di Antonio Ortoleva
L’ultimo eremita siciliano vive da vent’anni sulle montagne di Milazzo. Nel piccolo eremo di campagna di padre Alessio Jeronimo, monaco ortodosso, una serie di inviti al silenzio e alla meditazione, impressi nei cartelli e nelle maioliche, interrompono piante rare e profumate, antichi oggetti di terracotta destinati a presepi o all’arredamento, trittici di campane, sia lungo il viale d’ingresso che sotto il grande patio in legno massiccio. Qui, a Santa Lucia del Mela, nella valle così chiamata per via dell’omonimo torrente, governa un silenzio maestoso e parlante, un silenzio che risalta l’eloquenza così eccellente e ipnotica dell’eremita, grazie alla sua voce baritonale e profonda, alla mimica attoriale, alla sua erudizione sconfinata.
Un silenzio cadenzato dal richiamo dei pavoni che atterrano dagli alberi o dai tetti all’ora del pranzo, dal canto monocorde delle tortore in gabbia, da una nidiata di gatti e da un pollaio poco distante, un silenzio che facilita la lettura nella piccola biblioteca dai testi rari. Certo, puoi sentire lo squillo del telefono fisso o del cellulare, che annunziano una visita o una richiesta di soccorso psico-spirituale, o il rombo della sua vetturetta, utilizzata alla domenica come parroco di Messina.
Nella città dello Stretto un secolo fa il terremoto distrusse la bella cattedrale ortodossa e decine di pregiate icone furono salvate dalla Marina greca e ancora oggi, mai restituite, fanno parte del patrimonio del museo di Atene. Padre Alessio trasporta la sua parrocchia in valigia, paramenti e oggetti sacri, celebra la funzione domenicale in una stanza concessa dai valdesi, stanza che lascerà sgombra alla fine della funzione.
Com’è facile notare, è assente un armamentario tipo grotta per casa, radici ed erbe selvatiche per cibo o medicina, lume di candela per illuminare. Sto descrivendo un eremita del ventunesimo secolo che si circonda di frigorifero, radio e ventilatore e che tuttavia ha sempre rinunciato a tv e internet nonché al frastuono della vita moderna, riparando nel deserto della solitudine per ascoltare indisturbato la voce dell’Onnipotente, dedicandosi interamente e con passione irrefrenabile ai suoi studi medievali, di cui è un’autorità mondiale misconosciuta. Suo è il volume I santi italo-greci dell’Italia meridionale (Nicola Calabria, editore di Patti), compendio storico del monachesimo soprattutto siciliano. Se poi volessimo individuare il vero deserto dovremmo leggere un libro sul tema scritto dall’egumeno (l’abate) del monastero di Xiropotamou, uno dei venti del Monte Athos, monte sacro degli ortodossi, per avere dei dubbi sulla vera collocazione del deserto: è la città o l’eremo solitario?
Non ha scelto a caso i monti Peloritani padre Alessio, nato 67 anni fa a Messina da facoltosa famiglia borghese e cresciuto in Brianza. Dopo una lunga esperienza nel monastero di Grottaferrata nel Lazio, si votò all’eremitaggio nei luoghi che, fa sapere, videro sorgere dal quinto secolo, e fino e oltre l’anno Mille, innumerevoli monasteri ed eremi bizantini, i monti sacri siciliani, poi confiscati con l’unità d’Italia, distrutti in buona parte o trasformati in residenze estive di aristocratici e gran borghesi. Un paio di ex monasteri di Punta Milazzo – quella lingua di terra che punta verso le isole Eolie sullo sfondo, adagiata sul mare come un coccodrillo sonnolente – sono stati adattati a sale banchetto. E non c’è traccia nelle guide di un percorso bizantino, un’era che fece della Sicilia un faro sicuro di studi, architettura e religiosità in Occidente.
La conversazione con padre Alessio tocca i temi più urgenti dei nostri tempi tumultuosi, assediati dalla modernità: l’ecologia, il rapporto con la terra e con la sofferenza e con la morte, il predominio della grande finanza, il ruolo delle religioni.
