essenziale.
I contadini con la nostalgia dei venti anni dicono a Revelli. «Nella miseria la gente era allegra, cantava. Una fetta di polenta, una manciata di castagne, e venivamo su come querce, il lavoro non spaventava». Scriveva, con grande capacità di anticipare i processi in corso: «Non sono un nostalgico delle società pastorali, non sono il turista che ama trascorrere il week-end in campagna. Non ho mai detto a un montanaro “beato te che respiri quest’aria sana, beato te che vivi delle nostre cose perdute”». Non c’è, infatti, nelle osservazioni di Revelli nessuna visione edulcorata del passato: «Non capivo perché la gente non scegliesse la strada aperta della ribellione, ignoravo che dopo secoli di miseria non si esce dal ghetto sparando»; «Ristrutturare il mondo contadino voleva dire emancipare la gente, svegliarla, educarla politicamente, inserirla nel sistema, demolendo una volta per sempre i confini del ghetto».
C’è la critica del fordismo e la fine delle illusioni sulla fabbrica e sulle metropoli, senza alcuno spazio per le mitizzazioni: la vecchia civiltà contadina non corrispondeva alle visioni bucoliche dei letterati, bensì a una quotidianità costituita di fame e miseria. L’imprenditore agricolo non è un contadino. La nuova civiltà industriale ha stravinto, e non vuole lasciare superstiti. Il contadino della campagna povera subisce l’umiliante emarginazione anche da parte dei suoi pari, passati nelle fila dell’industria: e se ne vergogna. È una posizione acuta, necessaria, difficile, notevolmente anticipatrice che respinge tanto la nostalgia acritica, retrospettiva, quanto le sirene della modernità. Senza l’uomo che l’accudisce, la montagna diventa un deserto, l’erosione trascina a valle le colline, le alluvioni travolgono le zone di pianura e la fascia pedemontana, cresciute grazie alla silenziosa estinzione del popolo dei monti e dell’alta collina.
«Si è spezzato il filo che legava l’uomo alla montagna. È andato perduto il patrimonio di sapienza che veniva trasmesso oralmente e con l’esempio. Non sarà facile riannodare quel filo». «È il terremoto della industrializzazione che negli anni sessanta ha sconvolto irrimediabilmente la campagna povera del Cuneese. Tutti i problemi di allora si sono poi risolti da soli, con l’esodo che si è trasformato in valanga. Ma la storia della campagna povera del Cuneese non è un episodio marginale, non è un episodio a sé. È la storia di mezza Italia, del nord come del sud, del Veneto come della Calabria. Una società che abbandona al proprio destino le sacche di depressione e di miseria, che soffoca le minoranze, è una società malata. Il Belice e il Friuli insegnano. La società che ieri non ha saputo e non ha voluto risolvere i problemi della campagna povera del Cuneese, non può risolvere oggi i problemi del Belice e del Friuli».
Non una distanza Nord-Sud, ma un Sud all’interno del Nord, tra montagna e non luoghi, tra interno e pianura, tra paesi e città, tra vuoto e pieno. Un parallelismo di condizioni e anche di comportamenti dello Stato che ci spinge a guardare in maniera diversa il dualismo Nord-Sud, a pensare la questione meridionale come una questione nazionale. Nuto Revelli appare così uno degli ultimi grandi meridionalisti. La sua opera è fondamentale per leggere il Sud, la questione meridionale, assai più di quelle, generiche e superficiali, di alcuni autori meridionali.
Revelli anticipa le posizioni che oggi vengono elaborate sui margini, sulle periferie, sui luoghi abbandonati. La questione della montagna e delle aree interne non è risolvibile se non in un contesto generale, nazionale, che si ponga il problema di riabitare l’Italia. Il passato interessa per capire la società di oggi, le sue trasformazioni, le nuove lontananze sociali, le diverse lacerazioni e le nuove richieste di liberazione. Non si torna al passato: mai più contadini. Se il ritorno alla terra, alla campagna, ai paesi saranno possibili, avverranno in forme nuove, in un mondo locale e globale totalmente mutati.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
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Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003); Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017); Il vampiro e la melanconia (2018); e, con Salvatore Piermarini, Pathos (2019). È componente di numerosi organismi scientifici, italiani e stranieri, e membro di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere. È tra l’altro responsabile dell’Icaf, la sezione italiana dell’Associazione Europea di Antropologia dell’Alimentazione. Fa parte della Deputazione di Storia Patria per la Calabria ed è nel Comitato Scientifico della Rivista “Rogerius”.
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