Coltivare la terra è una missione apostolica, un orientamento che si protrae sin dalle origini dell’uomo, ed è fatica, dedizione, è sporcarsi le mani e le calosce, un’opera che non conosce orari e che richiede solida appartenenza alla natura e al creato. Richiede, lo chiedo a voi, padre Alessio, sentirsi ramo, radice, zolla? Richiede il collegare le proprie cellule al mondo vegetale e minerale, collegarsi ai geni dei propri antenati?
«Richiede un sentirsi ospite e non padrone del mondo, uno stato che spinge ad abbellire la terra di fiori e di frutti. Un lasciare tracce di bellezza e di fecondità. L’uomo mediterraneo lascia i campi incolti, erbacce secche d’estate che corrodono il paesaggio naturale o destinate a incendi terribili, mentre il sistema idrogeologico non è più trattenuto da radici e tronchi. Roghi e inondazioni sono opera nostra, non dell’Onnipotente».
Coltivare è anche fatica e disagio, l’abbandono di quella sapienza è forse dettato dal desiderio di negare la sofferenza? La nostra epoca non tollera la sofferenza, i nostri contemporanei sono, siamo sotto anestesia tramite farmaci, droghe, programmi televisivi demenziali o uso compulsivo di dispositivi tecnologici. L’asticella di tolleranza del dolore si è abbassata grazie all’economia di scala, a partire dal secondo dopoguerra. Platone diceva che il dolore, come il piacere, può inchiodare l’anima al corpo, quindi renderla schiava della sue passioni – lo canta anche Franco Battiato – come delle sue sofferenze. Libera nos a malos, questa liberazione dal dolore che è una conquista, per certi versi civile, delle società moderne, nonché grande business delle multinazionali farmaceutiche, non può alla fine risultare un affrancarsi dalle catene fisiche? Seppur con un ritorno di avanguardie ecologiste, il lavoro manuale è stato abiurato, troppo umile e non troppo redditizio. Solo nei Paesi non ancora in linea con il sistema neocapitalista, in Asia e in Africa, l’artigianato è vivo e occupa ancora milioni di persone. I nostri nipoti sapranno usare le dita solo per digitare sui tasti?
«Partirei dalla diminuzione dei bambini nel mondo, non li facciamo. In Occidente la crescita è zero, in altre aree la natalità si è ridotta drasticamente, penso alla Cina…»
In India è scesa a due figli e mezzo per ogni donna, in Cina solo a uno dopo le massicce campagne del governo per contenere le nascite…
«Prevale un’idea negativa del mondo, un mondo che non ama i bambini… sono una fatica, vogliono tempo e dedizione mentre gli impegni dei genitori aumentano in modo esponenziale, così come le separazioni, mentre il matrimonio tra i giovani non è più un obiettivo, loro convivono e si separano con la medesima facilità del cambio di un abito. Noi non crediamo più nel futuro dell’umanità, un’umanità senza più bambini e flagellata dai mutamenti del clima. Quando rimarremo quattro vecchietti ne vedremo delle belle».
Eppure, un giorno la scienza potrebbe bloccare l’invecchiamento e aprire la porta di una futura immortalità.
«Io sono contento di morire».
E io, padre Alessio, guardo Lei ammirato che afferma ciò sorridendo. Perché?
«Perché torno tra le braccia di chi mi ha creato, tenga conto che sono un credente al massimo grado».
Cosa pensa di fare in quella posizione e per tanto tempo, direi per l’eternità?
«Guardarlo negli occhi, fare tutte le domande del caso e senza il minimo imbarazzo».
Lei sembra interessato alla morte…
«…come alla vita, con la medesima curiosità e accoglienza».
«L’Occidente maledice Dio quando muoiono i bambini, lo interpreta come una punizione divina. È la vita che se ne va, questo è un mistero insondabile. Il fiore che appassisce è una bellissima metafora della vita umana. L’uomo, a ben pensarci, tende a essere Prometeo, la divinità che si ribella a Dio e si fa mortale. La sofferenza è maestra di vita, ma la nostra società è anestetizzata. Perché soffriamo? Cristo accettò il supplizio, consapevole dei suoi limiti umani, per ascendere al cielo. Noi dobbiamo accettare i nostri limiti, l’essere umano fa una fatica immane a diventare sé stesso, a esplorare la sua anima, la persuasione dei nostri limiti è il prodromo della saggezza. Buddha ha avuto la rivelazione su come ridurre la sofferenza e fare cessare il dolore tramite il non attaccamento alle cose e alle persone».
A Sarnath, dove sono stato, a pochi chilometri da Varanasi – siamo nel Bihar in India, non lontani dal confine nepalese – Buddha sviluppò le Quattro Nobili Verità riguardo alla sofferenza. Il dolore, scopre Siddharta, non è colpa del mondo né avviene per caso, il dolore nasce dentro di noi e scaturisce dalla ricerca del benessere e della felicità in ciò che è transitorio. Quindi, mentre ci auto-condanniamo alla sofferenza, il buddhismo ci indica la via per farla cessare.
«La ricerca spasmodica del benessere fisico e materiale è una malattia dei nostri tempi, il tentativo di negare la sofferenza. Il benessere equivale al paradiso, al ricordo e alla bramosia del paradiso perduto. E nessuno vuole rinunciarvi. Il demonio del benessere è un demonio invincibile. Cristo, alla terza tentazione nel deserto, quando il diavolo dalla collina gli offrì tutto il potere e la ricchezza dei regni esistenti, disse solo una parola: “Vattene”».
Lavatrici, aria condizionata, centri commerciali, motori per viaggiare, mangiare, guarire, coltivare, abiti “tecnici” per contenere il caldo e il freddo, medicine di lunga vita. Il prontuario del confort è una conquista e l’esigenza di metà del globo, nonché l’aspirazione che verrà presto raggiunta dall’altra metà. Perché crede che l’umanità abbia preso questa direzione obbligata?
«Abbiamo confuso la conquista della felicità con i beni terreni, vogliamo avere tutto e subito. Il turismo di massa condensa uno di questi aspetti, padroni del mondo anche per un solo giorno. Ma questo fenomeno, nato in parallelo con i viaggi aerei economici, la low cost, porta anche devastazioni: un miliardo di persone in viaggio producono danni micidiali all’ecosistema, all’ambiente naturale e urbano, per smaltire montagne di rifiuti occasionali, per costruire alberghi sulle coste e in montagna, parchi tematici nel deserto, nuove autostrade e ponti, città…»
I centri storici del mondo intero tendono ad assomigliarsi: negozi turistici, milioni di tavolini in strada, comitive in sandali e pantaloncini, movide rumorose e sbevazzanti, stravolgimento della cultura urbana…
«Nelle prime pagine della Bibbia, Abele soccombe a Caino, chi riflette sa che l’umanità è malata, questo non è il mondo creato da Dio. Un grande patrimonio da rispettare è la libertà, ed è altrettanto a serio rischio, non più a causa di tiranni se non in regioni non ancora marchiate dalla macro-economia, ma dalla grande finanza. Manca il castigo come deterrente per chi infrange la legge, siamo portatori sani di malattie per i nostri discendenti, confondiamo la libertà con la soddisfazione di bisogni primari e secondari, esigiamo, i nostri personali bisogni vengono prima di quelli degli altri, accrescono l’egoismo sociale. La libertà per gli antichi era una maledizione: dove vado, a destra o a sinistra? Chi non è attrezzato sbaglia strada. L’umanità è spettatrice e talvolta complice di scelte che vanno contro l’umanità stessa. Le religioni sono una via disperata per poter scegliere senza sbagliare con l’aiuto del cielo. L’uomo, da solo, non ce la può fare. La religione deve essere vista come un’opera d’arte. Michelangelo o Leonardo non erano altri che messaggeri divini. Com’è fine e signorile, per esempio, lo scintoismo… Anche l’economia è Dio, ma il demonio ha assunto il suo aspetto, la visione massonica con l’occhio che guarda il dollaro».
L’economia, in particolare la finanza, guida i governi, determina le scelte politiche locali e globali. La via della seta cinese non trasporta amore o carovane di buona convivenza, bensì merci. Mari, terre e uliveti perforati da milioni di chilometri di gasdotti. La finanza internazionale inquina terre e menti ma fa da argine a una terza guerra mondiale perché non più conveniente agli interessi delle multinazionali, solo guerre regionali che presto si spegneranno. L’industria delle armi non rappresenta più quel grande business del passato. Eppure, io non sarei, come non sono, così pessimista rispetto al futuro.
«Sì, d’accordo, dicevo delle religioni. La cultura, il pensiero umano sono una scintilla del divino».
«Lei ha buona coscienza di sé, mio caro amico, e ha fatto buone cose. Non sono per niente pessimista sul futuro, semmai indico un presente violento e cieco, contagiato dal virus del benessere a tutti i costi. Nel corso della storia dell’umanità, le religioni sono state un faro di salvezza…»
Ma anche occasioni di guerra e di conquista, è raro oggi incontrare un santo in Occidente…
«Non lo nego, come non nego che il clero cristiano non sia all’altezza del messaggio celeste che non crolla, non è mai crollato perché è superiore ai suoi ministri. È raro trovare qualcuno coerente con la missione, gli altri sono mestieranti pentiti di aver fatto il prete. Padre Santo, gli direi, li sciolga, li mandi a casa, sono manager, di mistico non hanno nulla, non possiamo essere una casta. Il codice di Hammurabi, conservato al Louvre, le norme del diritto emanate dal re di Babilonia quasi quattromila anni fa, dispensavano dalle offese se ricevute dalla casta degli awilu, le persone di rango elevato, perché le pene non erano uguali per tutti».
L’Occidente ha generato mostri. Qual è la sua spiegazione?
«Gli occidentali hanno in varie epoche invaso il mondo, prepotenti ma geniali. Il ceppo semita penso sia una metafora, tre stili diversi, tre epopee. Hitler non è l’Europa, ma anche. Il male ha un fascino maliardo, Abele soccombe a Caino. Il nazismo affascinò i tedeschi perché l’essere umano sogna, ha nostalgia del paradiso perduto, della perfezione impossibile. Se tolgo il soprannaturale dall’orizzonte umano cercherò di costruire il paradiso a mia immagine. Hegel sostiene che la realtà è pensante ma se appare diversa da come l’ho pensata, peggio per lei. E forse anche per me. Io devo morire, ma non voglio sapere come e quando».
A proposito della morte, è una cosa seria la morte…
«Certo, non è un carnevale. Accettare la morte è uno dei principi basilari della vita. La vita non può fare a meno della morte. La dea Eos, cioè l’Aurora, si innamorò del principe troiano Titone, bellissimo nipote di Priamo, e chiese per lui a Zeus il dono dell’immortalità, ma dimenticò, lei altrettanto bella e forse di più, di richiedere la giovinezza perenne. Quando Titone divenne vecchissimo e quasi ripugnante, Eos lo trasformò in una cicala. La cremazione è una soluzione ma tende a distruggere l’idea stessa della morte… il vapore acqueo favorisce il visibile del soprannaturale…»
Dobbiamo dunque rassegnarci al peggio per l’uomo che verrà?
«Ammonire e avvertire, sì. Rassegnarci, mai. Compito di chi governa è disegnare una nuova via del progresso saldata ai princìpi etici della convivenza, del rispetto degli altri e dell’ambiente, dei consumi consapevoli, della sapienza nel risolvere le controversie internazionali. Principi dettati dai Padri che hanno fondato le religioni umane. Senza ciò, il pianeta intero si inoltrerà rassegnato, questa volta sì, verso la propria distruzione».
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, nonché del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore.
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